venerdì 11 gennaio 2008

Perché l’appello su laicità diritti e cittadinanza

Sarò un po' lungo, ma vi prego di arrivare in fondo e scrivere come la pensate.

Mercoledì scorso è uscito su l’Unità un appello sulle questioni della laicità e dei diritti che sarà la base di discussione di un futuro seminario aperto che si terrà a febbraio su questi stessi temi. Alle molte e autorevoli firme che lo promuovono ho osato aggiungere (scusate se stona un po’) anche la mia, in uno spirito di servizio nei confronti degli italiani all'estero che sui temi affrontati dal documento hanno molto da dire.
Nell’ultimo anno, in tutti gli incontri politici a cui ho partecipato all’estero, dal congresso dei DS alla campagna per le primarie, in questi temi (insieme alla collocazione politica internazionale del PD) finiva per essere individuato il vero nodo identitario del futuro PD.

La cosa che più mi colpiva era la naturalezza con la quale i nostri connazionali all’estero vivevano nei propri paesi di residenza certe scelte legislative o semplicemente certi stili di vita e la difficoltà di capire perché in Italia (e ancor più nel PD) questi argomenti diventassero sistematicamente l'oggetto di discussioni infinite e di scelte/non scelte incomprensibili: per loro il carattere laico di un partito, il riconoscimento di diritti e doveri per i conviventi (omosessuali e non) erano elementi di un'idea di cittadinanza e di politica acquisita da tempo.
Non è mai stato facile, per me, spiegare il dibattito, a volte aspro, che questi temi sollevavano all'interno del costituendo PD.
Oggi, dunque, che non è più rinviabile il tempo delle scelte su questi temi, io ho fatto la mia e, sono sicuro, molti democratici all’estero vorranno e dovranno fare la loro. Per questo vi propongo di seguito il testo dell’appello chiedendovi di leggerlo con attenzione e di darmi un parere sincero.

In pochissimi giorni e sfruttando il solo passaparola questa lettera, immaginata da alcuni di noi per promuovere un seminario aperto, è stata condivisa da un centinaio di persone. Altre hanno chiesto di conoscere il testo. Quello attuale è dunque un primo elenco di firme. Ringraziamo l’Unità per la sua attenzione che speriamo consentirà ad altre e altri di aderire all’iniziativa.

Si discute molto di laicità, diritti civili e temi ‘eticamente sensibili’. Lo si fa sui giornali, con saggi, nelle istituzioni, nei partiti. Lo fanno le religioni. Lo fa la Chiesa cattolica. E ovviamente la politica. Dico, Cus, testamento biologico, fecondazione assistita, interruzione volontaria della gravidanza, rispetto dell’orientamento sessuale e lotta all’omofobia, il grande capitolo della convivenza: da mesi sono alcuni temi del confronto politico e pubblico. Per molte ragioni è una discussione inevitabile. Quegli argomenti, infatti, alludono a domande di “senso” fondamentali per la democrazia e per l’autonomia della politica. Per classi dirigenti che sentano l’onere di contribuire a una nuova etica pubblica. Questa discussione ovviamente accompagna, e per certi versi scandisce, la nascita del Partito Democratico. Ne interroga scelte e cultura politica. Pensiamo sia una riflessione strategica per l’avvenire del progetto. E però scorgiamo una sovrapposizione di concetti che ci preoccupa. Il punto è che si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche. L’effetto è che l’estensione arbitraria, o comunque non sufficientemente argomentata, della sfera eticamente sensibile rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso anche dentro il centrosinistra. A questa difficoltà se ne somma una seconda legata al processo costituente del Partito Democratico. La riassumiamo così. Quale dev’essere, o può ragionevolmente diventare, l’equilibrio tra il pluralismo delle posizioni interne al nuovo partito e la scelta dei principi costitutivi che definiscono oggi la cultura politica delle Democratiche e dei Democratici? Su questo piano manifestiamo la nostra inquietudine. Guardiamo ad esempio con qualche timore a posizioni, certamente minoritarie nel Pd e nella società italiana, che restituiscono all’omosessualità una patente di malattia da curare, concetto abbandonato da tutte le democrazie occidentali anche in seguito alla chiara affermazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Più in generale viviamo come un limite la difficoltà del nuovo partito di elaborare sul terreno della cittadinanza, dei diritti e delle responsabilità del singolo, una chiave indispensabile della propria identità. Il che non equivale all’imposizione di un unico punto di vista su questioni complesse, ma esige appunto un chiarimento sul significato di termini decisivi per il vocabolario e l’azione del Pd, e dunque per la sua idea di progresso e modernità. Ne indichiamo alcuni. I diritti umani e civili. Il valore della persona, la sua libertà e responsabilità. L’autonomia femminile. L’indipendenza e il principio di precauzione della scienza, l’autonomia dei pazienti nella scelta delle terapie come indicato dalla Costituzione. La cittadinanza piena e il contrasto a ogni forma di discriminazione, sia essa di origine etnica, di genere, di appartenenza religiosa o culturale, di orientamento sessuale. Crediamo che questi temi siano determinanti per la crescita civile ed economica dell’Italia e sentiamo il dovere di alimentare questa discussione nel processo costituente del nuovo partito. Intendiamo farlo nel rispetto delle regole che il nuovo statuto definirà. Decideremo insieme se si tratterà di un forum, di un associazione o di altro. Ma è comunque sulla base di un’esigenza di confronto, approfondimento e chiarezza che abbiamo deciso di promuovere un primo seminario su questi temi e sul percorso da avviare nelle prossime settimane.

