Processi migratori e immigratori
nella storia dell’ultimo secolo tra accoglienza, pregiudizio, intolleranza e
razzismo
Convegno Fondazione Amendola
Torino, 2 ottobre 2017
Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo
Torino, 2 ottobre 2017
Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo
Buongiorno a tutti.
E grazie alla Fondazione Amendola, a
Prospero e Domenico Cerabona per aver organizzato questa interessante
discussione e per avermi invitato.
Grazie al Presidente Mauro Laus e al
Consiglio regionale del Piemonte che ci ospita.
Grazie anche a tutti voi che dimostrate
interesse e attenzione a questi temi: quelli dell’emigrazione italiana; quelli
delle migrazioni in genere.
Il ringraziamento non è scontato, perché
spesso, ancora oggi, in un Paese come il nostro, profondamente caratterizzato
da una storia migratoria tra le più importanti del mondo per quantità,
continuità storica e dispersione planetaria, si ha un processo di rimozione sia
storico che politico sulla nostra emigrazione.
E quando qualcuno ricorda che siamo stati
un Paese di migranti, azzardando paragoni, invocando maggiore partecipazione
emotiva, solidarietà con i migranti che oggi arrivano in Europa e con una
vicenda comune, rischia l’aggressione o, almeno verbalmente, la subisce
pesantemente.
Ricorderete cosa successe a Gianni
Morandi qualche tempo fa: dopo aver azzardato una connessione tra le migrazioni
fu massacrato sulla sua pagina facebook da circa seimila commenti per lo più di
critica feroce e antistorica.
In quelli che invece non possono negare la
nostra storia di migranti, scatta l’atteggiamento di precisazione, che si può
sintetizzare così: “no la nostra emigrazione era diversa; noi andavamo per il
mondo a lavorare; rispettavamo la legge; ci facevamo apprezzare da tutti”.
Frasi che contengono in sé,
contemporaneamente, una banale verità, una palese falsità e una populistica
semplificazione laddove servirebbe una complessa analisi”.
La banale verità deriva dal fatto che è
ovvio che andavamo in giro per lavorare (la quasi totalità dell’emigrazione si
muove per questo).
La palese falsità è data, volendo, dal
fatto che in realtà, spesso partivamo da clandestini nelle stive delle navi, o
attraversando i valichi alpini sui versanti più pericolosi (spesso lasciandoci
la vita), costituendo all’estero associazioni criminali come la “mano nera” negli
USA, i traffici di prostitute nei bordelli nordafricani e di bambini lavoratori
nelle vetrerie francesi.
Ricorderete il romanzo del 1878 Senza famiglia, di Hector Malot, nel
quale ci si imbatte a Parigi nell’istituto gestito da un italiano che schiavizza
in modo brutale e criminale i bambini nelle vetrerie, appunto. Da questo libro fu
tratto anche il celebre cartone animato Rémi.
La semplificazione populista sta nel
dividere e classificare in modo netto una migrazione rispetto all’altra, un
popolo rispetto all’altro.
Se si scava, invece, se si ha la
pazienza di conoscere, di ri-conoscere nei migranti di oggi quelli di ieri, si
vedrà che le motivazioni che spingono/obbligano alle partenze sono, quelle sì,
molto simili nella storia dell’umanità.
Si parte in gran parte per sfuggire alla
povertà e alla fame (migranti economici li chiamiamo oggi);
in misura minore per sfuggire a guerre o
persecuzioni politiche;
in misura ancora minore per desiderio di
partire, cioè per eccellere in qualcosa o per cercare più di ciò che si ha, pur
avendo nel proprio Paese tutto ciò che servirebbe per vivere.
Allora guardiamola un po’ più a fondo la
nostra emigrazione.
Dal 1861 in poi.
Parto da questa data perché dopo
l’Unità, che doveva mettere l’Italia tra le grandi potenze europee e fare della
Penisola un’unica potenza economica da Torino a Palermo, negli ultimi decenni
dell’Ottocento vivevamo invece una profonda crisi economica e sociale.
