Il 23 ottobre scorso sono intervenuto a Montevideo alla tavola rotonda Italiani nella sponda orientale del Plata, organizzata dal giornale La gente d'Italia e dal suo direttore Mimmo Porpiglia nell'ambito della Festa degli italiani. Di seguito la mia relazione.
Buon giorno
e grazie a tutti per essere qui.
Grazie agli organizzatori e al direttore Porpiglia per l'invito a tenere un mio
intervento e per la possibilità che mi dà di parlare dell'emigrazione
italiana in Sud America.
Devo dire che mi dà emozione farlo qui, nella terra che è uno dei due mondi
di Garbiladi.
Emozione e timore, perché in questi casi il rischio è di cadere nella
retorica o, peggio ancora, di non essre all'altezza del compito.
Lo dico perché, da Garibaldi in poi, i nostri connazionali che hanno camminato
su questo suolo, lo hanno fatto con gli stessi sentimenti di Garibaldi, con le
medesime passioni, con eguali ambizioni peronali, seppur con diversi obiettivi.
Ma ciò che conta non è l'obiettivo, quanto la la capacità di sognarlo, il
coraggio di cercarlo, la forza e la determinazione per relaizzarlo.
E i nostri connazionali in questa parte del mondo hanno mostrato, in più di
150 anni di emigrazione, capacità, visione, forza e determinazione.
E lo hanno fatto in modo diverso da come lo hanno ha fatto il resto
dell'Europa.
Già, perche' dobbiamo ricordare, col metro lungo della memoria, la stori di
questo meraviglioso Continente ferito e capire come si è sviluppato, con
apporti di tipo diverso e non sempre nobile.
In questo senso, dobbiamo ricordare che questo Continente è il frutto
dell'occupazione e dell'immigrazione europea.
E' il continente dove i regni e grandi stati nazione europei hanno esportato la
propria missione coloniale, hanno sfrtuttato le materie prime, le risorse e le
ricchezze locali, hanno spesso sfruttato (e annientato) le popolazioni
indigene.
E quasi sempre tutto ciò lo hanno fatto ad esclusivo vantaggio di una economia
europea che andava sempre piu' crescendo e consolidandosi nella formazione di
classi borghesi, imprenditoriali, manufatturiere che avrebbero fatto
dell'Europa prima e degli USA poi le grandi potenze mondiali che abbiamo
conosciuto per tutto il '900.
Quindi il progetto, per diversi secoli, è stato sempre lo stesso: occupare i
territori dell'America Latina, sfruttarne le materie prime, gli spazi, le
risorse e la mandopera, ricavarne produzione a basso costo e commercializzarla
e distribuirla in Europa e in Nord America, così da far crescere l'industria
di trasformazione, la classe borghese e le ricchezze di quei paesi a danno di
questa parte del mondo.
In quest'opera sono stati attivi protagonisti prima i diversi regni e stati
nazione europei (Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra) e
successivamente e con maggior forza gli USA.
Basti ripercorrere la storia coloniale di questo Continente e le lotte di
indipendenza per sentir risuonare i nomi degli stati che ho menzionato.
Ma se lo si fa, ci si accorgera' che in questa storia non compare mai la parola
Italia.
L'Italia non è stata parte di imprese coloniali in Sud America, di
sfruttamento di materie prime o di popolazioni indigene, di protettorati o
colonie.
Nessuno stato dell'America Latina ha dovuto fare una guerra di indipendenza per
rendersi autonomo dall'Italia.
Eppure è risuonato sempre e forte, qui in Sud america, l'eco degli italiani.
Quello si.
Ma sempre come popolo, mai come Regno, come Stato, come Nazione.
Perché l'Italia, quaggiù, c'è venuta con i suoi figli, con i suoi contadini
che sostituivano gli schiavi africani o i lavoratori indigeni, con i suoi
manovali, con le sue intelligenze ingegneristische e artistiche, persino con i
suoi eroi liberatori come quel Garibaldi che ho citato in apertura.
Quindi se di emigrazione e presenza italiana in Sud America vogliamo parlare,
dobbiamo parlare di una emigrazione e presenza fraterna.
Fraterna nel senso della comune sofferenza dei popoli indigeni, dei popoli
sudamericani resisi liberi dal colonialismo e dalla dipendenza legale dagli
stati europei, ma non dalla condizione di sfruttamento economico,
imprenditoriale e politico.
Fraterna perché emigrazione figlia della volontà di riscatto dalla miseria,
dalla fame, dalla dittatura.
Fraterna perché chi emigrava dall'Italia per il Sud America emigrava per
venire a lavorare e a cercare dignità e non per venire a colonizzare terre o
popoli, per sfruttare materie prime e risorse, per produrre ricchezza da
portare in altri luoghi.
Chi partiva dall'Italia per venire quaggiù lo faceva perché in questo
quaggiù credeva come a una terra di riscatto e non come a una terra da
spremere e sfruttare.
Ecco, dunque, qual è la differenza che, per ciò che riguarda l'emigrazione
italiana in Sud America, mi porta a parlare da un lato di Portogallo,
Spagna, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra, USA e dall'altro di italiani.
Perché da una parte c'erano gli Stati nazione europei e dall'altra c'era il
popolo italiano.
I primi si muovevano per interessi economici creando ricchezza nei loro
territori a discapito di questa parte del mondo che sfruttavano, i secondi si
muovevano per cercare il proprio privato riscatto creando ricchezza e
integrazione in questi territori.
Ecco, dunque, cos'è l'emigrazione italiana e cosa la caratterizza rispetto
alle altre: è il movimento spontaneo e di necessità di un popolo immenso e
coraggioso che non aveva alle spalle una nazione che li sosteneva e indirizzava
per sfruttare altri paesi e altri popoli a fini di ricchezza interna.
Ma un popolo che cercava dignità tra altri popoli, sfruttati o meno, sapendo
con essi condividere il dolore della propria storia, la sofferenza del proprio
lavoro, la dignità del riscatto collettivo.
