Da una decina d’anni a questa parte, l’emigrazione italiana dal Sud verso il Nord Italia e l’estero è ripresa a livelli molto prossimi a quelli delle grandi migrazioni degli anni ‘50. Questo è quanto ci dicono i dati ISTAT sull’ultimo decennio.
La differenza, però, rispetto all’emigrazione degli anni ‘50, sta nel fatto che a emigrare non sono più soltanto i disperati, quelli poco o nulla scolarizzati e che cercavano semplicemente uno stipendio per sopravvivere. Quelli che “emigrano”, o meglio che si “spostano” oggi, sono in massima parte giovani laureati o diplomati. Giovani anche altamente scolarizzati in grado di navigare in Internet, che spesso conoscono almeno una lingua straniere (nella maggior parte dei casi l’inglese), che vanno alla ricerca di un luogo che sentono più vicino alla propria indole, nel quale gli è possibile esprimere il proprio talento. Quindi una generazione di persone che si muove anche perché cerca di più di quel che ha, mentre quella degli anni ’50 cercava qualcosa perché non riusciva ad avere nulla dove stava.
Ma, naturalmente, questa categoria di nuovi migranti, si aggiunge a quella delle forze lavoro meno qualificate, quelle che continuano ad essere poco scolarizzate, quelle che non riescono a trovare in loco nessun tipo di lavoro e che partono con la speranza di trovare nel Nord Italia o all’estero ciò che nel Meridione non possono avere: una qualsiasi possibilità di lavoro. Si tratta, dunque, di spostamenti di massa che, dopo essere quasi spariti la metà degli anni Ottanta – attestandosi intorno a poche decine di migliaia di unità l’anno – a partire dalla metà degli anni Novanta a oggi sono tornati a raggiungere anche i 130.000 spostamenti all’anno. Un livello molto prossimo a quello registrato sul finire degli anni ’50 del ‘900. L’Istat, quindi, rileva “la tendenza nell’ultimo decennio alla ripresa delle migrazioni di lungo raggio lungo le direttrici tradizionali”. Che tristezza nel 2007!
Questa situazione deriva anche dal fatto che il Mezzoggiorno d’Italia è il luogo in cui, più che altrove, si registra un altissimo spreco di risorse pubbliche e, contemporaneamente e paradossalmente, un mancato utilizzo di risorse provenienti dall’Unione europea. E dove, al contempo, si registrano gravissime carenze nella fornitura dei servizi che dovrebbero costituire la condizione primaria e allo stesso tempo un volano per lo sviluppo economico.
A questi problemi si aggiunge quello demografico e della denatalità - del tutto nuovo per il Mezzoggiorno italiano - che pone un serio problema allo sviluppo futuro di quest'area, e che rischia di far pagare domani a caro prezzo il tempo perso e le risorse sprecate.
Nella prima metà degli anni ’70 nascevano in media 3 figli per donna nell’Italia meridionale, e attorno a 2 nel Nord. La crescita demografica dell’Italia era alimentata grazie alla fecondità del Sud. Nella prima metà degli anni ’90 l’Italia settentrionale aveva una natalità inferiore a qualsiasi altro Paese al mondo, mentre l’Italia meridionale era al livello dei paesi europei più fertili. Negli ultimi dieci anni è iniziata una fase nuova. Per la prima volta la fecondità è tornata a salire, ma solo al Nord. Inoltre, per la prima volta, si ha un Sud che continua a decrescere, e un Nord che presenta moderati segnali di ripresa. Nel Sud, inoltre, le conseguenze della denatalità sul declino e sull’invecchiamento della popolazione sono accentuate rispetto al Nord, dalla pressoché nulla presenza di immigrati stranieri e dalla forte ripresa dei flussi migratori in uscita di giovani di cui ho detto in precedenza.
Un mix, questo, che se non trova una inversione di tendenza in tempi relativamente brevi, metterà a serio rischio la sopravvivenza economica e demografica dell’intero Mezzogiorno italiano, che si trasformerà in un innaturale cimitero di anziani bisognosi di un’assistenza che difficilmente avranno, sia pubblica che privata o familiare. E chi ne farà le spese più grosse saranno le regioni più povere - Calabria in testa - i piccoli comuni e le classi sociali più deboli.
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