Oggi ho partecipato alla conferenza organizzata dal Gruppo PD della Camera, dal titolo "Il PD per gli italiani all’estero. Una legislature feconda”.
Mi era stato chiesto di riflettere sul tema "L’evolversi
delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD". L'ho fatto dicendo queste cose, per chi avesse voglia ascoltarle o leggerle.
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Buongiorno.
Ringrazio il Gruppo PD alla Camera e gli
organizzatori di questo Congegno.
Mi fa piacere avere l’opportunità di riflettere
“sull’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD”.
Non è un tema solo politico ed elettorale.
È anche culturale e nazionale, nel senso di
interesse e identità nazionale.
Credo, infatti, che da questo rapporto con il
Partito cardine della nostra democrazia e di ogni snodo di Governo, passi il
destino delle nostre comunità e il loro rapporto con l’Italia.
Già nel 2011, in occasione del 150° dell’Unità
d’Italia, come PD e grazie all’impulso dell’allora presidente del Centro studi
Gianni Cuperlo, tenemmo il partecipatissimo seminario “Una grande Italia oltre
l'Italia”, nel quale tentammo una riflessione sul ruolo delle nostre comunità nel
mondo e della loro evoluzione in rapporto alla storia d’Italia.
Spiegammo quanto l’opera di un grande Partito che
raccoglie il meglio della tradizione politica italiana fosse strumento
determinante per il destino del Paese e delle nostre comunità e, in questa
direzione, ci demmo degli obiettivi di Governo per la successiva legislatura,
quella che sta per terminare.
Obiettivi che sono stati in parte realizzati
grazie al nostro Partito, ai gruppi di Camera e Senato e ai governi di questi
anni.
Ma di quella parte di obiettivi che rappresentavano
l’emergenza, la quotidianità; interventi non strutturali, senza effetti nel
lungo periodo.
Interventi frutto di un progetto strategico di Stato
in una prospettiva di lungo termine.
Tornerò alla fine a riprendere questo punto e il
ruolo del PD in rapporto alle nostre comunità e al loro destino, rispetto all’Italia.
Ci arriverò attraverso un excursus storico e quasi
per titoli, visti i tempi.
La nostra emigrazione storica, a partire da fine
Ottocento, è stata fenomeno di massa: una diaspora quasi unica nella storia
dell’umanità se si considera il complesso dei fattori: volume di partenze;
continuità nel tempo di queste partenze; dispersione planetaria dei nostri
migranti.
E oggi il fenomeno non si è arrestato, poiché
continuiamo a essere Paese di emigrazione, tanto che il saldo tra immigrati ed
emigrati è ancora a favore dei secondi e le cifre che riguardano gli emigrati
sono tornate ai livelli degli anni dell’emigrazione del Dopoguerra, soprattutto
se aggiungiamo anche coloro che partono senza iscriversi all’AIRE.
L’antica emigrazione storica, pur essendo fin
dall’inizio e quasi esclusivamente una emigrazione di manodopera non
qualificata, pur disperdendosi in gran parte oltre oceano, non disponendo di
sufficienti risorse economiche, di
strumenti tecnologici e mezzi di trasporto veloce (aerei, e treni a grande
velocità), ha sempre tenuto un rapporto strettissimo con la madrepatria e ha
sempre avvertito e praticato con forza il senso di comunità.
Intorno a questo sentimento di appartenenza, ha
costruito la propria identità cosmopolìta, l’identità “italica” (ne hanno
parlato egregiamente Piero Bassetti nei suoi studi e Fabio Porta in questo
convegno), ha costruito un patrimonio culturale e perfino immobiliare fatto di
migliaia di splendidi edifici sedi di tante “Casa Italia”, di centri culturali
e sportivi, di una miriade di sedi di associazioni regionali, provinciali e
cittadine.
Ha costruito società di mutuo soccorso, si è
costituita in organizzazioni sindacali e di patronato, ha lavorato a difendere
da sé, soprattutto dove lo Stato non arrivava, i propri diritti di lavoratori,
di perseguitati, di discriminati.
Ha costruito i propri organismi di rappresentanza.
Tutto intorno a un senso di comunità forte e
radicato.
Ha costruito e spesso guidato lotte sindacali e di
rivendicazione di diritti dell’intero mondo del lavoro che hanno trascinato
movimenti operai e di masse di paesi come gli USA:
basti ricordare ciò che fece Arturo Giovannitti
all’inizio del Novecento e di come la sua attività di ispirazione socialista e
anarco-sindacalista e la sua vicenda giudiziaria anticiparono di circa quindici
anni quelle più note di Sacco e Vanzetti, anche sul piano della mobilitazione
internazionale.