In questa storia, quindi, gli italiani ce l'hanno fatta.
Si sono integrati, si sono realizzati, hanno amato e si sono fatti amare, hanno
contribuito a produrre ricchezza in loco senza strapparla e portarla via.
Sono diventati popolo tra i brasiliani, venezuelani, argentini, cileni,
uruguayani.
Sono diventati ciò che oggi siete, quel popolo che viene omaggiato e
festeggiato all'interno del massimo organo istituzionale di rappresentanza: il
parlamento di questo splendido Paese.
L'emigrazione italiana siete voi, siete l'Italia, siete l'Uruguay, siete i
cittadini di questo complesso,difficile e inafferrabile mondo.
Siete gli eroi di due mondi e i Garibaldi di ogni epoca e luogo. Siatene
orogliosi e fieri.
Grazie
domenica 23 ottobre 2016
lunedì 1 agosto 2016
L'umanesimo degli italiani nei nostri tempi mitici
Lunedì primo agosto sono stato intervistato da Riccardo Giumelli per La voce di New York e ho detto queste cose. Buona lettura.
Da tempo si occupa di emigrazione, tema su cui ha scritto "Andarsene
sognando. L’emigrazione nella canzone italiana". Con Eugenio Marino
abbiamo discusso di italicità e di made in Italy che, ci ha detto, deve andare
oltre il marketing.
Raccontare la cultura italiana e gli italiani nel mondo è uno dei temi di
questa rubrica. Per saperne di più e qualcosa di nuovo abbiamo incontrato
Eugenio Marino, responsabile nazionale del Partito Democratico per gli italiani
nel mondo, che da tempo si occupa di emigrazione, tema sul quale ha scritto un
libro molto intrigante: Andarsene sognando.
L’emigrazione nella canzone italiana, una ricostruzione
storica dell’Italia degli ultimi 150 anni attraverso la musica italiana che
parla di emigrazione.
Innanzitutto ci racconti come arriva a fare politica e soprattutto ad
occuparsi di italiani nel mondo all’interno del PD.
“Ho cominciato da bambino, al fianco dei miei genitori e loro coetanei, in
un piccolo paese della Calabria, dove la domenica mio padre mi faceva
distribuire l’Unità e poi, crescendo, cominciavo a fare gli annunci per i
comizi, distribuire i volantini fatti al famoso ciclostile, attaccare i
manifesti e fare vita di sezione. A quei tempi – anni Settanta e Ottanta – le
sezioni del PCI e della FGCI del mio paese erano molto attive e vi era una
comunità unita nella quale si respirava un vento di speranza e condivisione,
che derivava da una forte tensione etica e politica. C’erano giovani brillanti,
ai quali la generazione precedente uscita dalla Guerra aveva saputo trasmettere
una severa cultura politica e una voglia di riscatto collettivo. E questo
valeva anche per i nostri avversari di allora, seppure parliamo di un paese di
circa 2.000 persone. Poi c’era la Federazione del PCI di Crotone, territorio
delle lotte contadine di Melissa e la città operaia della Montedison, epicentro
di battaglie politiche e sindacali storiche, che rappresentava un caso politico
in positivo. Quella Federazione era chiamata la Botteghe Oscure del Sud e io la
frequentavo settimanalmente coi miei genitori fin da bambino. Di quegli anni mi
resta, quindi, un senso di comunità e di appartenenza che sono, forse,
l’essenza più autentica della politica. E tutto questo contesto, vissuto
attraverso l’impegno diffuso di intere generazioni prima della mia, ha inciso
molto sulla mia formazione, spingendomi da sempre a fare politica, seppure
senza mai ricoprire alcun ruolo e senza mai cercare o accettare alcun tipo di
candidatura”.
E l’interesse per gli italiani all’estero quando è iniziato?
“Dopo la laurea a Roma ho potuto collaborare da volontario al Dipartimento
Internazionale dei DS. Erano gli anni storici dei governi de l’Ulivo. Allora si
modificò la Costituzione (non è vero che non si riesce mai a cambiarla questa
Carta), si introdusse la Circoscrizione estero e si andava verso il varo della legge ordinaria per il
voto all’estero. Il mio impegno si concentrò, nel Dipartimento esteri, sulle
politiche per gli italiani nel mondo e lì cominciai a ricoprire qualche ruolo:
sono stato prima Responsabile comunicazione all’estero dei DS e poi del
Coordinamento de L’Unione per gli italiani nel mondo, vice responsabile dei DS
per gli italiani all’estero, componente del Coordinamento nazionale del PD per
gli italiani nel mondo e membro del Comitato di controllo della Presidenza del
Consiglio su Rai International. Fino a diventare poi Responsabile nazionale del
PD per gli italiani nel mondo”.
Gli italiani nel mondo sono da molti, soprattutto in politica e negli
affari, considerati i primi ambasciatori dell’Italia nel globo. Non le sembra
che spesso siano parole piuttosto che fatti? Nel senso che il bisogno di Italia
di questi italiani nel mondo è molto più forte delle attenzioni e del riconoscimento
che l’Italia dà loro?
“No, non proprio. Nel senso che gli italiani nel mondo sono naturalmente e
realmente i primi ambasciatori dell’Italia, perché rappresentano il nostro
Paese agli occhi di chi li ospita, la nostra cultura in tutti i suoi aspetti, i
nostri pregi e i nostri difetti. E sempre naturalmente e di fatto sono
‘consumatori’ di prodotti italiani che sentono loro, che fanno parte della loro
vita, della loro storia (familiare e nazionale), dei loro gusti. Poi, nel senso
critico che lei giustamente sottolinea rispetto alla politica e all’impresa, in
entrambi questi ambiti non si riesce a fare realmente sistema e a tenere questi
‘ambasciatori naturali’ dell’Italia e dei suoi affari in una rete organizzata,
con una visione chiara e universale, un progetto preciso, una geopolitica
adeguata ai tempi, delle strutture razionali e flessibili, delle risorse
adeguate. E, inoltre, gli stessi italiani in Patria, per decenni hanno
coltivato un sentimento di rimozione della storia migratoria del nostro Paese.
