Sono tornato dalla Tunisia, dove ho partecipato, insieme ai Parlamentari Marco Fedi e Nino Randazzo, alla "Settimana del dialogo interculturale" organizzata dallo storico Corriere di Tunisi, della famiglia Finzi.
E' stata anche l'occasione per rivedere Manuelita Scigliano, una brillante ragazza del mio paese.
Manuelita, che nei giorni scorsi ha presieduto uno dei dibattiti in programma e che vive e lavora nella città nordafricana, è riuscita a trovare anche il tempo di farmi godere un po' di Tunisi: venerdì notte mi ha portato, insieme ad altri amici e amiche, in un bellissimo e panoramico locale sul mare nel quale, nella quiete della notte tunisina, tra una chiacchierata e l'altra, seduti su bellissimi tappeti mediorentali, abbiamo bevuto l'ottimo thè ai pinoli e menta e fumato in compagnia il narghilè. Il mondo mi è sembrato, come non mi succedeva da parecchio tempo, a misura d'uomo, lento, tranquillo e civile. Peccato solo non aver potuto comprare proprio uno di quei grandi narghilè da portare nella mia oasi a Zifarelli, dove il mondo è sempre a misura d'uomo.
Sabato, poi, è stata la volta del convegno. Io ho detto le cose che seguono.
"Gli studi antropologici ci insegnano che l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra in Africa.
Da li ha cominciato subito e pian piano a muoversi e viaggiare, fino ad attraversare lo Stretto di Bering e ridiscendere l’intero continente americano fino alle Ande, in America del Sud.
In tutte le ere geologiche e storiche, i nostri antenati hanno continuato a spostarsi, portandosi dietro il proprio bagaglio di conoscenze, piccole o grandi che fossero, di abitudini, buone o cattive che le si interpreti, di culture, primitive o progredite.
Questi nomadi, primitivi, moderni e contemporanei, si sono incontrati e scontrati sulla base di un’appartenenza e per il possesso di un territorio o per l’imposizione di un’identità e di una cultura sull'altra, generando morte e distruzione: basti pensare all'affermazione latina "Cartago deleda est", tanto per rimanere ai casi a noi più prossimi culturalmente.
La storia dell’umanità è segnata da guerre per il predominio dell’uomo sull’uomo, di una civiltà su un’altra, di una religione sull’altra, di una cultura sull’altra, di una identità sull’altra.
La storia del mondo, come lo abbiamo conosciuto fino a poco tempo fa, fino al superamento degli stati nazione, poggiava su divisioni di carattere locale basate sul valore e sul concetto di identità e di cittadinanza.
Proprio nel concetto di identità rientrava il sentimento dell’appartenenza, basato sull’etnia, sulla religione, sugli stili di vita, sulla permanenza in un luogo geografico ben definito e sul percorso storico privato e collettivo che ci si portava dietro.
Da questa identità-appartenenza, poi, derivava il concetto e il diritto di cittadinanza, che determinava il confine tra chi stava dentro e chi fuori, tra l’uguale e il diverso, fino all’estremo dell’incluso e l’escluso, dell'amico e nemico.
Con l’avanzare delle nuove tecnologie che hanno potenziato, migliorato e ingigantito il sistema delle comunicazioni e dei trasporti, il mondo è diventato quel villaggio globale di cui molto si parla.
Il Pianeta è oggi più piccolo, più veloce, più eterogeneo.
Le distanze si sono ridotte, è cambiata la geografia delle comunicazioni, la filosofia e la scienza politica, lo stesso concetto dello stare insieme e il sistema di valori e di riferimenti.
Se dovessi provare a caratterizzare questo nuovo mondo e la sua civiltà con un unico aggettivo dovrei certamente dire che viviamo in una realtà "complessa", come l’ha definita Edgar Morin.
Con la categoria della "complessità", infatti, possiamo dare un valore e un significato a tutto l’insieme di trasformazioni, problemi, spesso drammi che connotano la nostra contemporaneità.
Spaziando dalla globalizzazione economica e gli squilibri sociali che essa, per sua natura, genera.
Alle nuove e grandi migrazioni, ai problemi di carattere energetico e al pericolo militare e terroristico globale.
Per interpretare e governare questa realtà molteplice e "complessa", dunque, serve un pensiero che sia a sua volta "complesso", un apparato valoriale e culturale di riferimento, un’etica condivisa.
E a mio avviso questa etica, per la politica che è chiamata a governare i grandi processi, non può che essere laica, di una laicità intesa come metodo di analisi della realtà e dei suoi fenomeni e non, banalmente, come contrapposizione a religioso.
Attraverso una lettura laica dei fenomeni – tutti i fenomeni, anche quelli non religiosi – il tema dell’etica deve essere declinato al dialogo interculturale, alla pace globale in un mondo oggi a serio rischio di distruzione e in cui è divenuta esigenza vitale l’individuazione di obiettivi comuni e condivisi di costruzione del futuro.