Allo stesso tempo ha costruito imperi economici
che hanno segnato perfino la storia del sistema bancario:
si pensi alla vicenda di Amedeo Giannini, che
fonda negli USA la Bank of Italy, per
consentire agli emigrati italiani di spedire i risparmi ai propri familiari in
Italia a costi bassissimi.
Che elabora un sistema di prestiti sulla parola ai
più poveri – italiani e non – colpiti dal catastrofico terremoto di San
Francisco del 1906 mettendo insieme sentimento di comunità e spirito
solidaristico, creando un sistema fiduciario che porta anche coloro che non hanno
mai affidato i propri risparmi a una banca a fidarsi di lui – e solo di lui,
dell’italiano – per i propri investimenti dopo la ricostruzione.
Quella banca oggi si chiama Bank of America, nata come banca degli ultimi e divenuta banca di
tutti, oltre che la più grande banca del mondo.
Nata dall’idea di un italiano e dal suo sentirsi
italiano e parte di una comunità.
E anche durante il Fascismo, quando Stato e
Partito nazionale Fascista coincidevano, quando gli esuli politici si
rifugiavano in Svizzera e il mondo associativo e solidaristico si costituiva in
“Colonie libere”, per sottolineare che il mondo associativo italiano non era
fascistizzabile, ma era appunto libero (libero significava ovviamente di
Sinistra, perché opposto al Fascismo), il vero tratto identitario italiano e
quello sociale, antifascista e di Sinistra caratterizzavano le nostre comunità
e incrociavano ancora i destini della Sinistra e delle nostre comunità con
l’Italia.
Poi venne il secondo Dopoguerra e l’era
degasperiana e democristiana.
Periodo in cui l’Italia entra in nuovo sistema
costituzionale, antifascista, caratterizzato dalla dialettica democratica tra
mondo democristiano e cattolico e mondo socialista e comunista.
Una dialettica che plasma anche le nostre comunità
tra, da una parte, il PCI e il PSI, le
gradi forze sindacali e il mondo associativo che vi ruotano intorno e
dall’altra la DC, la Chiesa e il mondo cattolico.
Ma è ancora il mondo del sociale, di ispirazione cristiana
o di matrice marxista, che fa la politica e organizza le nostre comunità, da
Marcinelle all’Australia, da Mattmark all’Argentina, da Lussemburgo all’Uruguay
fino a Berlino.
Già Berlino!
È quella città che, a mio modesto parere, segna nell’89
lo spartiacque nell’evoluzione dei rapporti tra comunità all’estero e partiti,
quindi con la madrepatria.
Per molto tempo, durante il fascismo e soprattutto
dal secondo Dopoguerra e fino all’89, l’Italia aveva riflettuto, pur con fasi
alterne e con approcci diversi, su cosa fossero e come andassero inquadrate le
nostre comunità nel mondo, come potevano rapportarsi al sistema Paese.
Nell’Italia democristiana, erano perfettamente
inquadrati e incasellati e costituivano un serbatoio economico di rimesse che
servivano per finanziare l’ammodernamento del Paese e molto altro.
Ci piaccia o no. Non importa. Erano tuttavia inquadrati
in una precisa visione dallo Stato.
E ci furono precisi momenti nei quali lo Stato – e
poi a scalare i Partiti nella propria dialettica e diversa visione del mondo –
rifletteva su queste comunità, sul loro rapporto con l’Italia e quindi sulle
politiche da programmare per questo universo.
Alcuni di questi importanti momenti furono le
Conferenze nazionali per l’emigrazione. La prima si tenne a Roma nel 1975 e la
seconda nel 1988.
In quell’occasione persino Papa Giovanni Paolo II ricevette
i delegati esteri e tenne un importante discorso, ricordando l’opera della
Chiesa verso gli emigrati e le figure di monsignor Geremia Bonomelli, Giovanni
Scalabrini e santa Francesca Cabrini (della quale quest’anno ricade il centenario
della morte).
Lo fece in continuità con l’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, nonostante i tempi mutati, sottolineando l’arrivo di una “legislazione nazionale e internazionale che sancisce i fondamentali diritti dei lavoratori, tra cui il diritto al ricongiungimento con i propri familiari, il diritto di prendere parte alla vita sociale, sindacale e, almeno parzialmente, a quella politica”.
Sottolineava come “l’uomo [sia] l’autore, il
centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” e che dovesse essere “l’economia
a doversi adattare alle esigenze della persona e alle sue forme di vita e non
viceversa”.