E ancora oggi, guai a parlarne o a riconoscere negli immigrati che arrivano da
noi gli italiani che si sono dispersi nel mondo. Guai a ricordare che essi
hanno agito esattamente come i migranti di oggi, hanno subito le stesse
discriminazioni, hanno seminato le medesime paure e hanno compiuto i medesimi
crimini: era italiano l’assassino del presidente della Francia, Carnot, era
italiano il terrorista che compì la strage di Wall Street del 1920 (che rimarrà
la più sanguinosa della storia degli USA fino quella di Oklahoma City del 19
aprile del 1995). E potrei continuare anche sul versante dell’integralismo
religioso di cui erano accusati gli italiani nei paesi laici. Quindi, gli
italiani nel mondo sono, nel bene e nel male, realmente degli ambasciatori
naturali dell’Italia e dei suoi prodotti e, lo sono perché ricordano e amano il
proprio Paese anche se il proprio Paese non riesce a coltivarne a pieno le
potenzialità, sia per un problema politico che culturale in patria. Insomma,
per dirla con le parole che usa l’artista Cataldo Perri nella sua opera Bastimenti,
‘i nostri emigranti certamente ricordano più di quanto siano ricordati’.
E questo è un problema anche per l’Italia e non solo per gli italiani nel
mondo”.
Conoscerà certamente questo nuovo paradigma coniato da Piero Bassetti, e di
cui tanto scriviamo su questa rubrica, dell’Italicità. Cosa ne pensa?
“Lo trovo molto appropriato. Bassetti ha avuto una felice
intuizione, che è una sintesi di molti e diversi concetti legati
alla storia del nostro Paese, alla sua cultura, al suo know how, alla
sua diaspora globale più che centenaria, allo stile di vita e allo stile delle
forme italiane, al nostro concetto del bello, alla voglia dei non italiani di
vivere, consumare o creare all’italiana, alla necessità di stare al passo coi
tempi. Oggi viviamo infatti un’epoca mitica (anche se il termine è stato ormai
banalizzato e lo si usa per qualsiasi sciocchezza). Mitica, infatti, nel senso
di straordinaria e globale, nella quale si susseguono eventi grandiosi, nel
bene e nel male, nella quale ogni evento in un angolo del Pianeta può avere
ripercussioni su tutto il Globo. Un’epoca nella quale le potenzialità, gli
strumenti e le ricchezze sono enormi e potrebbero dare una vita degna a tutti e
nella quale le disuguaglianze e gli squilibri hanno raggiunto punte mai
conosciute nella storia dell’evoluzione umana. E un’epoca nella quale l’uomo
del tempo è, più che in ogni altra, l’uomo in movimento, quello che si sposta,
il migrante. E si sposta proprio per eventi mitici: guerre, fame, dittature,
siccità o desiderio di realizzazione, anch’esso una cosa mitica. Ecco, in
questi tempi, Bassetti supera il concetto di nazionalità e lo colloca in una
dimensione mitica – storica e globale – adeguata ai tempi. Quindi non parla più
di cittadini italiani, o di oriundi, o di partner dell’Italia, ma parla di
italici, superando confini, nazionalità e cittadinanza, prevedendo
cosmopolitismo e contaminazione, senza negare o cancellare una storia o una
tradizione o una evoluzione. Ma anzi prendendo da questa tradizione e cultura
proprio un tratto identificativo e fondante, cioè quello della mescolanza
derivante dalla solidarietà e dal saper accogliere e integrare persone, culture
e saper fare diversi”.
Il made in Italy ha certo costruito la sua grande forza e diffusione anche
con il contributo degli italici nel mondo che lo ha promosso e consumato. Quale
potrà essere il contributo futuro in questo senso in un mondo sempre più
glocale?
“Il made in Italy si è diffuso in maniera massiccia
anche per il contributo notevole degli italiani nel mondo prima e degli italici
dopo, per un fatto naturale, come si diceva. Ma ha costruito la sua forza
proprio su alcune caratteristiche originali, culturali e di qualità, di gusto,
di particolare armonia di forme e materiali, di tradizioni. Insomma, il made in
Italy è un qualcosa di molto complesso che va molto oltre un semplice prodotto,
che sia esso materiale, culturale, ideale o culinario. E la complessità gli
viene dal fatto di tenere insieme tutto ciò che è la storia millenaria del
nostro Paese, del Mediterraneo e dell’Europa tutta, di cui l’Italia è sintesi e
gli italici sono rappresentazione nel mondo. Quindi essi possono avere, ancor
di più nei tempi mitici di oggi, quella funzione di esempio di mescolanza e
integrazione, di ponte tra culture, know how e prodotti. Ma possono
farlo solo se non perdono la centralità dell’Umanesimo che caratterizza e ha
caratterizzato il nostro Paese, quella capacità di non pensare solo al profitto
e al sistema di produzione, ma anche alla persona che produce e che è parte del
prodotto stesso, perché nel produrre ci mette se stesso, la sua storia
personale e collettiva e la sua realizzazione attraverso il lavoro. Se, dunque,
per quella persona il lavoro è sfruttamento ai fini di lucro per altri, il suo
impegno, la sua creatività e il suo valore saranno una cosa. Se il lavoro è
invece realizzazione della propria storia (personale e collettiva) e della
propria persona, allora impegno, creatività e valore saranno altra cosa e
migliore”.
Ad un recente incontro pubblico ha sostenuto che “occorre evitare che si
affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione
di penetrazione commerciale e di marketing”. Che cosa intendeva con questo?
