
Ciò che Lee Masters ispirò a De Andrè quanto cantava del suonatore Jones, lui lo trasmetteva a me, senza che mai glielo avessi detto. La mia gioia stava in quel vortice calmo di umanità, di cordialità, di sincerità e intelligenza. Stare con lui era come parlare con la storia quotidiana di un paesino, come ascoltare la musica del tuo popolo.
Piaceva a tutti. Ma non era per tutti, non era per tutte le stagioni. Con lui ho capito cos’era l’arte, la genialità, la passione in un paese, senza che mi spiegasse la musica, senza che parlasse di Leonardo, senza che piangesse per qualcuno.
Le note erano dentro di lui come i numeri dentro Majorana, il mare dentro Colombo, il volo dentro Baracca.
Mah, che dono l’arte, la delicatezza e l’umanità dentro la medesima, umile persona, anche nel viso, come Berlinguer, che gli piaceva tanto.
Ora le sue mani non corrono più su una teoria di bianconeri che trascinava gli amici. Stanno ferme nell’angusto, silenzioso e definitivo spazio buio che lo circonda. Se fosse vero, come dice quell’artista, che siamo poco o che non siamo niente, beh, lui quel poco lo ha fatto diventare tanto, lasciando in una piccola comunità un ricordo più grande della comunità stessa.
Adesso molti dicono che non lo scorderanno. Io invece lo scorderò subito. Perché mi sarebbe troppo difficile ricordare. O almeno vorrei scordarlo subito. Ma forse non ci riuscirò. Anzi, penso che ogni giorno d’estate che passerò seduto nel giardino di casa, ci sarà un motivo per ricordarmi di lui.
Ha fatto più miracoli la sua semplicità, che l’agostana santità del suo patrono.