Chi come me è cresciuto in Calabria sa bene cos’è la ‘ndrangheta. Conosce la sua grande abilità nel mimetizzarsi tra le persone per bene e nel mondo economico e politico; l’equivoco di farsi considerare come fenomeno minore, se non addirittura come una invenzione letteraria. Allo stesso tempo, quando inevitabilmente si materializza in tutta la sua spietata e crudele sete di soldi, di potere e di sangue sul territorio, riesce a far passare l’idea (anche tra molte persone per bene) che si tratti di accidenti inevitabili, ma intorno ai quali (almeno lei, la ‘ndrangheta) produce lavoro in quelle riserve di disoccupazione ed emigrazione che sono le province calabresi. E proprio attraverso l’emigrazione dei decenni passati e i confini dei capi famiglia nel centro e nord Italia o all’estero, la ‘ndrangheta ha allungato i suoi tentacoli al di fuori della Calabria divenendo l’associazione criminale più potente al mondo e più “affidabile” nel campo della criminalità organizzata. È un fenomeno terribile. È la Piaga (con la P maiuscola) della Calabria.
L’unico vero, grande, ostacolo allo sviluppo di quella regione: gli altri problemi, non pochi, sono conseguenze scaturite da quel male originario e possono sperare in una soluzione solo a partire dall’aggressione totale alla criminalità organizzata. La ‘ndrangheta agisce in ogni settore della vita calabrese: emigrazione compresa. E nella vicenda Di Girolamo è proprio questo mondo di emigrati che viene colpito. Colpito per la seconda volta. Perché chi emigra (o è emigrato in passato) dalla Calabria lo fa quasi sempre per necessità, sempre con quel tanto di sofferenza e dolore che provoca il distacco da quella terra. Si rifà una vita all’estero con nuove speranze: un lavoro, una vita nella legalità, una rappresentanza diretta che gli permetta di tenere il legame con una terra che non riesce e non vuole dimenticare, persino alimentando lontane e illusorie speranze di ritorni trionfali ai luoghi natii. Questo orizzonte di realizzazione viene troppo spesso inquinato e compromesso dai boss, dai loro “servi”, i loro affaristi, i loro killer, i loro legami ambigui con alcuni “rappresentanti istituzionali”. Ecco, anche di questo deve rispondere in tribunale il senatore Di Girolamo. Di aver contribuito, con il suo (per ora presunto) prestarsi a interessi mafiosi, ad aver minato alla base le speranze degli emigrati che per anni si sono spezzati la schiena col lavoro lontano dalla propria terra. Di aver gettato tonnellate di fango sulla Circoscrizione estero e sul voto dei nostri milioni di concittadini onesti.
Di aver insinuato il sospetto, in tanti, che decenni di battaglie delle comunità, delle associazioni, dei sindacati, per l’autoaffermazione e l’integrazione, per i diritti dei migranti e dei lavoratori, culminate con il voto per corrispondenza e con la Circoscrizione estero (che sono solo l’inizio di un nuovo e moderno cammino), oggi siano, in concreto, lo strumento di una o più associazioni mafiose a cui le nostre comunità servono per portare in parlamento i propri uomini. Non è così. Gli italiani all’estero non sono questa cosa. Gli italiani all’estero sono le vittime della ‘ndrangheta e di Di Girolamo esattamente come gli italiani in Calabria. Nel processo che si terrà, gli italiani all’estero sono, anche moralmente, la parte lesa. Sta al parlamento, poi, stringere le maglie larghe del voto all’estero, confermandone importanza e validità, ma intervenendo per renderlo più sicuro e non penetrabile alle mafie, buttando via l’acqua sporca tenendo stretto e con cura il bambino che deve ancora crescere.