L’unificazione non aveva prodotto benefici
ai ceti deboli, le condizioni di vita per i più erano peggiorate.
Una situazione che avevo sbocco solo
nell’emigrazione di massa o nella ribellione di contadini e operai.
In questo clima si affermava la
divulgazione delle idee anarchiche e dell’ideologia socialista, in campagna e in
città, nel Nord come nel Meridione.
E la rabbia collettiva, negli anni
Novanta, trovava sfogo in scioperi, proteste e rivolte.
Lo Stato, di contro, rispondeva
duramente con una repressione feroce.
Così le masse affamate che non trovavano
risposte dello Stato partivano, soprattutto oltre oceano, e per fame.
Insieme a loro, molti “sovversivi”
dovevano fuggire in Europa o al di là dell’Atlantico per sfuggire agli arresti.
Tra questi molti rivoluzionari di
professione, come Pietro Gori.
Persino Gaetano Bresci era emigrato nel
New Jersey, dove frequentava i gruppi degli operai tessili anarchici italiani.
E da lì ripartì solo con il preciso
intento di tornare in Italia e compiere l’assassinio di Re Umberto I, nel
luglio del 1900, per vendicare le repressioni del Governo Di Rudinì.
Questa gente, anche negli USA tenne vivo
il lavoro di propaganda e di organizzazione rivoluzionaria fra gli immigrati.
Una umanità-comunità che fondò giornali,
circoli, sindacati, associazioni di mutuo soccorso. Che si mise alla testa di
scioperi e proteste nel Paese del liberismo più esasperato, dell’impresa e della
proprietà privata considerate sacre.
E questo movimento non era fatto solo da
intellettuali, socialisti e anarchici in esilio.
C’erano migliaia di lavoratori e
contadini che avevano preso parte agli scontri sociali in Italia e che
entrarono a far parte delle organizzazioni socialiste.
Obiettivo di questo mondo anarchico,
socialista, rivoluzionario, era quello di istruire i poveri, gli immigrati
maltrattati e discriminati, di liberarli dal potere assoluto degli sfruttatori.
Soprattutto, di sviluppare un pensiero
collettivo per creare una coscienza di classe tendente a unirli e rafforzarli per
poter rivendicare i propri diritti di persone e di lavoratori.
In questo senso, con quello spirito di
comunità che caratterizza più di ogni altra epoca e comunità l’emigrazione
italiana, pubblicavano giornali in italiano, libri, fondavano biblioteche,
tenevano corsi di italiano e di letture.
Per istruire, far conoscere sé stessi e
la loro condizione e classe e di appartenenza.
Far acquisire coscienza.
E con questa, poi, ottenere progresso
per i singoli e per la collettività, non solo italiana e migrante.
Proprio in questi corsi si forma, tra
gli altri e come autodidatta, Bartolomeo Vanzetti.
E fu proprio grazia a questo senso di
comunità, a questa forte spinta ideologica radicale e rivoluzionaria, che si
forma anche un movimento operaio italiano in America nei primi anni del XX
secolo.
Tra i principali animatori di questo
movimento, che parte dalla condizione degli emigrati italiani e si allarga al
mondo operaio americano, c’è una prima, importante figura di emigrato italiano,
collegato alla vicenda Sacco e Vanzetti: è Arturo Giovannitti.
Giovannitti, di famiglia agiata, emigra in
Canada dove fa studi teologici presbiteriani a Montréal.
Quindi ben lontano dal marxismo
rivoluzionario.
Poi si trasferisce in Pennsylvania, dove
entra in contatto con l’immigrazione italiane nelle miniere di carbone e con il
radicalismo italiano, che favorì la contro-conversione alla causa del
proletariato.
Si avvicina alla Federazione Socialista
Italiana negli USA, della quale dopo qualche anno diventa autorevole dirigente.
Sotto il suo impulso i movimenti di
contestazione, soprattutto quelli di ispirazione anarchico-sindacalista, contribuirono
a consolidare nei movimenti radicali e nella gran parte delle comunità migranti
e di lavoratori che aderivano agli scioperi la linea massimalista.
