Ieri, ad Amsterdam, ho partecipato al convegno "Il lavoro, la ricerca e l'industria in Italia: torneremo mai a casa?". All'incontro erano presenti l'on. Laura Garavini, Francesco Cerisoli, Interna Technologies - Utrecht (NL), Mauro degli Esposti, Università di Manchester (GB), Paolo Bonaretti, Direttore Generale consorzio ASTER (IT), Marcello Battistig, segretario circolo PD di Delft.
Il dibattito è stato molto stimolante e con interventi ricchi e molto documentati. A me è toccato l'intervento conclusivo, nel quale ho detto pressapoco quanto segue.
Non dico nulla di nuovo se ricordo che il metodo scientifico moderno è nato in Italia nel XVII secolo. Con Galileo Galilei.
Ma fu solo nel secolo successivo che riuscì ad affermarsi grazie a un certo numero di grandi menti formatesi nelle diverse università europee. San Pietroburgo, Parigi, Londra, Bologna.
La loro influenza si diffuse rapidamente nel Vecchio continente, nonostante le barriere (geografiche, politiche e culturali) di allora fossero certamente più importanti di quelle odierne, e che ugualmente, non riuscirono a fermare quelle giovani menti.
Si ponevano, in quei secoli lontani, insospettabilmente, le basi di una lungimirante “cooperazione” internazionale, antica almeno quanto la scienza moderna.
Nel XIX secolo, con l’industrializzazione, si rafforzò il legame e l’interazione tra scienza e mondo produttivo.
Il secondo conflitto mondiale, rivelò a tutti finalmente il ruolo strategico che la scienza può svolgere per lo sviluppo industriale, per le applicazioni militari e civili.
Da lì parte la rapida e travolgente corsa degli Stati Uniti ai finanziamenti alla ricerca (gli USA da soli coprivano il cinquanta per cento degli investimenti totali del pianeta nel settore ricerca) che, insieme all’estrema libertà di interazione e alla grande mobilità degli scienziati, fanno sì che la ricerca americana giochi da subito, e per lungo tempo, un ruolo egemone e di leadership a livello globale.
Ma, negli stessi anni, in Europa si fa avanti un nuovo e, per quei tempi, rivoluzionario modo di fare ricerca.
Nell’Europa degli stati nazionali, grazie alla tradizione iniziata, come ho detto, nel XVII secolo e alla lungimiranza di qualcuno, comincia un movimento di internazionalizzazione istituzionale della cooperazione scientifica.
Nel breve volgere di qualche anno vedono la luce il CERN (1954), che oggi finanzia le ricerche di circa 5.000 scienziati, e l’EURATOM (1957), con lo scopo di coordinare i programmi di ricerca sull’energia nucleare a livello continentale.
In queste organizzazioni troviamo i germi di una visione che troverà la sua espressione più compiuta nel trattato di Maastricht, nella creazione dell’eurozona, nel trattato di Schengen. Tutti strumenti sovranazionali che hanno sostenuto e dato linfa a quella iniziale intuizione e hanno fatto sì che il CERN diventasse la punta di diamante della ricerca scientifica del Pianeta. (ecco, se mi è consentita una breve parentesi polemica, dirò che qualcuno dovrebbe assumere l’impegno morale di avvertire la nostra ministra Gelmini che, come narrano le cronache, invitata all’inaugurazione di un nuovo acceleratore di particelle al CERN di Ginevra, avrebbe chiesto “che cosa è il CERN?”, decidendo poi di non presenziare all’evento. Sia detto sempre per inciso: il governo italiano risultò il solo, tra i 12 paesi che a quel progetto hanno preso parte, a negare la propria presenza all’inaugurazione).
Al CERN, poi, partecipano come paesi osservatori, tra gli altri, Stati Uniti, Canada, Russia e Israele.
Si tratta dunque di un sistema di cooperazione scientifica su scala globale che cresce progressivamente e che rappresenta il presupposto necessario alla pace e al progresso di una sempre maggiore fetta della popolazione del pianeta.
L’internazionalizzazione e la cooperazione nella ricerca portano a un sapere diffuso e mescolato, non concentrato in pochi paesi. E d'altronde, il sapere e la scienza o sono liberi o non sono. Come con grande preveggenza recita la Costituzione italiana (art. 33).