“Un po’ ciò che ho detto qui e che vale sia per chi produce qualcosa che
per chi la consuma. Gli italici non devono essere pensati come tanti
rappresentanti commerciali a costo zero per le imprese che producono, ma come
persone con una storia, una dignità, un percorso di vita complesso e spesso
anche sofferto. Quindi uomini e donne che consumano, certamente, ma con un
grande orgoglio per ciò che sono. E per ciò che sono vogliono e devono essere
considerati, non per ciò che fanno o possono fare per l’Italia e per il made in
Italy che pure amano e li rappresenta. Se nel costruire una politica e una rete
per gli italici l’approccio è questo, ci sarà orgoglio e volontà da parte loro
e, di conseguenza, arriverà anche e per convinzione la penetrazione
commerciale, in modo naturale. Cioè deve esserci, nel guardare a questa
comunità, il giusto riconoscimento delle persone, delle loro storie e delle
loro dignità in un’ottica collettiva, di comunità valoriale. Stesso
discorso vale per chi produce. L’impresa deve ricordare che esiste, oltre che
per il capitale che vi è investito, anche per la gente che vi lavora e investe
la propria capacità creativa. Quindi il profitto deve tornare percentualmente e
senza le enormi disuguaglianze di oggi, anche a chi lo ha generato e prodotto
(siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare
solo i capitali investiti e nelle tasche di pochissime e ricchissime persone.
Deve esserci un giusto equilibrio. Le riporto due esempi che fa Antonio
Galdo nel suo bel saggio L’egoismo è finito e che per me sono
paradigmatici dell’impresa che tiene conto di tutto ciò, rispettando la
persona, rimanendo nel solco della nostra storia, creando prodotti di grande
qualità e originalità, producendo profitto e ricchezza senza generare squilibri
esagerati. Il primo si colloca nella prima metà del secolo scorso, è il modello
del welfare aziendale e della Città dell’Armonia di Gaetano Marzotto dove, ad
esempio, la Cassa di previdenza gestiva le pensioni dei dipendenti che
lasciavano l’azienda, la Cassa di soccorso erogava prestazioni sanitarie, la
Società del magazzino pensava all’acquisto e allo spaccio di generi alimentari
e della legna a prezzi bloccati, per impedire speculazioni e affrontare
l’aumento del costo della vita in tempi di crisi. Il secondo e contemporaneo a
noi, è l’esempio della Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che porta in azienda
gli asili nido, la baby sitter a casa dei dipendenti in caso di emergenza, le
visite specialistiche gratuite, il check-up per i parenti anziani, il carrello
della spesa con olio, pasta e formaggi, la Banca ore o il job sharing,
cioè il lavoro condiviso in famiglia: se un lavoratore ha problemi che si
protraggono (per esempio di salute) può farsi sostituire da un parente o se un
figlio sta finendo gli studi e vuole imparare un mestiere o formarsi può
sostituire il padre o la madre. Ecco, sono esempi di come si può e deve evitare
di pensare esclusivamente alla funzione di penetrazione commerciale e marketing
e di come si può pensare come comunità valoriale e creare ricchezza partendo
dalla centralità della persona, della sua storia e della sua cultura in un
nuovo umanesimo, anche e soprattutto in tempi di crisi”.
Ci racconta un aneddoto che ha appreso in questi anni di lavoro con gli
italiani all’estero che meglio li racconta?
“Ahahah… sì, volentieri. Si tratta di una lettera che ci venne
inviata molti anni fa a doppia firma da presidente e vice presidente di una
associazione regionale e con la quale ci si chiedeva un aiuto per avere dei
contributi per ristrutturare la sede nella quale erano impegnati a diffondere
la lingua, la storia e la cultura italiana. Il testo della lettera, che per
ovvi motivi privo dei riferimenti a persone, luoghi e nomi di associazioni, era
scritto esattamente così: ‘La Comissione Direttiva della ASSOCIAZIONE […]
NEL MONDO ‘[…], a l’onore di partecipare in questa cena insiemi a tanti […],
che si preoccupano di difundiri la storia e la cultura Italiana. Qui insiemi a
diversi attività si insegna la lingua italiana, e folclori […]. Per potere
svogliere questi progetti abbiamo construito in primo piano una sala e ora
chiedemo cortesemente se Lui podrebbe tramitare dal Governo Italiano un pìcolo
subsidio per mettere il tetto gia che ni vediamo impossibilitati per motivo
econòmico. La sala di sopra a 100 metri cuadri. Nella sicurezza che Lui ni
terra presente vi ringrazziamo caramente aspetando una pronta risposta e
porgiamo i nostri férvidi e cordiali saluti’. Da allora la tengo sempre
appesa nel mio ufficio perché rappresenta profondamente il legame sentimentale
e culturale degli italici nel mondo con l’Italia. E non importa quale sia il
loro livello di istruzione o la loro capacità di parlare, scrivere o fare
impresa. Sono e si sentono parte di questa comunità, della quale avvertono il
valore storico, culturale e linguistico e si ingegnano in ogni modo per tenerlo
vivo e alimentarlo. E questa gente, anche umile, pur non conoscendo la lingua,
ha creato nel mondo migliaia di strutture che poi hanno fatto un grande lavoro
di promozione, pagando professori in grado si insegnare con qualità. Ecco
perché questa lettera, nella sua umiltà, è dignitosissima, bella, emozionante e
paradigmatica di cosa sia stata e sia questa nostra grande comunità, capace dal
niente di costruire imperi con al centro la persona e la sua dignità”.
Infine, Lei ha fatto una tesi di Laurea su De André, Guccini e De
Gregori. Riassumendo in poche parole, e capisco quanto possa essere
difficile, qual è stato il più grande insegnamento che questi grandi artisti le
hanno dato sull’Italia e sull’essere italiano?