Barbara Pollastrini, Salvatore Veca, Miriam Mafai, Albertina Soliani, Sergio Staino, Alessandra Kustermann, Gianni Cuperlo, Bianca Beccalli, Carmen Leccardi, Furio Colombo, Ignazio Marino, Carlo Feltrinelli, Andrea Benedino, Valerio Zanone, Stefano Ceccanti, Fabrizio Onida, Francesca Zajczyk, Graziella Pagano, Franca Bimbi, Emilia De Biasi, Ivana Bartoletti, Cini Boeri, Marilena Adamo, Moni Ovadia, Stefano Boeri, Guido Calvi, Luigi Manconi, Tobia Zevi, Mercedes Bresso, Luciano Pizzetti, Salvatore Bragantini, Sergio Lo Giudice, Carlo Fontana, Giovanna Martano, Franca Chiaromonte, Sesa Amici, Stefano Fassina, Michele Rotondo, Marina Calloni, Magda Negri, Maria Fortuna Incostante, Fulvio Tessitore, Elio Matassi, Eva Cantarella, Ferruccio Capelli, Marilisa D’Amico, Carmelo Meazza, Paola Concia, Walter Tocci, Romana Bianchi, Fausto Raciti, Lidia Ravera, Agostino Fragai, Giovanna Borrello, Vittorio Sgaramella, Stefano Passigli, Daria Colombo, Khaled Fouad Allam, Brunella Celli, Alfonsina Rinaldi, Giovanna Rosa, Silvana Giuffrè, Manuela Ghizzoni, Marcella Marcelli, Bianca Gabrielli, Luigi Duse, Tiziana Agostini, Pina Fasciani, Vitantonio Ripoli, Rosanna Abbà, Sara Paladini, Valeria Ajovalasit, Massimiliano Panarari, Roberto Speranza, Antonio Ricci, Matteo Cazzulani, Stefano Draghi, Lucia Codurelli, Cinzia Fontana, Delia Murer, Rosa D’Amelio, Anna Palma Gasparrini, Gabriella Ercolini, Giovanni Colombo, Gianni Pittella, Roberto Cuillo, Susy Esposito, Anna Rossomando, Carole Beebe Tarantelli, Susanna Cenni, Ada Cremagnani, Rosalba Benzoni, Ada Lucia De Cesaris, Francesco Rossi, Eugenio Marino.

martedì 8 gennaio 2008

Fabrizio De André tra ricordi ed emigrazione

Era il 1998, il mio ultimo anno di università, quando lavoravo alla tesi di laurea sui cantautori italiani. Vivevo a Roma in una casa con altri studenti, ma ero in giro per la città a fare le mie ricerche. Squilla il telefono e risponde Francesco, un mio caro amico e compagno di stanza:
- Si, pronto?
- Buongiorno, sto cercando Eugenio Marino.
- Non è in casa. Chi devo dire che lo ha cercato?
- Sono Fabrizio De André.
Segue qualche istante di silenzio. Poi il mio amico riprende:
- Si, va bene. Io sono Lucio Battisti!
- No guardi, non è uno scherzo. Sono Fabrizio De André e cerco Eugenio perché sta scrivendo una tesi di laurea sui cantautori e voleva intervistarmi. Ci siamo sentiti la settimana scorsa.