Ho cercato di ripercorrere in pochi minuti un cammino lungo e fecondo che traccia, brevemente, un profilo internazionale della ricerca.
Nessuno, oggi più che mai, può permettersi di abbandonare questo sentiero di crescita, sviluppo e pace.
E che questa sia la strada giusta ce lo dimostra il G20 di questi giorni a Londra, dove le risposte alla tremenda crisi globale sono cercate (e trovate) nel dialogo internazionale e nella creazione di istituzioni, strumenti e regole globali.
Governi e istituzioni devono dunque battere la strada internazionale con sempre maggiore determinazione, moltiplicando risorse ed energie, cooperazioni e collaborazioni.
Rafforzando gli strumenti esistenti e affiancando a questi nuovi strumenti aperti, plurali, capaci di produrre mobilità internazionale dello studio e degli studiosi.
Dunque accrescere il volume dei finanziamenti.
È persino banale ricordarlo in questa sede: (è infatti forte l’esigenza di condividere gli ingenti investimenti necessari alla nascita di laboratori su larga scala).
Ma sbaglierebbe chi sottovalutasse un altro elemento determinante: il fattore umano!
Il progresso nella ricerca si genera soprattutto grazie a mutazioni improvvise dovute a progressi concettuali (nuove idee, insomma).
Senza questo volano straordinario e potentissimo gli investimenti, per quanto cospicui, non basterebbero. E’ per questo che quando si individua il merito lo si deve premiare, valorizzare e fidelizzare.
Infine occorre tener presente l’interfaccia fra discipline.
Un certo numero di scienziati in materie affini che lavorano in raccordo tra di loro generano progressi molto più ampi e rapidi di quanti possa generarne lo stesso numero di scienziati che lavorano separatamente e isolati gli uni dagli altri.
Se ne conclude agevolmente, dunque, viste le enormi e diverse dimensioni del sapere scientifico contemporaneo e globale, che il modo migliore per mettere in rete le menti eccelse e il sapere scientifico, per creare interfacce e mescolanze, sia quella sorta di melting pot che si ottiene solo con la collaborazione internazionale.
Controprova di quanto appena detto è l’esempio degli USA, dove la scienza si è nutrita proprio della mescolanza interna che affonda le proprie radici già nell’immigrazione dei secoli scorsi da ogni luogo del mondo e poi nel fatto che quel Paese sia stato, nel periodo nel nazifascismo, delle persecuzioni politiche e delle leggi razziali, rifugio e approdo di molti scienziati europei.
Da tempo noi abbiamo dunque stabilito profondi contatti e collaborazioni fra Europa e Stati Uniti nel campo della ricerca.
Ma recentemente si sono affacciati con prepotenza, sulla scena globale della ricerca, realtà come il Giappone, l’India e la Cina.
Gli ultimi due, soprattutto, hanno la necessità impellente di elevare i propri standard di vita, oltre che di assumere una posizione influente sulla scena economica mondiale.
Risultati che cercano di raggiungere attraverso una dimensione ossessiva per la produttività e l’efficienza.
Anche a discapito di altre dimensioni, altrettanto importanti: la qualità e l’estetica.
Essi si concentrano sul “produrre di più e a prezzi più bassi”.
Noi sappiamo, invece, che per il futuro nostro e delle nuove generazioni che abiteranno il mondo, dovremo saper cogliere le differenza di qualità e quella tra brutto e bello.
Dobbiamo saper riscoprire e far comprendere a tutti quella filosofia delle grandi civiltà classiche di cui siamo permeati, soprattutto noi italiani ed europei.
Che poi è anche il motivo principale per cui siamo apprezzati nel mondo.
È dunque attraverso legami solidi a livello globale, attraverso la creazione di un mondo internazionalizzato e di strutture realmente sovranazionali, le cui attività scientifiche civili si fondino sulla cooperazione e su quella filosofia appena accennata, che riusciremo a ridisegnare pacificamente e su basi qualitative lo scenario globale del nostro secolo.
Questi nuovi scenari, però, con le disparità che producono tra singoli paesi e macro regioni o continenti, implicano più che mai una rinnovata cooperazione scientifica internazionale, più estesa e meglio strutturata.