E il Papa si compiaceva del fatto che quelle sue
preoccupazioni fossero vivamente sentite e tenute presenti nell’impegno
sociale, sindacale e politico degli emigrati.
Aggiungeva anche “la convinzione che alcuni problemi, divenuti planetari, hanno bisogno di ampia solidarietà, e che tante soluzioni sono possibili soltanto con politiche che superino le barriere nazionali”: cosa che “giova molto alle cause dei migranti”.
Chiudeva sugli immigrati del Terzo Mondo e i
profughi, quasi profetizzando come “a lungo termine nessun Paese benestante
potrà difendersi dall’assalto di tanti uomini che hanno poco o nulla per
vivere”, chiedendo di attrezzarsi per una “ordinata e rispettosa convivenza di
diversi gruppi etnici e di diverse razze”.
E poi esortava le istituzioni a “intensificare ogni sforzo teso a
coordinare le iniziative, a finalizzare sempre meglio gli interventi”.
Tutta questa elaborazione di tradizione cristiana,
questa riflessione voluta dai Governi degli anni 70 e 80, trovava eco in un
tratto sociale e solidaristico, di comunità, anche nelle conferenze
sull’emigrazione del PCI, nell’opera e nei discorsi di Carlo Levi e Paolo
Cinanni, nell’elaborazione di tradizione marxista.
L’incontro – e persino lo scontro – tra queste due anime, la riflessione comune in importanti momenti della storia nazionale, sfociava poi nell’individuazione di una politica pubblica per l’emigrazione rispetto alla quale i singoli Partiti potevano confrontarsi in termini elettorali.
L’incontro – e persino lo scontro – tra queste due anime, la riflessione comune in importanti momenti della storia nazionale, sfociava poi nell’individuazione di una politica pubblica per l’emigrazione rispetto alla quale i singoli Partiti potevano confrontarsi in termini elettorali.
Poi venne, appunto, Berlino e il mondo cambiò.
Come cambiò l’Italia e la storia di DC e PCI.
Arrivò, subito dopo, Tangentopoli e fece irruzione
sulla scena Berlusconi.
Da qual momento in poi, a me pare, i fili tra
l’Italia e le sue comunità nel mondo sono andati progressivamente
assottigliandosi.
Ciò è avvenuto, paradossalmente, nel momento in
cui forse c’erano da trarre i maggiori frutti di questa nostra storia di esodi.
L’elaborazione si è un po’ persa, il riassetto
dello Stato non ha previsto un pensiero e una seria politica pubblica verso gli
italiani nel mondo.
Tra ’96 e 2001, anche grazie all’impulso di Piero
Fassino, allora sottosegretario agli esteri e di Mirko Tremaglia, si è arrivati
all’introduzione della rappresentanza parlamentare estera e poi al voto per
corrispondenza, obiettivi rivendicati nei decenni precedenti da tutto il mondo
dell’emigrazione e riconosciuti dalla precedente Conferenza Nazionale dell’88.
Ma all’inizio degli anni 2000 si è anche fermata
la riflessione e l’attenzione pubblica dello Stato, come se l’introduzione
della Circoscrizione Estero e dei parlamentari, da soli, potessero bastare.
Condannando così all’isolamento gli stessi Parlamentari.
Gli ultimi tentativi di una riflessione complessiva
di Stato furono la “Conferenza dei parlamentari di origine italiana nel mondo”
del novembre 2000, e la successiva prima Conferenza degli italiani nel mondo del
dicembre dello stesso anno, sotto lo slogan di “emigrazione come risorsa”.
Intuizione valida, ma poco praticata.
Da allora il mondo ha continuato a cambiare più
velocemente di quanto potessimo pensare, le nostre comunità sono ormai molto diverse
socialmente, economicamente, culturalmente da quelle che avevamo di fronte
quasi 20 anni fa.
E gli stessi partiti italiani sono del tutto
diversi.
L’unico filo comune che lega l’evoluzione delle
nostre comunità allo Stato italiano è la tradizione popolare, culturale e
sociale frutto delle ispirazioni cristiana e socialista confluite nel PD.
Ecco perché, se davvero oggi riteniamo di essere l’architrave
democratico del Paese, anche quello sparso nel mondo, come Partito Democratico
abbiamo la responsabilità e il dovere di passare dalla fase delle politiche di
emergenza, della quotidianità e degli interventi a breve termine, a una
politica di adeguamento e di ripensamento complessivo delle nostre composite comunità
e del loro rapporto con il Paese, in termini di complessità, sussidiarietà,
integrazione locale, modernità e impresa etica.