“Beh, da loro ho imparato a usare la sensibilità per riconoscere noi
nell’altro, anche il più diverso, e capire che in fondo siamo tutti uguali, con
gli stessi bisogni e le stesse ambizioni. Questo mi ha fatto capire un po’ ciò
che dicevo sopra: il tratto storico italico, che è quello dell’accoglienza,
della mescolanza, del cosmopolitismo. Ed è tutto questo mescolare storia,
popoli, culture, prodotti, che poi fa ciò che siamo. Guccini, nell’intervista
che gli feci proprio per la tesi, per farmi capire come nascevano le sue
canzoni e cosa fossero rispetto a tutto ciò che leggeva, ascoltava o da cui
traeva ispirazione, mi disse: ‘Io amo fare il paragone […] con il maiale […].
Dai tanto cibo ad un maiale e poi quando fai il prosciutto […] non sai più
quale cibo fosse quel prosciutto’. Ecco, questo vale per l’italico o per
l’essere italiano: abbiamo avuto nella nostra storia patria l’occupazione dei
popoli più diversi, abbiamo noi stessi girato il mondo, ci siamo mescolati con
le culture, i saperi, le vite di ogni angolo del pianeta, quindi siamo oggi una
sintesi di tutto ciò, siamo un prosciutto fatto da tutti i cibi che abbiamo
consumato per secoli, ma ormai impossibili da distinguere gli uni dagli altri’”.
mercoledì 13 luglio 2016
L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere
"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere" Intervento di Eugenio Marino a Bruxelles |
Buongiorno a tutti.
E grazie all’INCA per aver organizzato, ancora una volta, questo importante evento.
Io credo anche sia importante il formato con il quale è stata costruita questa iniziativa, coinvolgendo insieme al mondo sindacale
italiano ed europeo anche espressioni del mondo della cultura, delle realtà associative e della rappresentanza politica.
E credo sia utile anche averlo fatto con l’intera rete degli operatori INCA nel mondo, poiché Marcinelle – o eventi come Marcinelle – non sono un tema locale, ma globale, come la stessa “Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” che Marcinelle rappresenta ci ricorda.
Non si tratta di semplici ricorrenze o argomenti di settore, ma di simboli e moniti universali.
Con Marcinelle non si ricorda solo un episodio in un determinato momento storico, ma una condizione umana, sociale, lavorativa e politica universale.
E se nel quotidiano delle singole persone, dei popoli, dell’impresa e della politica, la si rèlega nel dimenticatoio, quella anziana e saggia maestra che è la memoria storica, illustrandoci la fotografia dell’attualità e della contemporaneità del nostro complesso e disordinato mondo, ce la ricolloca invece nell’attualità.
Un’attualità fatta di situazioni, bisogni, principi e contenuti sempre validi.
La Marcinelle di 60 anni fa non era solo una miniera dalla quale si estraeva carbone e nella quale si è verificato un disastro.
Ma era la fotografia di un mondo fatto di stati nazione che, dopo una terribile guerra mondiale, cercava di rimettersi in moto ricostruendo se stesso e un sistema economico, politico e sociale in Europa, anche attraverso la costruzione di una nuova Europa integrata e sovranazionale: quella del sogno di Spinelli.
E questa ricostruzione in buona parte vi fu, su nuove basi politiche e con successi anche economici generali, soprattutto per Inghilterra, Francia, Germania e Benelux.
Ma fu fatta tutta a spese dei paesi più deboli dell’Europa di allora (o di alcune zone di questi) e dei bisognosi delle fasce sociali più deboli, quindi dei migranti.
Soprattutto quelli italiani e, tra questi, quelli del Sud Italia.
L’esodo dei lavoratori migranti dall’Italia fu il più massiccio d’Europa e si svolse anche sulla base di accordi tra paesi ai quali l’Italia forniva quella manodopera che consentì poi, ad esempio al Belgio, di uscire come vincitore della battaglia del carbone.
Difficile, però, dire quale sia stato il vantaggio per il nostro Paese se, a conclusione di quel ciclo, l’Italia ci rimise circa 800 morti nelle varie catastrofi (488 solo dal 1946 al 1955, di cui 136 solo a Marcinelle); decine di migliaia di invalidi per infortuni o per silicosi; migliaia di famiglie disgregate e disperse e, conseguentemente alla partenza di manodopera italiana per l’estero, desertificazioni di intere aree del Paese, contrapposta a un vantaggio competitivo dei paesi del nord Europa che, come possiamo constatare, dura ancora oggi.
È poi difficile ricordare qui – e in poco tempo – lo scontro quotidiano degli interessi che si palesava nell’insufficienza delle “gerarchiche” dichiarazioni sulla libera circolazione, destinate a rimanere pura retorica, visto che non si procedeva ad armonizzare le difformi legislazioni nazionali del lavoro dei singoli paesi della Comunità;
non si abolivano le discriminazioni nei confronti dei lavoratori stranieri;
non si raggiungeva una completa parità di trattamento.
E in questo contesto, il governo italiano portava le sue responsabilità, poiché essendo impegnato a perseguire una politica di emigrazione, non si preoccupava delle modalità di applicazione reale dei Trattati e dei provvedimenti contenuti nel “Protocollo” del ’46 col Belgio o quelli che sottoscriveva con altri paesi.
Governo e autorità consolari italiane, quindi, in Belgio come in altre realtà, erano concentrati su priorità di carattere demografico ed economico e tralasciavano condizioni, diritti e trattamento reale degli italiani.
Permettetemi, dunque, una parentesi, poiché quest’anno ricorre, insieme al 70° degli accordi Italia-Belgio, del 60° di Marcinelle e quello dell’INCA, anche il centenario della nascita di Paolo Cinanni:
un intellettuale meridionalista ed esperto di emigrazione, cofondatore insieme a Carlo Levi della Filef e autore di quell’importante e attuale libro che è Emigrazione e imperialismo.
Libro che meriterebbe una attenta rilettura in chiave di moderna globalizzazione.
Cinanni scriveva nel 1970 che “l’Italia è l’unico paese della Comunità che attua a sue spese la libera circolazione della manodopera:
l’unico, quindi, che ha interesse a contrattare e a far rispettare, poi, le norme di tutela del lavoro immigrato;
ma come vi ha provveduto il governo italiano?
