Purtroppo, a causa di quello che Fantozzi avrebbe definito un "mostruoso ritardo di Alitalia", insieme ad Andrea De Maria siamo arrivati tardi e ad evento ormai concluso. Ma se fossimo arrivati in tempo avrei detto queste poche cose.
Buongiorno a tutti.
Grazie a Giovanni Forciniti, agli organizzatori e relatori di questo
evento per l’invito e l’occasione che ci danno.
Grazie a SinistraDem, che anche in Calabria sta organizzando occasioni di
discussione politica su temi di interesse specifico o generale.
Grazie naturalmente a Gianni Cuperlo e ad Andrea De Maria per essere con
noi.
Grazie a tutti voi venuti qui in tanti, anche da fuori Crotone.
Io vorrei provare a dire solo poche cose sul tema di questa giornata:
“Ripartire dal Sud”.
Ripartire implica il fatto che ci sia stata, in un tempo alle nostre spalle, almeno una partenza. E che a un certo punto ci si sia fermati.
Magari in modo diverso da come lo si è fatto prima.
E in effetti al Sud si è provato molte volte a partire, in diversi modi.
Solo una “partenza” non si è mai arrestata, pur mutando di intensità:
quella di chi, dal Sud, emigra.
Di chi lascia il Sud per ragioni economiche e parte.
Oggi assistiamo a un nuovo ciclo di partenze, prevalentemente per
l’estero.
Solo nell’ultimo lustro, secondo il Rapporto Italiani nel mondo della Fondazione
Migrantes, più di centomila persone l’anno hanno lasciato l’Italia per
cercare lavoro all’estero.
E, diversamente da quanto ‘raccontato’troppo spesso strumentalmente, il
saldo tra emigrati e immigrati risulta negativo: sono di più gli italiani
che partono che gli stranieri che arrivano.
Quindi continuiamo a essere un Paese di emigrazione.
E anche se i dati assoluti ci dicono che la maggior parte delle partenze
è concentrata al Nord, una analisi più attenta ci racconta una realtà diversa:
chi parte dal Nord è in buona parte un lavoratore immigrato che in un
primo tempo aveva trovato lavoro lassù e lo ha perso, o un meridionale che si
era trasferito al Nord e ora va all’estero.
Quindi il Sud continua a vivere una desertificazione umana.
La Svimez, infatti,
rileva che dal 2000 a oggi sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno,
in gran parte laureati e sotto i 35 anni di età.
E che entro
il 2050 solo un italiano su 4 abiterà le città meridionali.
Ecco che il
titolo di questa iniziativa, quindi, seppur pensato come ripartenza del PD e
del Governo, ho voluto interpretarlo anche come una intelligente provocazione
culturale, per ragionare più a fondo sul perché della diaspora meridionale.
Sono
convinto che l’emigrazione economica – e quella meridionale è emigrazione
economica – sia da sempre il termometro che misura la febbre di un Paese, cioè
l’efficacia delle politiche di sviluppo, fiscali e del lavoro di un Paese.
Quindi il
livello di progresso e di redistribuzione del reddito.
Più l’emigrazione
è alta, meno le politiche economiche e sociali sono efficaci. E viceversa.
Il problema è che al Sud, dall’Unità a oggi, questa febbre è quasi sempre
stata alta, configurando il Meridione come un problema strutturale.
Per di più intrecciato a un altro problema strutturale: la criminalità
organizzata, diventata parte della Questione meridionale e radicatasi ormai da
tempo ben fuori dal Meridione.
E quando il problema è strutturale e di lunga durata, il rischio è che le
persone finiscano per rassegarsi a questo stato di cose, per perdere la
speranza.
Il rischio è la rassegnazione allo status
quo economico e al fatto che l’illegalità sia, al fondo, un ‘sistema’ con
cui convivere, in assenza di alternative migliori. Quindi subentra la
disperazione.
E come
scriveva Corrado Alvaro, si sa, “la disperazione più grave che possa
impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.
E il rischio
è che al Sud, se non si aggrediscono i problemi strutturali, qualcuno possa
cedere a questo stato d’animo, a una subalternità culturale, alla criminalità,
all’antipolitica.
Con buona pace delle numerose risorse che pure vi sono: sul piano
paesaggistico, culturale, economico, lavorativo.
Serve un cambiamento, come direbbe il professor Costabile, di tipo
gramsciano.
Gramsci rilevava che se ogni
relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un
rapporto di potere.
E spiegava che occorre una egemonia
culturale che deve farsi progetto di cambiamento del modo di intendere e vivere
le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche.
Occorre uscire dalla politica della
navigazione a vista, dell’intervento emergenziale, o degli interventi
settoriali e parcellizzati, non sorretti da un’idea complessiva di Paese.
Occorrerebbe un Piano, vorrei dire
grande, di sviluppo del Sud, per il quale non bastano – seppure sono condizione
essenziale – le azioni di contrasto alla criminalità intese come lotta condotta
dalla magistratura e dalle forze di polizia.
Servono soprattutto interventi
strutturali sul capitale umano, innovazione logistica e tecnologica,
investimenti culturali consistenti che accompagnino quelli economici.
Il Meridione non deve essere pensato
come una “Questione” a sé e slegata da un piano nazionale, ma deve essere
trasformato nel cantiere della speranza:
la speranza dei giovani del Sud –
che non devono emigrare per necessità – e la speranza del Paese, che non può
pensare di mettersi al passo con le economie forti del mondo se ha un terzo del
suo territorio in una condizione di arretratezza economica.
Quindi “Ripartire dal Sud” sì,
certo, ma culturalmente, economicamente e politicamente. Col PD che deve
ritrovare anche qui la propria missione e il proprio impegno prioritario.
Perché per ripartire politicamente
serve una Sinistra che sappia assolvere al suo ruolo storico.
Il PD vorrà e saprà farlo con le
potenzialità che ha anche al Sud?
Questa è la sfida da cogliere.
Grazie a tutti e buon lavoro.