Di seguito la mia relazione all'evento "Quali politiche e prospettive culturali dell'Italia all'estero in particolare in Tunisia?", organizzato dal Circolo PD Maurizio Valenzi e tenutosi a Tunisi sabato 15 dicembre 2012.
C’è la crisi, c’è una situazione economica tra le peggiori di sempre, c’è instabilità. E allora si taglia.
Lo si è fatto in modo indiscriminato per gli anni del governo Berlusconi e si continua a farlo, seppur in modo più oculato, ancora oggi nonostante i proclami di Mario Monti e della sua apertura verso il mondo della cultura.
Soltanto pochi giorni fa, nel corso di della trasmissione dell’Ufficio italiani nel mondo del PD in onda su YouDem TV, il sottosegretario ai Beni Culturali Roberto Cecchi è intervenuto proprio sui temi che stiamo trattando oggi.
Ha parlato di promozione della cultura e della lingua italiana nel mondo e ha ammesso in tutta onestà che le risorse a disposizione per la difesa della nostra cultura non bastano.
Cecchi non ha parlato di numeri e di cifre – del resto non si conoscono esattamente i fondi a disposizione, nascosti selvaggiamente tra le tante voci dei capitoli di spesa della Stato – ma ha dato una percentuale: lo 0,22%.
E’ la fetta delle spese dello Stato che viene destinato al mondo della cultura. Poco, decisamente poco.
Anche rispetto a quanto altri Paesi Europei, come la Francia e la Spagna, spendono per la propria cultura: una percentuale che supera lo 0,35%: molti milioni di euro – forse addirittura miliardi – in più rispetto allo stanziamento italiano.
Nonostante il nesso fra lo sviluppo della cultura e la tutela del patrimonio culturale sancito dall’articolo 9 della Costituzione, insomma, l’Italia manca ancora di una visione organica e di sistema della creatività, della cultura e delle politiche culturali.
La connessione patrimonio e identità culturale – creatività – produzione e industria culturale non ha trovato soluzione né nelle politiche, né nella struttura della legislazione di sostegno e sviluppo per la cultura.
C’è bisogno di intervenire con la massima urgenza nella prossima legislatura.
E il primo intervento – ricollegandoci al discorso degli stanziamenti - va fatto anche sui capitoli di spesa.
Qualsiasi esame del comparto cultura e creatività in Italia e nel mondo non può prescindere dalla questione della spesa pubblica, oltre che privata, nel settore.
Finora ho parlato di spesa e non di investimento perché, al di là delle dichiarazioni di intenti, è questa la categoria nella quale gli stanziamenti per questi due settori sono inseriti: e già questo spiegherebbe le difficoltà in cui si dibattono cultura e creatività in Italia.
Va anche sottolineatoche se questa regola generale è valida per gli stanziamenti pubblici, non altrettanto si può dire per quelli privati e, in particolare, per quelli delle imprese.
Il vero problema, forse, è la misurazione di questa spesa che ha ancora oggi aspetti di superficialità e indeterminatezza.
Ciò avviene per diverse ragioni. Innanzi tutto perché esistono almeno 4 livelli di governo che erogano secondo categorie e criteri del tutto difformi uno dall’altro.
A ciò si aggiunge una certa riluttanza da parte delle regioni e degli enti periferici ad accettare il monitoraggio delle loro spese che, da sempre, sono state oggetto di dosi spesso eccessive di soggettivismo, vero problema del federalismo che ha aumentato la spesa pubblica enormemente e senza raccordi nazionali.
Di norma la misurazione della spesa pubblica culturale in Italia è limitata ed esclude quella delle regioni e dei comuni. Per portare un esempio tra i tanti possibili, la spesa per la cultura della Repubblica Federale Tedesca comprende, tra l’altro, il finanziamento alle Accademie d’arte, di musica e di teatro e al Ghoete Institute.
In Italia, invece, queste spese sono sostenute dal MIUR. Metterle insieme diventa dunque difficile ed è anche per questi motivi che, poco fa, ho detto “nascoste selvaggiamente” in relazione alle spese della cultura. Se poi questo gioco a nascondere i dati sia voluto o meno non sta a me, giudicarlo.
Io valuto status quo ed effetti.
L’altro fattore che determina l’arretratezza del nostro Paese nella promozione culturale in Italia e all’estero, è la scarsa abitudine – da parte di privati ed enti pubblici – a considerare di primaria importanza i posti di lavoro nel mondo della cultura.
Un Piano del Lavoro nella cultura non è una policy che si aggiunge a quelle esistenti ma comporta una revisione di tutti gli indirizzi consolidati e anzi un'esplicita discontinuità con gli approcci che hanno dominato fin qui il dibattito sulle politiche culturali.