Si arriva così al momento di più stretta
relazione di questo rapporto: lo sciopero di Lawrence, nel 1912, quando viene
assassinata una giovane manifestante – Anna Lo Pizzo – e le autorità americane
individuano Giuseppe Caruso come esecutore materiale e Arturo Giovannitti e
Joseph Ettor come mandanti.
Lo schema era semplice: erano emigrati, italiani,
anarchici, attentatori non solo dell’ordine costituito, quanto di vite umane.
Quindi parte subito, per i due, un
processo che potrebbe concludersi con la condanna alla sedia elettrica, ma che
nel breve volgere di qualche mese diventa un caso di discriminazione e
mobilitazione internazionale, che anticipa di circa quindici anni proprio
quello più noto di Sacco e Vanzetti.
Ma con gli stessi temi di fondo, le
identiche matrici ideologiche, la medesima condizione di partenza: l’emigrazione.
Gli emigrati italiani, infatti, in
quegli anni nei quali nel mondo si consumava quella che Guccini chiama “la
guerra santa dei pezzenti”, erano infatti la massa di pezzenti più massiccia e
pericolosa.
Più pericolosa perché più organizzata e
che si riconosceva come comunità.
Perché quella più politicizzata e che
rappresentava il “terrore rosso”.
Quella che nella massa di lavoratori e
immigrati sfruttati, non solo italiani, coltivava i semi dell’anarchia, del
sindacalismo rivoluzionario che si portava dall’Europa e, soprattutto,
dall’Italia.
Ecco perché la comunità italiana era
considerata pericolosa: perché si sentiva comunità; era legata da un tratto
ideologico forte e rivoluzionario; era ampia; era organizzata fino a riuscire a
incidere pesantemente anche nella vita politica del Paese ospite.
Per questi motivi molti Stati degli USA
chiedevano addirittura l’esclusione degli italiani dalle quote di immigrazione.
Per questi motivi i nostri diplomatici
erano preoccupati, poiché le possibili esclusioni e l’eventuale ridotto numero
di lavoratori italiani negli USA avrebbe creato conseguenze pesantemente
negative in Italia, soprattutto per ciò che atteneva la bilancia dei pagamenti,
venendo meno una parte consistente di rimesse.
Per questi motivi la nostra rete
diplomatico-consolare teneva un profilo basso ed era disposta a sacrificare
spesso giustizia e richieste di risarcimento danni allo Stato americano negli
episodi di attacchi razzisti e xenofbi, che si spingevano a volte fino a veri e
propri linciaggi nei confronti degli immigrati italiani.
Per questi motivi la tutela dei nostri
emigrati da parte delle nostre autorità era scarsa.
Per questo nascevano e diventavano
sempre più forti e consistenti, coese, le associazioni italiane, i sindacati.
Si faceva sentire il senso di coscienza collettiva politica da una parte e di
comunità migrate italiana dall’altra.
Gli stessi elementi che spesso, nella
storia della nostra emigrazione, si sono incrociati con i partiti, i sindacati
e l’associazionismo di Sinistra in Italia, senza mai perdere il filo con la
Madrepatria.
Ma questa storia dal forte senso di
appartenenze, di comunità nazionale e comunità politica, ci portò da un lato,
paradossalmente, a una maggiore integrazione, dall’altro ad essere discriminati
e additati come “ideologizzati”, “radicali”, “anarchici”, “terroristi”.
E una cosa alimentava l’altra.
E spesso sugli italiani ricadeva il
sospetto, se non proprio il complotto.
Per questo si arriva al
sospetto/complotto nei confronti di Sacco e Vanzetti, incriminati l’11 settembre
del 1920.
Segniamoci questa data, 11 settembre.
Per questo Giovannitti, che circa
quindici anni prima aveva vissuto lo stesso destino, diventa uno degli
animatori del comitato per la mobilitazione e la difesa di Sacco e Vanzetti.
