Da tempo si occupa di emigrazione, tema su cui ha scritto "Andarsene
sognando. L’emigrazione nella canzone italiana". Con Eugenio Marino
abbiamo discusso di italicità e di made in Italy che, ci ha detto, deve andare
oltre il marketing.
Raccontare la cultura italiana e gli italiani nel mondo è uno dei temi di
questa rubrica. Per saperne di più e qualcosa di nuovo abbiamo incontrato
Eugenio Marino, responsabile nazionale del Partito Democratico per gli italiani
nel mondo, che da tempo si occupa di emigrazione, tema sul quale ha scritto un
libro molto intrigante: Andarsene sognando.
L’emigrazione nella canzone italiana, una ricostruzione
storica dell’Italia degli ultimi 150 anni attraverso la musica italiana che
parla di emigrazione.
Innanzitutto ci racconti come arriva a fare politica e soprattutto ad
occuparsi di italiani nel mondo all’interno del PD.
“Ho cominciato da bambino, al fianco dei miei genitori e loro coetanei, in
un piccolo paese della Calabria, dove la domenica mio padre mi faceva
distribuire l’Unità e poi, crescendo, cominciavo a fare gli annunci per i
comizi, distribuire i volantini fatti al famoso ciclostile, attaccare i
manifesti e fare vita di sezione. A quei tempi – anni Settanta e Ottanta – le
sezioni del PCI e della FGCI del mio paese erano molto attive e vi era una
comunità unita nella quale si respirava un vento di speranza e condivisione,
che derivava da una forte tensione etica e politica. C’erano giovani brillanti,
ai quali la generazione precedente uscita dalla Guerra aveva saputo trasmettere
una severa cultura politica e una voglia di riscatto collettivo. E questo
valeva anche per i nostri avversari di allora, seppure parliamo di un paese di
circa 2.000 persone. Poi c’era la Federazione del PCI di Crotone, territorio
delle lotte contadine di Melissa e la città operaia della Montedison, epicentro
di battaglie politiche e sindacali storiche, che rappresentava un caso politico
in positivo. Quella Federazione era chiamata la Botteghe Oscure del Sud e io la
frequentavo settimanalmente coi miei genitori fin da bambino. Di quegli anni mi
resta, quindi, un senso di comunità e di appartenenza che sono, forse,
l’essenza più autentica della politica. E tutto questo contesto, vissuto
attraverso l’impegno diffuso di intere generazioni prima della mia, ha inciso
molto sulla mia formazione, spingendomi da sempre a fare politica, seppure
senza mai ricoprire alcun ruolo e senza mai cercare o accettare alcun tipo di
candidatura”.
E l’interesse per gli italiani all’estero quando è iniziato?
“Dopo la laurea a Roma ho potuto collaborare da volontario al Dipartimento
Internazionale dei DS. Erano gli anni storici dei governi de l’Ulivo. Allora si
modificò la Costituzione (non è vero che non si riesce mai a cambiarla questa
Carta), si introdusse la Circoscrizione estero e si andava verso il varo della legge ordinaria per il
voto all’estero. Il mio impegno si concentrò, nel Dipartimento esteri, sulle
politiche per gli italiani nel mondo e lì cominciai a ricoprire qualche ruolo:
sono stato prima Responsabile comunicazione all’estero dei DS e poi del
Coordinamento de L’Unione per gli italiani nel mondo, vice responsabile dei DS
per gli italiani all’estero, componente del Coordinamento nazionale del PD per
gli italiani nel mondo e membro del Comitato di controllo della Presidenza del
Consiglio su Rai International. Fino a diventare poi Responsabile nazionale del
PD per gli italiani nel mondo”.
Gli italiani nel mondo sono da molti, soprattutto in politica e negli
affari, considerati i primi ambasciatori dell’Italia nel globo. Non le sembra
che spesso siano parole piuttosto che fatti? Nel senso che il bisogno di Italia
di questi italiani nel mondo è molto più forte delle attenzioni e del riconoscimento
che l’Italia dà loro?
“No, non proprio. Nel senso che gli italiani nel mondo sono naturalmente e
realmente i primi ambasciatori dell’Italia, perché rappresentano il nostro
Paese agli occhi di chi li ospita, la nostra cultura in tutti i suoi aspetti, i
nostri pregi e i nostri difetti. E sempre naturalmente e di fatto sono
‘consumatori’ di prodotti italiani che sentono loro, che fanno parte della loro
vita, della loro storia (familiare e nazionale), dei loro gusti. Poi, nel senso
critico che lei giustamente sottolinea rispetto alla politica e all’impresa, in
entrambi questi ambiti non si riesce a fare realmente sistema e a tenere questi
‘ambasciatori naturali’ dell’Italia e dei suoi affari in una rete organizzata,
con una visione chiara e universale, un progetto preciso, una geopolitica
adeguata ai tempi, delle strutture razionali e flessibili, delle risorse
adeguate. E, inoltre, gli stessi italiani in Patria, per decenni hanno
coltivato un sentimento di rimozione della storia migratoria del nostro Paese.