Come si colloca, dunque, l’Italia, in questo panorama internazionale?
Quali i suoi strumenti? Le sue risorse? Il suo capitale umano?
Quale il suo contributo generale?
E soprattutto come forma, valorizza, mantiene o attira ricerca e ricercatori in Italia e dal mondo, italiani e stranieri che siano?
Gli interventi che mi hanno preceduto hanno disegnato bene e meglio di come potrei fare io il quadro del nostro Paese.
Mi limito, dunque, a sottolineare alcuni elementi già egregiamente sviluppati per provare a dire quale, a mio avviso, dovrebbe essere la direzione che l’Italia deve prendere per stare nel contesto internazionale della ricerca.
Perché sono convinto che non può prescindere da quel contesto.
Chiariamo subito, dunque, che andare all’estero non è, né deve essere un disonore per i cervelli italiani.
E nella cosiddetta fuga dei cervelli, se dobbiamo cercare un aspetto positivo, lo troviamo nel fatto che essa, paradossalmente, dimostra che l’Italia gode certamente di un buon sistema generale di formazione.
Dalle scuole dell’obbligo all’università.
Un sistema competitivo che genera risorse umane notevoli e apprezzate nel campo scientifico anche all’estero.
La ricerca, abbiamo visto, si sviluppa soprattutto in un ambito internazionale: è fisiologico quindi che anche i nostri ricercatori partano e si muovano all’estero.
Il problema, quindi, sta nella mancanza di un riequilibrio tra quanti partono dall’Italia (troppi e troppo spesso perché senza alternativa) e quanti arrivano in Italia.
E su questo riequilibrio che si misura il successo di una qualsiasi riforma della ricerca nel nostro paese, poiché la cultura scientifica aumenta se il flusso di scienziati in entrata e in uscita è costante, intenso e bidirezionale.
E non mi pare che la riforma Gelmini stia producendo risultati in questo senso né i primi segnali in nostro possesso ci dicono li produrrà mai.
Anzi gli elementi a nostra disposizione indicano come essa intacchi anche i livelli primari e secondari dell’istruzione e della formazione, che abbiamo appena detto essere stata, invece, la nostra unica forza fino a oggi nel formare i cervelli.
Formazione e ricerca, dunque, forniscono sapere: un bene immateriale difficilmente valutabile in termini economici e quantitativi.Soprattutto se consideriamo l’impatto del sapere sulla realtà sociale di un paese.In questo senso, quindi, le scelte di “bilancio” che spesso sono state operate nel nostro Paese (ultime in ordine di tempo e prime in ordine di grandezza quelle della riforma Gelmini), sono da considerare deleterie, in quanto formazione e ricerca (dunque sapere) sono stati considerati dal Governo, tra gli impegni finanziari, come “spesa” e non come “investimento”.
Una differenza che mi sento di sottolineare con forza: spesa o investimento.
Questa differenza, non solo terminologica quanto concettuale e programmatica, evidenzia una mancanza di sensibilità del Governo nei confronti della ricerca che contrasta non solo con la nostra Costituzione, ma anche con le strategie europee. A livello UE, infatti, si “investe” su ricerca e innovazione quali elementi portanti del continente.
Il sapere diviene obiettivo strategico dell’UE, tanto che la strategia di Lisbona ci dice che: “entro il 2010 [l’UE deve] diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.
Non solo parole o dichiarazioni di intenti non quantificabili, ma risorse indicate nell’impegno a dedicare alla ricerca almeno il 3% del PIL entro il 2010.
Cioè entro il prossimo anno.
Se questa è la strategia europea, noi che da Spinelli in poi siamo tra i padri di questa Europa , entro le Alpi scontiamo un grave ritardo:
in termini di investimenti destiniamo all'istruzione universitaria solo lo 0,78% del PIL, mentre a ricerca e sviluppo, tra risorse pubbliche e private, l’1,10%.
E pensare che la Svezia, in tempi di crisi come quelli attuali, ha deciso di raggiungere il 4%, proprio a dimostrazione che di investimento e non di spesa si tratta.