Per questo, cinque giorni dopo l’11
settembre del 1920, il 16 settembre, si sospetta e si indaga su Mario Buda (algtro
anarchico e migrante italiano) per aver fatto saltare con un carretto carico di
dinamite Wall Street.
Attentato che provoca la morte di 38
persone, il ferimento di altre 143, due milioni di dollari dell’epoca di danni,
la distruzione dell’edificio della società Morgan (segniamoci anche questo).
Il New York Times, il giorno dopo
titolava: “Un atto di guerra”.
Rimase l’attentato terroristico più
sanguinoso della storia degli USA fino a quello delle Torri gemelle dell’11
settembre 2001.
Anche quello venne giudicato “Un atto di
guerra”.
Dunque, ecco che l’emigrazione italiana,
quella tradizionale, quella volgarmente detta stracciona o pezzente, perché
fatta da milioni di ultimi, di gente che partiva per fame (quindi migranti
economici diremmo oggi), si porta alle spalle una storia di stenti, di senso di
comunità, di pensiero collettivo, di ideologie, di movimenti per il riscatto
individuale e di massa, di discriminazione.
Una vicenda nazionale e collettiva che
attraversa più di 150 anni di storia e che non si è conclusa.
Io non ripasso qui l’emigrazione nel
ventennio e quella dell’Italia della Prima Repubblica, poiché i tratti comuni
rimangono comunque gli stessi a quelli descritti fin qui anche se cambiano le
mete e le situazioni storiche.
La nostra emigrazione rimane fino all’89
una emigrazione economica, massiccia (a fasi più o meno intense a seconda di
come cambiavano le condizioni economiche del Paese), con uno spiccato senso di
comunità e una emigrazione che si muove e costruisce collettivamente, come
comunità appunto:
costruisce patrimoni culturali e
immobiliari (le mille Casa Italia, i tanti ospedali italiani, le sedi di
associazioni ricreative e culturali, quelle regionali, provinciali e cittadine,
i tanti sindacati e patronati, l’associazionismo politico e religioso).
Dopo Berlino, dopo l’89, cambia il mondo
e cambia la nostra emigrazione.
Non solo e non tanto nella consistenza
di quanti emigrano, visto che oggi, comunque, siamo tornati alle cifre
migratorie del secondo Dopoguerra e il saldo con l’immigrazione è ancora a
favore dell’emigrazione.
Cambia nella composizione sociale; nel
rapporto tra vecchia e nuova emigrazione nei paesi nei quali si incrociano; nel
rapporto all’interno della stessa nuova emigrazione; nel rapporto, soprattutto,
tra emigrazione italiana e Italia.
Oggi partono molti emigrati con un’alta
scolarizzazione.
Non solo quelli definiti “cervelli in
fuga”, che per alcuni versi proprio perché ricercatori di qualità e scienziati
è giusto e doveroso professionalmente che partano e si confrontino con sistemi
diversi e ricercatori di altri paesi.
Anche se poi, pur volendo, non hanno
modo di tornare, né l’Italia attrae altri stranieri come loro che scelgono
invece altre mete e non l’Italia.
Emigrati altamente scolarizzati sono i
molti laureati (non necessariamente ricercatori o scienziati), i molti
professionisti, i molti diplomati, i molti lavoratori qualificati.
E poi la grande massa, comunque, di
manodopera semplice.
Un universo di nuovi migranti che
continua a lasciare il nostro Paese perché in Italia, semplicemente, non trova
lavoro, indipendentemente dal suo livello sociale o di istruzione.
Questa nuova emigrazione, poi, spesso
non si incrocia né ha o vuole avere un rapporto con la vecchia emigrazione,
quella tradizionale.
Né ha o si vuol dare un suo pensiero
collettivo, un suo movimento o coscienza collettiva; delle sue forme di
organizzazione e rappresentanza; non partecipa o partecipa molto marginalmente
alle attività istituzionali, culturali o regionali delle organizzazioni che
l’Italia ha nel mondo e che sono frutto di quella storia antica che ho tentato
di raccontare.