"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere" Eugenio Marino, Susanna Camusso, Morena Piccinini a Marcinelle |
il fine politico interno che volle realizzare, con l’emigrazione, la dispersione di una forza di classe antagonista;
e, infine, l’incapacità dei burocrati ministeriali preposti a compiti loro non confacenti, con l’esclusione dei sindacati dalla trattativa comunitaria, tutto ciò ha letteralmente tradito i nostri interessi nazionali, insieme con gli interessi dei nostri lavoratori all’estero.
Potrebbe sembrare follia – prosegue Cinanni – ma la più ferma posizione assunta dal nostro governo è stata proprio quella contro la più forte e prestigiosa organizzazione sindacale italiana, con la più odiosa discriminazione nei suoi confronti:
ciò ha privato il lavoro italiano all’estero dell’apporto di conoscenze e della forza contrattuale propria dell’organizzazione sindacale di classe.
Di fronte al padrone straniero il nostro emigrato è rimasto spesso senza tutela.
I rapporti stessi fra i nostri lavoratori e le imprese straniere non vengono ‘contrattati liberamente’, né dai singoli né dalle organizzazioni sindacali di loro fiducia:
sono invece i funzionari dei nostri ministeri degli affari esteri e del lavoro che accettano per essi, puramente e semplicemente, le condizioni offerte unilateralmente dalle imprese, senza che alcuno si curi poi di farle almeno rispettare.
Parte, dunque, da qui, dalla mancata presenza del sindacato nella trattativa del rapporto fra il nostro lavoratore e l’impresa, fra il nostro paese esportatore e gli altri paesi importatori di manodopera, la deficiente tutela del nostro lavoro all’estero:
da qui il ‘lento progresso’ della stessa politica sociale comunitaria […].
Ministeri, ambasciate e consolati debbono fornire ai legittimi sindacati tutta l’assistenza necessaria per la tutela, sul posto, del nostro lavoro all’estero:
ma non possono, per la loro stessa natura, sostituirsi ad essi”.
E ancora, Cinanni aggiungeva che “È anche merito della vitalità e del dinamismo della popolazione italiana, […]
e soprattutto dell’azione condotta in alcune memorabili lotte combattute nei bacini minerari, […]
se le autorità belghe e della CECA sono state costrette a intervenire e prendere alcuni provvedimenti a loro favore;
[…] è dovuta alla medesima azione unitaria dei lavoratori belgi e stranieri, la conquista della legge sulle malattie professionali, ch’era stata per anni ‘il cavallo di battaglia dell’emigrazione italiana’ in Belgio”.
Questo per dire, dunque, con le autorevoli parole scolpite da Cinanni, quanto non sia sufficiente, non basti, il lavoro dei governi e della politica di uno Stato per garantire integrazione, diritti e progresso degli uomini, dei lavoratori, dei migranti, delle stesse istituzioni europee.
Quanto sia importante anche il lavoro e l’opera dei lavoratori e del mondo associativo, dei corpi intermedi come i sindacati.
Quanto lo era in passato (e oggi possiamo misurarlo) e quanto lo è oggi, anche se non sempre lo vediamo e lo riconosciamo, quindi tendiamo a sottovalutarlo o, peggio, a prenderne le distanze e a procedere per semplificazioni e in solitudine o, al massimo, con interlocutori privilegiati e ben disposti, evitando l’impegno paziente e faticoso del confronto e della concertazione ampia.
E mi spiace che anche pezzi locali e autocentrati del mio Partito si spingano, anche in momenti importanti e delicati come questi, anche in Belgio, nella pericolosa emulazione di modalità ad excludendum dei sindacati, nelle quali la priorità è il proprio ruolo e la compiacenza interna al Partito.
Tralasciando invece il merito e il ruolo degli interlocutori utili e storici come i sindacati, che a discussioni come quelle su Marcinelle, emigrazione e integrazione europea dovrebbero essere coinvolti per le ragioni richiamate da Cinanni già nel 1970.
La storia, soprattutto quella del nostro Paese - ce lo ricordava qualche giorno fa Gianni Cuperlo in una iniziativa a Roma - ci ha insegnato che i risultati migliori e più duraturi non si sono avuti mai quando si è cercato di depotenziare i corpi intermedi, esaltando l’uomo forte e le decisioni in solitaria (da Crispi a Mussolini, da Tambroni a Berlusconi);
ma proprio con la condivisione e la concertazione con i corpi intermedi e la condivisione ampia nella società (da Giolitti a De Gasperi, fino a Prodi).
E in questi contesti ampi e generali, poi, l’emigrazione è stata ed è un termometro che misura se e come funziona una società nei suoi vari aspetti: economici, politici e sociali.
Vorrei quindi proporvi questa lettura, che parte dalle diverse zone di emigrazione o immigrazione:
se il lavoro migrante serve ad accentuare piuttosto che a contenere gli squilibri tra aree e paesi, vuol dire che si è in una logica di un suo uso strumentale e di super sfruttamento delle persone.
Se al contrario il lavoro migrante può contribuire a costruire relazioni più equilibrate tra paesi erogatori e paesi di accoglienza, esso va accolto come positivo.
Vale a dire che la libera circolazione delle persone è certamente un valore in sé dal punto di vista individuale, ma non lo è necessariamente dal punto di vista dei diversi territori (e degli stati) che costituiscono l’Europa.
Per questo vi è bisogno di una funzione politica forte che abbia degli obiettivi riconoscibili di solidarietà interna (e anche esterna, per esempio verso i paesi che circondano il Mediterraneo).
Stare insieme vuol dire condividere (armonizzare come scriveva Cinanni), altrimenti non vi è una ragione particolarmente plausibile.
Le nuove migrazioni oggi ripropongono, se possibile con maggiore forza, gli stessi dilemmi.
Oggi ci troviamo di fronte a scenari che non avremmo voluto conoscere:
sul lavoro migrante e sui migranti in generale si stanno scatenando le contraddizioni irrisolte che Marcinelle ci ha sbattuto in faccia, e frutto del modello di sviluppo che si è perseguito soprattutto negli ultimi decenni e dopo la caduta del Muro di Berlino.