In questa complessità, poi, anche il concetto valoriale dell’identità, come l’ho poc'anzi descritto, sta mutando, e deve continuare a mutare.
Non più un’identità fondata sull’appartenenza dunque, ma sulla condivisione.
Quindi un’identità che poggi non più solo su uno sguardo rivolto al passato, a ciò che siamo stati, bensì al futuro, e che parta dal capire ciò che ci accomuna, che scegliamo di condividere per individuare il percorso che vogliamo fare insieme e il traguardo che vogliamo raggiungere.
Che è poi il sentimento che spinge l’UE nel costruire l’identità europea, per la quale uno sguardo rivolto al passato finirebbe per accentuare gli elementi di divisione, piuttosto che quelli di unità.
E’ necessario, quindi, mettere insieme la ricchezza e la pluralità delle identità
verso obiettivi comuni e scelte condivise: cosa che, per quanto ci riguarda nel nostro piccolo e nell’ambito della vita democratica di un partito politico che si candidata a guidare un Paese e disegnarne l’identità, stiamo cercando di fare in Italia con la nuova esperienza del Partito Democratico.
In questo partito confluiscono identità e culture diverse per tradizione storica, politica, religiosa e sociale.
Un’esperienza che va proprio nella direzione della mescolanza e della multiculturalità, che noi vogliamo proiettare nella fisionomia e organizzazione dell'intero Paese.
In Europa, l’interculturalità costituisce una sfida difficile, allo stesso tempo naturale e obbligata.
Si tratta di gestire molte e importanti diversità che dovranno convivere in modo armonioso all’interno di un destino comune, all’interno di una identità che concili non solo le differenze del Vecchio Continente, ma che sappia integrare anche le componenti extraeuropee nell’ambito dei valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.
Tutto ciò implica aspetti positivi e negativi: lo sforzo deve essere quello di valorizzare quelli positivi e minimizzare quelli negativi, guardando al futuro e alle prossime generazioni, poiché è chiaro a tutti che parliamo di questioni che si protrarranno per molte generazioni a venire.
Per l’Europa è dunque indispensabile assecondare la molteplicità delle espressioni culturali, così com’è vitale sancire l'universalità dei valori essenziali, quelli appunto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
La stessa anima dell’Europa pensata a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale è quella che si riconosce in questi valori.
Valori che hanno consentito più di mezzo secolo di pace e di integrazione, oltre che di espansione e unione territoriale, economica e monetaria basate sulla libera e volontaria adesione piuttosto che sulla conquista e il predominio.
Una Unione, quella europea, nata e ingranditasi contro le guerre e per la pace, nella diversità e integrazione, contro le esperienze totalizzanti, il razzismo e l’antisemitismo e nell’ottica di un multipolarismo globale basato sulla competizione economica e la solidarietà sociale.
Un quadro di valori che non rientra, però, nel relativismo culturale, ma che mira a difendere e consolidare la "dignità di ogni essere umano, uomo, donna o bambino, salvaguardarne l'integrità fisica e morale, impedire il deterioramento del suo ambiente naturale, rifiutare ogni umiliazione e ogni discriminazione abusiva legata al colore, alla religione, alla lingua, all’origine etnica, al sesso, all’età, alla disabilità".
Dunque un’idea di Europa fondata sull’universalità di valori comuni e condivisi e la diversità delle espressioni culturali.
Fino a quando il mondo era quello degli Stati nazione i confini erano netti, anche sul piano culturale e geografico.
Erano possibili distinzioni categoriche tra diverse civiltà e culture, poteva funzionare anche il modello di una pluralità di etiche diverse e distinte.
Il mondo contemporaneo – e l’11 settembre 2001 ce lo ha dimostrato ancor di più – fatto di interdipendenza, permeabilità delle civiltà nel loro reciproco interagire, ci obbliga a una riflessione nuova e alta sull’etica, sulla governance locale e globale che regola il vivere dell’Umanità e l’esistenza individuale, sul problema dei rapporti fra culture diverse.
Quindi la prospettiva deve essere quella della pace, a cui occorre tendere nella riflessione filosofico-politica.
Una pace da perseguire attraverso il dialogo interculturale, il solo in grado di evitare il pericolo dello scontro fra civiltà.
Un dialogo che conduca a una multiculturalità che mette tutti nelle condizioni di conoscenza tali da poter indurre scelte coscienti e ragionate.
Che permetta a tutti di essere pienamente liberi culturalmente.
Se così non fosse, se si trattasse solo di diffondere tolleranza culturale, ci ritroveremmo sempre alle porte casi come quello inglese del 2005, di alienazione di giovani figli di immigrati che si danno al terrorismo.
O casi come quelli delle rivolte delle Banlieu francesci, sempre del 2005.