Bisogna liberarsi di molti miti e di tanti errori se si vuole creare lavoro e cogliere l'occasione della cultura come contributo alla crescita civile oltre che economica del Paese, e al raccordo e integrazione all’estero.
Le professioni legate alla cultura e alla creatività, in Italia non sono conosciute e per questo non sono neanche ri-conosciute.
Ad ogni legislatura da alcuni anni si annuncia come imminente l’approvazione di norme per il riconoscimento delle professioni intellettuali e per la professionalizzazione all’estero ma, fino ad oggi, senza un reale esito.
E non va bene.
Le nostre imprese creative e culturali, i nostri enti nel mondo e gli insegnanti del contingente, sono sole di fronte a un mercato globale spesso ben organizzato e sempre molto aggressivo.
Il solo essere prodotto italiano non basta per competere.
Di fronte alla sfida dell’export le imprese hanno bisogno di essere supportate attraverso adeguate strutture di promozione.
La premessa di queste politiche è nel miglioramento della qualità dei prodotti della cultura che può avvenire solo a partire dalla valorizzazione del lavoro, del momento creativo, delle competenze e dei talenti.
Il destino delle imprese e la loro competitività sono legati indissolubilmente all’effettivo valore aggiunto che saranno in grado di realizzare.
Il coinvolgimento del capitale umano in questo particolare settore è il fattore fondante del successo dell’impresa e delle istituzioni culturali.
C’è poi la scuola, che della cultura italiana dovrebbe rappresentare le fondamenta.
Anche qui, però, soltanto lacrime e sangue (letterale, in questo caso, viste anche le teste spaccate degli studenti nelle ultime manifestazioni).
I tagli sono stati tanti e lineari e hanno colpito soprattutto l'insegnamento della lingua e cultura italiana all'estero, sia attraverso la pesante riduzione del contingente degli insegnanti italiani, sia attraverso la mancanza di risorse da destinare agli enti gestori.
Il Partito democratico aveva avanzato delle proposte assumendosi precise responsabilità e senza aumentare la spesa, bensì mantenendo il contingente, tagliando le indennità di sede e diverse agevolazioni sia degli insegnanti che del personale Mae e introducendo quindi i primi elementi di una più ampia riforma da fare nei prossimi mesi.
Ma le proposte non sono state accolte.
Fortunatamente ci sono anche esempi positivi che arrivano proprio dall’Area del Mediterraneo.
Pochi giorni fa le agenzie hanno battuto la notizia della firma di un nuovo Memorandum d’Intesa sul Programma ILLIRIA in Albania.
Un progetto che servirà a promuovere e sviluppare l’insegnamento della lingua italiana, come prima lingua straniera, nel sistema scolastico albanese a partire dalla classe III della scuola primaria fino all’ultima classe di quella secondaria di II grado.
Ad esempi come questo non si può che guardare con positività e pensare di replicare nella sponda Sud del Mare Nostrum, che è e deve essere ancor di più un’area prioritaria della politica estera italiana.
D’altronde questo è il solco storico della nostra politica estera.
Il Mediterraneo rappresenta un’area “calda” del mondo, la più “calda”.da qui l’Italia, anche per i suoi rapporti storici di amicizia, culturali e geografici, deve ripartire per favorire la risoluzione della principale questione mondiale della politica estera: la vicenda israelo-palestinese.
Una vicenda la cui risoluzione favorirebbe la soluzione di molti altri dossier internaizonali.
Per questo, bene hanno fatto Bersani e il PD a insistere su Monti per il voto all’ONU a favore della Palestina.
Un voto coraggioso.
Un voto che disegna un progetto politico e un’idea precisa di Mediterraneo e di Italia.
E questo progetto, chiaramente, per camminare su tutta la sponda Sud ha bisogno di scambi culturali, prima che politici ed economici.
Ha bisogno di far emergere con forza come ci sia molta più “vicinanza” e affinità culturale tra Italia e Nord Africa, che tra Italia e Olanda (solo per fare un esempio e capirci meglio).
Per ricordarcelo tutti, e scusate la deformazione professionale della citazione, basterebbe fare nel Mediterraneo e nella promozione culturale italiana, dei corsi di lingua e cultura su De Andrè e su quel raffinato album degli anni Ottanta che fu Creuza de ma.
Un album per il quale il cantautore genovese scelse come lingua delle canzoni il dialetto di Genova, che da lingua locale diventa strumento di comunicazione globale, riprendendo in musica i suoni e gli strumenti di tutti i paesi del Mediterraneo, cantando storie e viaggi dei marinai della sua Genova insieme alle distruzioni e morti di innocenti disarmati causate dai carri armati degli eserciti in Medio Oriente.
Tutto per raccontare la nostra storia, quella di questa parte del mondo e quella universale.
Il miglior esempio, quindi, di ciò che significa cultura, Italia, Mediterraneo e contaminazione.
Grazie