Ciò è inaccettabile da ogni punto di vista:
bisogna ricostruire rapidamente una capacità di lettura condivisa delle vere cause della crisi e, insieme, di unità interna e internazionale del mondo del lavoro che superi realmente divisioni e confini e non metta la persona su un piano secondario a quello dei capitali.
Come oggi purtroppo avviene nella realtà.
Senza queste indispensabili condizioni assisteremo – e concludo – alla fine del sogno europeo, quando invece oggi, dopo la Brexit, servirebbe ancor più un concreto rilancio.
"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere" Platea a Marcinelle |
le vicende dell’emigrazione italiana vecchia e nuova e quelle degli esodi mediorientali e africani, pur nelle loro differenze e articolazioni, sono di nuovo uno degli snodi nevralgici per la costruzione del nostro futuro e del rilancio dell’UE.
Ciò che a mio avviso potrebbe essere una soluzione, come ebbe a dire qualche temo fa anche Romano Prodi, è un primo accordo di pochi grandi paesi dell’Unione che rinuncino alla propria sovranità istituzionale e costituiscano un primo nucleo di Unione realmente politica con un unico esercito, unica cittadinanza e unico governo.
Con politiche sociali, fiscali e del lavoro armonizzate.
Io credo che sia il compito, o la missione, della nostra generazione, non in senso anagrafico, ma quella che oggi guida le istituzioni nazionali ed europee e, soprattutto, la Sinistra di questo Continente.
Anche questo aiuterebbe ad
evitare nuovi squilibri nei diritti e nell’emancipazione delle persone, nuove e
diverse Marcinelle.
Che oggi magari si chiamano tragedie nel Mediterraneo.
Grazie ancora e buon lavoro a tutti.
lunedì 13 giugno 2016
Italici. Il nuovo Commonwealth come fattore di business per le imprese italiane sui mercati esteri
Buona lettura.
Buongiorno. Grazie agli organizzatori per aver pensato un evento come
questo, che guarda al business italiano in un’ottica innovativa di
geopolitica: quella degli italici.
Dopo più di 150 anni l’Italia continua a essere un Paese di
emigrazione, con una consistente presenza italiana nel mondo.
In questo periodo abbiamo avuto a fasi alterne una politica migratoria.
A volte politiche intelligenti, altre volte politiche inefficaci, altre
assenza di politiche generali su questo universo.
Per molto tempo si è discusso – e lo si fa anche oggi – di quali siano
i problemi in patria legati all’emigrazione, di come arginarla.
Oggi, poi, va molto di moda la retorica dei “cervelli in fuga”.
Si fanno discussioni, anche corrette, su quanto lo Stato abbia
investito nel formare cervelli (o forza lavoro in generale).
Di quale perdita rappresenti per l’Italia consegnare questo capitale umano a
paesi che ne beneficiano a costo zero.
E si ragiona su politiche che dovrebbero porre un freno a questo esodo
e, qualche volta, su provvedimenti che hanno l’illusorio intento di invertire
la direzione e far rientrare chi è partito.
Ma raramente si discute seriamente su cosa siano coloro che se sono
andati, i loro discendenti, le loro famiglie, coloro che italiani non sono, ma
che all’Italia guardano.
Raramente si discute con cognizione e volontà progettuale di cosa sia
questa comunità che Bassetti chiama di italici.
E ancor meno si discute di come pensare, valorizzare, mettere l’Italia in
connessione sentimentale, culturale, sociale ed economica con gli italici.
Sarebbe già un risultato di compensazione economica rispetto a quanto
l’Italia ha investito nel formare cittadini, lavoratori e consumatori, che poi
ha regalato a paesi nostri competitor.
Eppure questo universo mantiene un legame con l’Italia, fatto di
consanguineità, radice culturale, affetto, interesse (culturale o economico).
Consuma prodotti italiani (dei quali va fiero), crea un substrato
fertile che veicola la nostra cultura: intesa come modello di stile di vita e
come offerta di prodotti culturali con conseguente risvolto economico.
Si tratta di una collettività fatta di milioni di persone che si
rapporta anche istituzionalmente con l’Italia.
E che vorrebbe farlo anche meglio, in modo più strutturato e meno
dispersivo da un punto di vista politico e strategico, perché sa di essere un
pezzo di politica estera e di proiezione internazionale.
Ma che per farlo avrebbe bisogno di una cabina di regia adeguata, di
essere pensata e valorizzata come uno dei pezzi di una megadiplomazia che
lavora come sistema Paese a determinati obiettivi.
Una megadiplomazia fatta dalla diplomazia ufficiale, ma anche da quella
economica (gli imprenditori), da quella solidale delle ong, da quella della
stessa massa umana di italici.
Ma ancora oggi questa comunità valoriale ed economica non è
riconosciuta come tale e parte del sistema Paese.
Eppure ha sue istituzioni di rappresentanza articolate in tre livelli:
quello di base dei Comites, che coincide con le circoscrizioni
consolari;
quello intermedio del CGIE, che coincide con i livelli statali e
continentali, che fa capo alla Farnesina;
quello nazionale parlamentare, fatto di 18 eletti all’estero nei due
rami del Parlamento.
Oggi è in corso una riflessione sulla riforma di queste istituzioni e delle
realtà associative, che spero porti a un’organicità di strumenti e strategia
politica verso le comunità italiche e a un investimento politico (ed economico)
in chiave contemporanea in diffusione di lingua, cultura e impresa italiana, di
servizi ai cittadini e alle imprese, di valorizzazione e riconoscimento di
questo universo italico in un contesto di politica estera e proiezione del
sistema Paese.
Sistema che, in una società
globalizzata, più di ieri mette al centro gli scambi commerciali a livello
planetario:
quindi la circolazione dei
prodotti, siano essi materiali, culturali, ideali o politici.