Il mio amico realizza e, ancora semistordito, si protende in mille scuse e in dichiarazioni di stima.
Questo era Fabrizio De André: uno dei più grandi e sensibili cantautori italiani che, dopo la prima telefonata di uno sconosciuto studente romano non ha alcuna difficoltà a richiamarlo personalmente a casa per concordare termini e modalità di una intervista. A questa telefonata, poi, ne sono seguite altre fatte da me in Sardegna, alla sua casa a Milano o sul suo cellulare (l’ultima proprio nelle vacanze di Natale del ’98, pochi giorni prima della morte). Ogni volta Fabrizio, con estrema gentilezza e sempre scusandosi (l’ultima volta lo ha fatto per lui Dori Ghezzi), tra una chiacchierata telefonica e l’altra, rimandava quell’incontro di persona mai svoltosi. Solo il successivo 11 gennaio 1999, tra lo stordimento e le lacrime, ho capito davvero perché non si è potuto: aveva scoperto quel maledetto tumore che peggiorava progressivamente e rapidamente.

Oggi, a nove anni dalla sua morte, non posso dimenticare quella voce così profonda e vera, quella sensibilità e gentilezza, quella modestia di chi, pur dall’alto della sua statura umana e professionale, era quasi emozionato che qualcuno potesse scrivere una tesi sulla sua opera e che, nonostante la grave malattia di cui nessuno – tranne pochi intimi – era a conoscenza, non si negava e non si mostrava mai infastidito.

Quella voce oggi la ascolto con la stessa attenzione e ricerca con la quale leggo i classici della letteratura. Parlo di classici parafrasando Italo Calvino, quando definiva i classici nel senso di opere che “non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire”, nelle quali a ogni lettura/ascolto viene fuori qualcosa di nuovo, che non si era percepito in precedenza. Brani dai contenuti universali, quelli di De Andrè, pietre miliari nella storia della canzone italiana; sempre attuali e mai banali; che scavano e arrivano nel profondo dell’animo umano. Capolavori ricchi di echi letterari che trasudano filosofia, arte, poesia, amore, cronaca, politica, lotta. Tutto letto con gli occhi di un osservatore estremamente sensibile e capace come pochissimi di riconoscersi nell’altro.
Per ricordarlo in questo nono anniversario della morte, voglio proporre una sua canzone rimasta inedita e sconosciuta, ma che propone l’emigrazione italiana nella sua veste più cruda, quasi mai trattata e per nulla conosciuta o affrontata fino in fondo. Un aspetto dell’emigrazione che oggi, in una Italia terra di immigrazione, clandestinità, criminalità e prostituzione, dovrebbe farci riflettere su ciò che siamo stati, su ciò che siamo e su ciò che dovremmo fare nei confronti di chi arriva in Italia con lo stesso bagaglio di attese e speranze che portavano i nostri connazionali nel mondo.
Si tratta della canzone Lunfardia. Il lunfardo è il registro linguistico di un determinato gruppo sociale, quello degli ultimi. La lingua, per intenderci, che parlavano i nostri emigrati alla Boca, il quartiere portuale di Buenos Aires. E la storia è quella di una italiana abbandonata dal marito che per vivere è costretta a prostituirsi: cosa molto diffusa in certe epoche della nostra emigrazione. Di seguito vi propongo la versione originale e la traduzione.

Lunfardia
Ella vive el dìa en San Telmo
en la Boca de noche està
allà la llaman bacana
aquì busca aunque abrochada està
en sus pasos el tango
en la bocha un clavo pà doblar
bajo una luna portena
bamboleando su martona va.

Què harìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche...

Etos hombres borrachos
que le hablan siempre de ellos
con lengua de tabaco
ellos abren pronto asì sus labios
por cada escarcha que cae
una rosa abierta ella cultiva
hasta que le escupen polvo de oro
que en el profundo centro de su deseo cruel arriba.

Y què herìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche...

Cuando su fulano
aquel chanta se fue
la regadera al suelo
come una taza se cajò
aun mina fiel
hasta que se mueva el dìa
bajo as estrellas es turra
en esta cegante noce de Lunfardia.

Y què herìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche.

Traduzione
Vive il giorno a San Telmo
e di notte sta alla Boca
là la chiamano signora
qui puttana, anche se è sposata.

Nei suoi passi c'è il tango
nella testa un chiodo da piegare
sotto la luna del porto
dondolando le tette cammina.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa farest tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

Questi uomini ubriachi
che le parlano sempre di se
con la lingua che sa di tabacco
aprono in fretta le sue labra

Per ogni brina che cade
una rosa aperta coltiva
fino a quando le sputano polvere d'oro
che nel profondo centro
del suo desiderio crudele approda.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa faresti tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

Quando il suo uomo
quel balordo se ne andò

la fica le cadde a terra
come una tazza.

Ancora sposa fedele
fino a che si muove il giorno
sotto le stelle fa la battona
in questa accecante notte di Lunfardia.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa farest tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

La canzone è stata incisa qualche anno fa da Adriano Celentano nell’album C'è sempre un motivo.