Dobbiamo farlo stimolando la riflessione da
principale forza di Governo, da reale forza di rappresentanza dell’universo
italiano all’estero capace di tenere insieme vecchie e nuove migrazioni,
tradizione e nuovi bisogni, opportunità e innovazione.
Anche sulla scia di quanto detto ieri da Marina
Sereni.
Dovremmo farlo mettendo nel nostro programma per
la prossima legislatura una nuova Conferenza sugli italiani nel mondo – o
meglio sugli italici e sui nuovi giovani migranti – da impegnarci a convocare
già nel 2018. (Proprio quella dei giovani di qualche anno fa aveva dato buone
speranze, ma fu poi abbandonata).
Una conferenza istituzionale, che veda la
partecipazione di Presidenza della Repubblica, presidenze di Camera e Senato e
Ministero degli esteri.
Una Conferenza nazionale che ridia al Paese una visione
complessiva dello Stato verso le nostre comunità, che tra l’altro sono
cresciute, in un decennio, di oltre 1,5 milioni di persone e che, probabilmente,
continueranno a crescere.
Se non lo faremo, rimarremo nel guado nel quale
siamo da molti anni, vanificando anche l’introduzione della Circoscrizione
estero che ormai ha compiuto undici anni.
Se lo faremo potremo rafforzare quei fili
assottigliati che ci legano a quel mondo che ho tentato di riassumere e magari
a capire meglio, proprio attraverso l’emigrazione, cosa siamo e come possiamo
evolvere come Sistema Paese.
Ultima nota.
ATTENZIONE! ATTENZIONE!
Lo dico con la solennità che la cosa merita: il PD
è stato in questi suoi dieci anni di vita l’erede di quella tradizione
cristiana e socialista a cui ho accennato e l’architrave politico e democratico
nelle nostre comunità all’estero.
È stato il Partito che ha saputo tenere insieme quell’universo vario di mondo politico di centrosinistra, di mondo sindacale, di realtà associative laiche e cattoliche, di impresa cooperativa.
Lo è stato fino al 2013.
Oggi rischia l’isolamento, rischia di arrivare al
2018 sfibrato e alleggerito, non più punto di riferimento e collante delle
nostre collettività e delle nostre migliori tradizioni e realtà associative, ma
collettore di rabbie, frustrazioni e generatore di divisioni del nostro stesso campo.
Sarebbe una disfatta non solo per il PD, ma per le
altre forze di Sinistra, per le tradizioni che ho provato a raccontare, in
definitiva, per le nostre comunità.
Ecco perché, dicevo all’inizio, dal rapporto tra
comunità italiane nel mondo e PD passa in buona parte il destino delle nostre stesse
comunità e il loro rapporto con l’Italia.
Facciamo di tutto perché ciò non avvenga.
E chi
ha ruoli anche all’estero, quanto più importanti, non li usi per esercitare
prepotenza e coercizione, che umiliano e dividono, perché ha maggiori e più
importanti responsabilità per esercitare dialogo e unità nel PD e nel
centrosinistra.
e lancio un appello anche a Piero Fassino, che questo mondo conosce e tanto ha saputo fare da Segretario dei DS in termini di dialogo politico paziente, di cucitura ampia e articolata, di alleanze politiche, di costruzione programmatica e culturale: elementi oggi molto carenti.
Gli dico: facciamo di tutto per tenere insieme il
PD e frenare le fuoriuscite che sarebbero un disastro culturale, politico ed
elettorale.
Fuoriuscite oggi sempre più probabili da parte di
tanti che vengono quotidianamente additati di non essere unitari, di criticare,
di essere “gufi rosiconi”, quando andrebbero invece coinvolti e
responsabilizzati a ogni livello.
Proviamo, invece, a unire il PD condividendo ruoli e responsabilità
per lavorare tutti a recuperare un pensiero complessivo, organico e nella
tradizione del nostro mondo e sul nostro mondo.
E facciamolo anche impegnandoci a mettere in
programma, già alla Conferenza programmatica, la convocazione istituzionale di
una nuova Conferenza degli italici e della nuova emigrazione.
Proviamo, quindi, a lanciare il cuore tanto in
alto quanto alto è l’ostacolo che ci si presenta nel 2018.
Anche così io ho voluto cogliere ieri le parole
sagge di Marina Sereni e oggi quelle di Marco Fedi.
In questo senso faccio ancora gli auguri ad Anna Grassellino, affinché possa riuscirci meglio di come abbiamo fatto fin qui.
In questo senso faccio ancora gli auguri ad Anna Grassellino, affinché possa riuscirci meglio di come abbiamo fatto fin qui.
Grazie a tutti e buon lavoro.