Ma metta al centro questi scambi
e prodotti, però, con un approccio progressista, che abbia in mente lo sviluppo
sostenibile e le “risorse umane”, o meglio le “Persone”, in particolare le
nuove generazioni e gli esponenti della nuova emigrazione e degli italici in
generale.
Ciò in quanto le imprese
esistono perché c’è gente che vi lavora e investe la propria capacità creativa,
oltre che per il capitale che vi è investito.
Occorre evitare che si affermi
l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione di penetrazione
commerciale e di marketing.
Se ci si muove su scenari
globali, a prescindere dalla funzione sociale che anche l’impresa globale
dovrebbe assumere rispetto al Paese che l’ha generata o al quale si richiama,
si rischia di operare un ulteriore esproprio di valore del territorio e della
cultura originale (che è fatta di capitale investito, sì, ma anche di diverse
generazioni di lavoratori manuali o intellettuali che questo capitale hanno
valorizzato).
Quindi, il profitto deve tornare
percentualmente anche a chi lo ha generato e prodotto (siano esse persone o
Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare solo i capitali
investiti.
Se l’italianità è un valore, occorre
ricordare che ci sono voluti 2.000 anni di cultura per concretizzarlo e sarebbe
sbagliato appropriarsene solo su un piano economico (che pure deve esserci).
Alla fine degli anni ‘70, la
Fondazione Agnelli aveva riconosciuto in un suo bellissimo studio, che la
penetrazione commerciale di FIAT all’estero era stata molto agevolata dalla
presenza di comunità italiane emigrate.
Significa che l’impresa italiana
trae un vantaggio di marketing
gratuito dalle comunità italiche.
E se noi questo vantaggio
spontaneo lo sappiamo organizzare avremo grandi e ulteriori chance anche ideali.
Ma qual è il contributo che poi da queste nuove chance riversiamo sulle persone e sulla comunità?
Penso ai paesi in via di
sviluppo, che non possono considerati solo come mercati di sbocco, dove le
nostre comunità siano solo accettori e volani di made in Italy.
Qui occorre dare un forte
contributo allo al progresso e all’autosufficienza locale.
In una chiave di nuovo Umanesimo
italiano.
Ma rimanendo al piano
competitivo e strategico, sappiamo che nel sistema globale si gioca sulla base
dei rapporti di forza più che con spirito solidale e redistributivo.
Chi ha più forza, risorse
economiche, idee e strumenti, riesce a far circolare i propri prodotti e
piazzarli meglio sul mercato globale.
Come sostiene una delle massime
menti del marketing globale, Mary
Douglas, il prodotto oggi non coincide con il suo contenuto, ma con il suo
racconto.
Una regola che vale
particolarmente per l’Italia, patria del “Cunto
de li Cunti”, che fu forse nel pieno barocco del ‘600 il primo
straordinario market place del made in italy, dove la dieta
mediterranea veniva declinata lungo la linea della magia della commedia
dell’arte.
Oggi siamo alla fase suprema di
questa strategia, e proprio in questo tornante il nostro Paese si trova
disarmato, senza linguaggi e senza lingue.
In questo senso un tema che
ancora oggi è un buco nero, riguarda la TV italiana nel mondo, che il
racconto dell’Italia dovrebbe fare più di altri.
Alle nostre spalle abbiamo anni
di esperienze infelici.
Ma al contempo, difronte, una
straordinaria domanda di italianità.
Non si tratta, però, di
riproporre una TV bandiera, che trasmetta un palinsesto di quanto va in
onda in Patria.
Ma di trasformare un obbligo in
una strategis, un costo in un affare.
Le nuove forme della TV (personale,
on demand, leggera, mixata) ci
consentono di riproporre l’essenza stessa dei nostri prodotti in una versione
televisiva.
L’idea è quella che ritorna ogni
volta: lavorare sullo sfondo più che sulla scena.
Come spiega il giornalista Rai
Michele Mezza, occorre costruire colonne sonore e visive che siano di
integrazione e di accompagnamento agli eventi che il made in italy organizza nel mondo e in Italia.
Occorre farne
un’agenzia di riconfigurazione dell’offerta comunicativa italiana puntando, ad
esempio, sulle agenzie di contenuto italiano come i Festival, l’Auditorium
della musica di Roma, la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, le Università
di qualità ecc…
Assicurare un striscia di
informazione sui primati italiani: il mondo e la politica internazionale letti
attraverso la geopolitica dell’eleganza, del gusto, della bellezza e della
qualità.
Trasformare i musei in format, facendoli parlare.
Trasformare
la TV in un centro di traduzione e reimpaginazione del modo italiano di
produrre nei vari settori delle sue imprese che guardano ai mercati esteri.
Rai Italia dovrebbe quindi sviluppare
una politica di sponsorizzazioni, alleanze e coordinamento con enti,
istituzioni e imprese proiettati all’estero, con gli influencer più rappresentativi (tra i quali gli italici), con i distretti
di produzione e di eccellenza in Italia e italiani nel mondo.
Occorrerebbe costruire un
sistema audiovisivo che sia una piattaforma di coinvolgimento dove si guardi,
si ascolti, ma si interviene anche e si acquista o si chiede, un market place della bellezza da modellare
area per area, città per città, settore per settore.
E basti
immaginare, in questa direzione, una struttura leggera che seleziona priorità (design italiano negli USA, sfondamento
dell’enogastronomia in Cina, moda e design
italiani in Sud America, arredo design
in Asia e Americhe) e allo stesso tempo funge da editore di pacchetti
multimediali, dove il web diventa la
fabbrica aperta e la TV un network
distributivo.
Il tutto intorno a una visione
globale e di medio periodo nella geopolitica italiana.
Insomma, per chiudere, bisogna
tornare a darsi una politica per gli italici che porti a considerarli ciò che
sono: un pezzo consistente, fondamentale e strategico della presenza e
proiezione italiana nel mondo.
Grazie e buon lavoro.
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