Si tratterebbe, quindi, di riproposizione di quel modello che Amartya Sen definisce "monoculturalismo plurale".
La giusta strada, invece, come dicevo va individuata in una riflessione pacifista e interculturale che occorre declinare anche nella pratica educativo-formativa, su scala globale e verso le nuove generazioni.Viene naturale che su questi argomenti possa dunque esservi un confronto non semplice fra etiche diverse a livello mondiale.
Per questo lo sforzo oggi si concentra nel provare a costruire quell’"etica razionale universale", il cui massimo teorico è Habermas, che vuole essere un tentativo per costruire una relazione di dialogo e confronto interculturale, il cui fine ultimo sia proprio la pace globale quale soluzione del processo etico-storico.
In questo contesto, nell’ambito dell’Anno europeo del dialogo interculturale, penso sia giusto accogliere l’invito che Asma Jahangir, relatrice dell’ONU sulla libertà di religione e di credo, ha fatto al Parlamento europeo.
Un appello affinché "il dialogo interculturale sia inteso in senso ampio, e comprenda le prospettive religiose e laiche, includa un dialogo a tutti i livelli, si opponga a ogni incriminazione per diffamazione delle religioni" e coinvolga nel dialogo interreligioso anche i "non deisti" e gli atei, poiché è fondamentale "che i governi e la società civile abbiano un ruolo da svolgere nella creazione di un ambiente in cui le persone di diverse religioni e diverso credo possano interagire senza sforzi".
E’ normale che, nella dialettica vi sia chi vuole dimostrare che la propria cultura, religione o lingua è superiore a quella degli altri.
Eppure le religioni offrono anche spunti per condividere valori morali che consentirebbero una comprensione comune e il rispetto reciproco: esempi del genere vi sono persino in Israele, in Palestina e in Irlanda del Nord, seppure raramente evidenziati dai media, che preferiscono puntare sul sensazionalismo delle violenze interreligiose.
Un altro punto fondamentale nel dialogo interculturale e interreligioso è il punto di vista delle donne, quasi sempre marginalizzato, invece, nel dibattito su questi temi.
Così come sarebbe utile ascoltare chi, pur condividendo la stessa fede, ha opinioni e visioni diverse, o gli artisti, i quali meglio degli altri hanno sempre dato prova di saper creare ponti, mescolanze, contaminazioni tra diverse culture.
Nel contesto globale delle differenze economiche, etniche, religiose e culturali, della mescolanza, dell’interculturalità e della pace, la storia del Mediterraneo non può essere scissa da quella dell'Europa e assume una importanza strategica per l’intero pianeta e vitale per il Vecchio Continente e per le sue relazioni con i Paesi che si affacciano su questo Mare Nostrum.
E’ in quest’area infatti che si concentrano le problematiche più calde del pianeta:
questione israeliano-palestinese, conflitto tra le tre religioni monoteiste che sono state all’origine di civilizzazioni e culture millenarie, lotta alle criminalità organizzate, flusso di grandi migrazioni e importanti commerci.
Quest’area è oggi più che mai la porta tra il Nord e il Sud del Pianeta, tra l'Oriente e l'Occidente.
È qualcosa che va molto al di là della semplice strada o frontiera per l'Europa.
È una regione la cui stabilità è divenuta essenziale sia per la sicurezza e prosperità dell’Europa che per quella di tutti i Pasesi dell’Area nord-africana e mediorientali, come dell’intero pianeta.
A che cosa, dunque, la politica – e quella italiana ed europea soprattutto – deve guardare per promuovere la pace mondiale attraverso il principale snodo del dialogo interculturale?
A mio avviso alla cooperazione, avvicinandola il più possibile ai cittadini, attraverso alcuni obiettivi fondamentali che per me sono quelli indicati dal "Processus di Barcellona".
Un processus che va sostenuto e rilanciato, dopo la sua crisi, soprattutto in quegli aspetti che mirano al rafforzamento del livello politico delle relazioni dell’UE con i Paesi del Mediterraneo;
alla divisione delle responsabilità nelle relazioni multilaterali;
alla promozione di progetti regionali concreti utili ai cittadini;
al coinvolgimento del settore privato;
al multilinguismo.
Ad essi andrebbero aggiunti la realizzazione di progetti concreti tendenti a rendere operativa una "solidarietà dei fatti", come la chiamava Robert Schuman, incontri periodici dei capi di Stato e di Governo dei paesi del Mediterraneo che rafforzino il ruolo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea.
Se tutte queste cose le sapremo fare, se la multiculturalità sapremo tradurla in un modo di essere quotidiano e strumento pedagogico, sono certo che consegneremo alle future generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo alle spalle e di quello in cui viviamo oggi.
Un modo più ricco, non solo economcamente, più misto e più bello.
Grazie per l'attenzione e buon lavoro a tutti".
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