In termini di risorse umane, poi, vantiamo la più bassa percentuale di ricercatori nell’industria, nell’università e nei centri di ricerca che in Italia sono la metà della media europea e un terzo di quella USA.
Un Paese che investe queste cifre esigue, tra l’altro considerandole spese, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.
Quindi non può produrre progresso, benessere e ricchezza nel medio-lungo periodo.
La competitività dell’Italia si basava in passato sul basso costo del lavoro e sulla svalutazione continua della lira. Oggi non possiamo contare su nessuno dei due aspetti (la concorrenza sul costo del lavoro dei Paesi del Terzo Mondo è imbattibile e l'Euro è la stessa moneta dei nostri principali competitori europei ed è forte anche rispetto al dollaro e allo yen).
Di questo passo, quindi, l’Italia sarà sempre meno competitiva nei settori economici di punta del mondo contemporaneo, a cominciare dall’hi-tech, strettamente legato agli investimenti in ricerca e sviluppo e al numero di scienziati e ingegneri che vi lavorano.
L'Università italiana forma quindi giovani ricercatori che poi, insieme agli Enti pubblici di ricerca e all'industria privata non riesce ad assorbire.
Essi vanno all'estero e contribuiscono, a nostre spese, allo sviluppo dei Paesi competitori.
All'estero si fanno dunque nuove scoperte, nuovi brevetti.
L'Italia, invece, da sempre popolo di inventori, non occupa più le prime posizioni in numero di brevetti registrati.
Ciò implica che per utilizzare le nuove scoperte, il know how, le nuove invenzioni, magari fatte anceh da ricercatori italiani, deve acquistarle e pagarle care.
Questo sistema, dunque, non può reggere. Non aiuta l'Italia e la nostra ricerca interna.
Troppe difficoltà, per le quali non riusciamo a creare lavoro con la ricerca né a mantenere in patria i ricercatori né ad attrarne altri stranieri.
Come non riusciamo nemmeno ad attrarre in Italia studenti Erasmus.
Anche qui, infatti, il confronto tra quanti italiani fanno un'esperienza di studio all'estero e quanti stranieri la facciano in Italia è disarmante.
In una parola: non cresciamo.
Dunque dobbiamo rivedere il sistema Italia.
Il sistema nel suo complesso: Università, istituzioni pubbliche, istituzioni private e non profit, imprese.
E' propio in questo sistema, infatti, che si fa ricerca e sviluppo nel nostro Paese. Ed è qui che si investono le risorse, secondo una distribuzione che vede al primo posto per investimenti le imprese, seguite dall'Università, dalle istituzioni publiche e, infine, da quelle private e non profit.
Il tutto però, con investimenti complessivi molto al di sotto di quelli raccomandati, in termini percentuali, dalla Commissione europea, soprattutto per ciò che concerne la ricerca privata.
Come si esce, dunque, da questa situazione complessiva, sapendo che seppur è primario l'aumento di investimenti esso non è risoluitvo?
Come si attirano e mantengono ricerca e ricercatori italiani (e stranieri) nel nostro paese?
Come si fa ricerca?
Siccome il problema viene da lontano, i tentativi in questa direzione vanno molto in là negli anni e sono stati diversi, operati da diversi governi e schieramenti politici.
Ma nessuno è stato risolutivo.
Nel 2001 il Governo Amato tentò il programma "Rientro dei Cervelli".
Un impegno enorme per arginarne la fuga e offrire ottime possibilità di rientro con contratti a tempo pieno inizialmente di tre anni.
Anche il successivo Governo Berlusconi confermò quel programma, addirittura rilanciandolo, e scrivendo nei successivi decreti del 2003 e 2005 l'impegno a far si che i rientri fossero definitivi e che questi scienziati avrebbero trovato spazio nelle università italiane.
Ancora il Ministro Moratti, nel 2006, ribadì l'impegno alla stabilizzazione di chi era rientrato.
Impegni, dunque, autorevoli, sinceri e costosi (il programma costò 52 milioni di euro) che però si sono risolti con un nulla di fatto.
Poiché dopo otto anni, dei 460 scienziati faticosamente attirati in Italia, alla fine solo 50 hanno superato gli ostacoli del Consiglio Universitario Nazionale e solo 10 sono stati richiesti ufficialmente dalle università italiane. 10 su 460...