E ancora oggi, guai a parlarne o a riconoscere negli immigrati che arrivano da
noi gli italiani che si sono dispersi nel mondo. Guai a ricordare che essi
hanno agito esattamente come i migranti di oggi, hanno subito le stesse
discriminazioni, hanno seminato le medesime paure e hanno compiuto i medesimi
crimini: era italiano l’assassino del presidente della Francia, Carnot, era
italiano il terrorista che compì la strage di Wall Street del 1920 (che rimarrà
la più sanguinosa della storia degli USA fino quella di Oklahoma City del 19
aprile del 1995). E potrei continuare anche sul versante dell’integralismo
religioso di cui erano accusati gli italiani nei paesi laici. Quindi, gli
italiani nel mondo sono, nel bene e nel male, realmente degli ambasciatori
naturali dell’Italia e dei suoi prodotti e, lo sono perché ricordano e amano il
proprio Paese anche se il proprio Paese non riesce a coltivarne a pieno le
potenzialità, sia per un problema politico che culturale in patria. Insomma,
per dirla con le parole che usa l’artista Cataldo Perri nella sua opera Bastimenti,
‘i nostri emigranti certamente ricordano più di quanto siano ricordati’.
E questo è un problema anche per l’Italia e non solo per gli italiani nel
mondo”.
Conoscerà certamente questo nuovo paradigma coniato da Piero Bassetti, e di
cui tanto scriviamo su questa rubrica, dell’Italicità. Cosa ne pensa?
“Lo trovo molto appropriato. Bassetti ha avuto una felice
intuizione, che è una sintesi di molti e diversi concetti legati
alla storia del nostro Paese, alla sua cultura, al suo know how, alla
sua diaspora globale più che centenaria, allo stile di vita e allo stile delle
forme italiane, al nostro concetto del bello, alla voglia dei non italiani di
vivere, consumare o creare all’italiana, alla necessità di stare al passo coi
tempi. Oggi viviamo infatti un’epoca mitica (anche se il termine è stato ormai
banalizzato e lo si usa per qualsiasi sciocchezza). Mitica, infatti, nel senso
di straordinaria e globale, nella quale si susseguono eventi grandiosi, nel
bene e nel male, nella quale ogni evento in un angolo del Pianeta può avere
ripercussioni su tutto il Globo. Un’epoca nella quale le potenzialità, gli
strumenti e le ricchezze sono enormi e potrebbero dare una vita degna a tutti e
nella quale le disuguaglianze e gli squilibri hanno raggiunto punte mai
conosciute nella storia dell’evoluzione umana. E un’epoca nella quale l’uomo
del tempo è, più che in ogni altra, l’uomo in movimento, quello che si sposta,
il migrante. E si sposta proprio per eventi mitici: guerre, fame, dittature,
siccità o desiderio di realizzazione, anch’esso una cosa mitica. Ecco, in
questi tempi, Bassetti supera il concetto di nazionalità e lo colloca in una
dimensione mitica – storica e globale – adeguata ai tempi. Quindi non parla più
di cittadini italiani, o di oriundi, o di partner dell’Italia, ma parla di
italici, superando confini, nazionalità e cittadinanza, prevedendo
cosmopolitismo e contaminazione, senza negare o cancellare una storia o una
tradizione o una evoluzione. Ma anzi prendendo da questa tradizione e cultura
proprio un tratto identificativo e fondante, cioè quello della mescolanza
derivante dalla solidarietà e dal saper accogliere e integrare persone, culture
e saper fare diversi”.
Il made in Italy ha certo costruito la sua grande forza e diffusione anche
con il contributo degli italici nel mondo che lo ha promosso e consumato. Quale
potrà essere il contributo futuro in questo senso in un mondo sempre più
glocale?
“Il made in Italy si è diffuso in maniera massiccia
anche per il contributo notevole degli italiani nel mondo prima e degli italici
dopo, per un fatto naturale, come si diceva. Ma ha costruito la sua forza
proprio su alcune caratteristiche originali, culturali e di qualità, di gusto,
di particolare armonia di forme e materiali, di tradizioni. Insomma, il made in
Italy è un qualcosa di molto complesso che va molto oltre un semplice prodotto,
che sia esso materiale, culturale, ideale o culinario. E la complessità gli
viene dal fatto di tenere insieme tutto ciò che è la storia millenaria del
nostro Paese, del Mediterraneo e dell’Europa tutta, di cui l’Italia è sintesi e
gli italici sono rappresentazione nel mondo. Quindi essi possono avere, ancor
di più nei tempi mitici di oggi, quella funzione di esempio di mescolanza e
integrazione, di ponte tra culture, know how e prodotti. Ma possono
farlo solo se non perdono la centralità dell’Umanesimo che caratterizza e ha
caratterizzato il nostro Paese, quella capacità di non pensare solo al profitto
e al sistema di produzione, ma anche alla persona che produce e che è parte del
prodotto stesso, perché nel produrre ci mette se stesso, la sua storia
personale e collettiva e la sua realizzazione attraverso il lavoro. Se, dunque,
per quella persona il lavoro è sfruttamento ai fini di lucro per altri, il suo
impegno, la sua creatività e il suo valore saranno una cosa. Se il lavoro è
invece realizzazione della propria storia (personale e collettiva) e della
propria persona, allora impegno, creatività e valore saranno altra cosa e
migliore”.