Un’emigrazione, insomma, che non si
sente parte dell’ampia comunità migrante nel mondo, che non si organizza come
tale per rivendicare diritti nei paesi ospiti o nei confronti dell’Italia.
Che, diversamente dall’emigrazione
storica, guarda al proprio destino individuale e ai propri problemi da singolo
e non da popolo, da migrante isolato in rapporto con il paese che lo ospita come
con quello che ha lasciato.
Una emigrazione che difficilmente
organizzerà all’estero una manifestazione di rivendicazione per un diritto che
ritiene essere anche collettivo, per un sopruso, per una causa che si
identifica con la propria storia italiana o con l’Italia: difficilmente
organizzerà una raccolta fondi per costruire una Casa Italia, un ospedale
italiano, la sede di un qualsiasi tipo di associazione culturale o ricreativa
italiana, un patronato ecc..
Un’emigrazione fatta di migranti che,
rispetto al passato, si muovono, in linea con i tempi, più sull’onda
individuale che su quella collettiva.
Che apparentemente si sente più
cittadina del mondo che cittadina di una nazione; più lontana dalla politica e
dai sindacati che politicizzata e sindacalizzata; più disillusa dalla politica
che partecipe di questa; più globalista che nazionalista; più slegata dalle
gabbie o classi sociali che inquadrata in esse.
Quindi un’emigrazione che porta con sé
il segno e le contraddizioni dei nostri tempi.
E che da una parte (la nuova emigrazione
italiana nel mondo) si isola e si chiude nel privato, rimanendo anonima come
comunità e come collettivo;
dall’altra, quella che arriva dai paesi
poveri o in via di sviluppo nel Nord del Pianeta e in Occidente, che si
identifica in una visione collettiva e ideologica (di matrice religiosa) spesso
pericolosamente distorta da ricchissimi potentati economici con interessi geopolitici
e globali.
Quegli stessi potentati che spesso organizzano
le reti del terrorismo internazionale di matrice integralista e religiosa che
non portano ad alcuna forma di riscatto, né individuale né collettivo, delle
masse di poveri migranti che strumentalizzano e vorrebbero fintamente
rappresentare.
Anzi, alimentano nei loro confronti una
ingiusta discriminazione (religiosa, etnica, razziale e sociale), ne frenano lo
sviluppo democratico e rendono più difficile l’integrazione anche nelle società
aperte e multietniche.
Eppure la globalizzazione, le condizioni
sociali, la politica e le economie del pianeta (in crisi o no), ogni giorno ci
danno motivo di pensare che, nel nostro Paese e con la nostra nuova
emigrazione, dovremmo tornare a un pensiero collettivo, internazionalista, che
parta dal rispetto della persona, la quale deve avere priorità rispetto
all’economia.
E in questo senso, ancor di più, si
dovrebbe ragionare in termini di comunità che si ri-conosce (al suo interno
come italiani e all’esterno con gli immigrati che arrivano da noi), che si
organizza, che si dà un progetto.
Ecco perché, a mio avviso, oggi la
nostra emigrazione dovrebbe essere fonte di studio approfondito, di conoscenza
di bisogni diffusi e di percorsi di integrazione passati attraverso
discriminazioni, lotte aspre e sanguinose, successi e riscatti individuali e collettivi.
Dovrebbe essere la lente con la quale
guardiamo il mondo, le economie e le nuove migrazioni. Tutte le migrazioni.
In questo, le vicende personali e collettive
della nostra emigrazione nel mondo e negli USA, quelle di Giovannitti, Sacco e
Vanzetti e Buda, sono la chiave critica con la quale leggere il liberismo, gli
squilibri redistributivi ed economici globali, le ideologie e loro
strumentalizzazioni integraliste (politiche o religiose che siano), le
migrazioni.
Migrazioni che altro non sono, poi, che
l’effetto di questo mescolarsi di fattori che porta masse di milioni di uomini a
cercare riscatto, ad ogni costo.
Grazie e buon lavoro.