Non parliamo poi del tentativo dell'allora Ministro degli italiani nel mondo, Tremaglia, di costituire la corporazione degl scienziati italiani nel mondo nel 2003.
Un altro tentativo costoso nella fase organizzativa, nazionalista, settoriale e chiuso in senso scientifico, inefficace in termini concreti.
Tant'è che il Convegno a cui parteciparono con grande disponibilità moltissimi scienziati italiani di tutto il mondo si concluse con un semplice ordine del giorno che non trovò mai alcuna cittadinanza nemmeno all'interno del suo stesso Governo.
Ecco che al nostro Paese manca, dunque, insieme alle risorse, una visione strategica, prospettica e di lungo corso.
Manca un progetto complessivo, che partendo dalle risorse si inserisce in un contesto di strutture nazionali e sovranazionali.
In un ambito di investimento anche culturale e politico, di laicità e libertà, di separazione di carriere e interessi, di chi fa ricerca e chi trova i fondi, di meritocrazia e valutazioni oggettive.
Anche nel mondo della ricerca, dunque, va ritorvato un nuovo Umanesimo, in cui la Persona LIBERA (sia essa ricercatore o beneficiario della ricerca e delle soluzioni trovate) sia al centro del sistema, non condizionato da ideologie o religioni a cui non si senta esso stesso vincolato.
Per questo dicevo in precedenza che la ricerca o è libera o non è.
Allora mi chiedo come si fa a fare ricerca in Italia se in ogni settore viviamo il condizionamento restrittivo di qualche gerarchia o gruppo di potere?
Come si può mettere intorno ai ricercatori tutta una serie infinita di paletti, di vincoli, di difficoltà burocratiche spesso frutto di ideologie o interessi piuttosto che di buon senso?
Come si possono superare le crisi se nei diversi settori privati si preferisce ridurre costi e tagliare posti di lavoro (o evadere le tasse e far lavorare in nero) piuttosto che investire in ricerca di nuove tecnologie?
Come si fa a trovare nuove e più efficaci cure a malattie mortali se l'approccio della ricerca a queste soluzioni è condizionato da morali etiche o religiose?
Come possiamo guardare, dunque, alla libertà della ricerca attraverso programmi di lungo periodo e legiferare in questa direzione se parte importante della classe politica è condizionata dai dictat di settori intransigenti delle gerarchie ecclesiali?
Come possiamo dire a un ricercatore “vieni”, se è straniero, "torna", se italiano all’estero o "non partire" se poi non possiamo farlo ricercare liberamente sulle staminali?
Occorre dunque ripensare tutto il sistema Italia partendo dagli aspetti culturali, politici, civili ed economici naturalmente.
Occorre investire nelle università, ma occorre anche fare delle leggi che stimolino il mondo privato a investire di più in ricerca.
Occorre che queste leggi siano laiche e non siano condizionate dalle religioni né dalle lobbyes e dai gruppi di potere.
Occorre che si creino le condizioni per la mobilità orizzontale e verticale della ricerca.
Ecco. Questa, a mio avviso, deve essere la bussola del legislatore che voglia far tornare in Italia ricercatori italiani e non, che voglia produrre ricerca, sapere e progresso (progresso non solo sviluppo) nel nostro Paese da mettere a disposizione del benessere, della pace e della salute dell'umanità.
In questo senso sono indicative le parole che ha pronunciato il presidente Obama subito dopo il suo insediamento.
Quando ha detto che lui non potrà assicurare i risultati della ricerca attraverso le cellule staminali, ma che assicurerà certamente le condizioni e la libertà di poter ricercare queste soluzioni anche attraverso l'uso libero delle cellule staminali.
Un esempio concreto e particolare, che rivela però un metodo, una strategia e una visione complessa e complessiva del mondo della ricerca.
Quando sentiremo in Italia un qualsiasi Presidente del consiglio pronunciare parole così chiare e libere da ogni condizionamento ideologico, allora capiremo che qualcosa potrà cambiare e che i ricercatori potranno tornare nel nostro Paese perché ci saranno le condizioni per lavorare e lavorare con dignità e certezza.
Grazie a tutti.
lunedì 6 aprile 2009
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