Ad un recente incontro pubblico ha sostenuto che “occorre evitare che si
affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione
di penetrazione commerciale e di marketing”. Che cosa intendeva con questo?
“Un po’ ciò che ho detto qui e che vale sia per chi produce qualcosa che
per chi la consuma. Gli italici non devono essere pensati come tanti
rappresentanti commerciali a costo zero per le imprese che producono, ma come
persone con una storia, una dignità, un percorso di vita complesso e spesso
anche sofferto. Quindi uomini e donne che consumano, certamente, ma con un
grande orgoglio per ciò che sono. E per ciò che sono vogliono e devono essere
considerati, non per ciò che fanno o possono fare per l’Italia e per il made in
Italy che pure amano e li rappresenta. Se nel costruire una politica e una rete
per gli italici l’approccio è questo, ci sarà orgoglio e volontà da parte loro
e, di conseguenza, arriverà anche e per convinzione la penetrazione
commerciale, in modo naturale. Cioè deve esserci, nel guardare a questa
comunità, il giusto riconoscimento delle persone, delle loro storie e delle
loro dignità in un’ottica collettiva, di comunità valoriale. Stesso
discorso vale per chi produce. L’impresa deve ricordare che esiste, oltre che
per il capitale che vi è investito, anche per la gente che vi lavora e investe
la propria capacità creativa. Quindi il profitto deve tornare percentualmente e
senza le enormi disuguaglianze di oggi, anche a chi lo ha generato e prodotto
(siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare
solo i capitali investiti e nelle tasche di pochissime e ricchissime persone.
Deve esserci un giusto equilibrio. Le riporto due esempi che fa Antonio
Galdo nel suo bel saggio L’egoismo è finito e che per me sono
paradigmatici dell’impresa che tiene conto di tutto ciò, rispettando la
persona, rimanendo nel solco della nostra storia, creando prodotti di grande
qualità e originalità, producendo profitto e ricchezza senza generare squilibri
esagerati. Il primo si colloca nella prima metà del secolo scorso, è il modello
del welfare aziendale e della Città dell’Armonia di Gaetano Marzotto dove, ad
esempio, la Cassa di previdenza gestiva le pensioni dei dipendenti che
lasciavano l’azienda, la Cassa di soccorso erogava prestazioni sanitarie, la
Società del magazzino pensava all’acquisto e allo spaccio di generi alimentari
e della legna a prezzi bloccati, per impedire speculazioni e affrontare
l’aumento del costo della vita in tempi di crisi. Il secondo e contemporaneo a
noi, è l’esempio della Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che porta in azienda
gli asili nido, la baby sitter a casa dei dipendenti in caso di emergenza, le
visite specialistiche gratuite, il check-up per i parenti anziani, il carrello
della spesa con olio, pasta e formaggi, la Banca ore o il job sharing,
cioè il lavoro condiviso in famiglia: se un lavoratore ha problemi che si
protraggono (per esempio di salute) può farsi sostituire da un parente o se un
figlio sta finendo gli studi e vuole imparare un mestiere o formarsi può
sostituire il padre o la madre. Ecco, sono esempi di come si può e deve evitare
di pensare esclusivamente alla funzione di penetrazione commerciale e marketing
e di come si può pensare come comunità valoriale e creare ricchezza partendo
dalla centralità della persona, della sua storia e della sua cultura in un
nuovo umanesimo, anche e soprattutto in tempi di crisi”.
Ci racconta un aneddoto che ha appreso in questi anni di lavoro con gli
italiani all’estero che meglio li racconta?
“Ahahah… sì, volentieri. Si tratta di una lettera che ci venne
inviata molti anni fa a doppia firma da presidente e vice presidente di una
associazione regionale e con la quale ci si chiedeva un aiuto per avere dei
contributi per ristrutturare la sede nella quale erano impegnati a diffondere
la lingua, la storia e la cultura italiana. Il testo della lettera, che per
ovvi motivi privo dei riferimenti a persone, luoghi e nomi di associazioni, era
scritto esattamente così: ‘La Comissione Direttiva della ASSOCIAZIONE […]
NEL MONDO ‘[…], a l’onore di partecipare in questa cena insiemi a tanti […],
che si preoccupano di difundiri la storia e la cultura Italiana. Qui insiemi a
diversi attività si insegna la lingua italiana, e folclori […]. Per potere
svogliere questi progetti abbiamo construito in primo piano una sala e ora
chiedemo cortesemente se Lui podrebbe tramitare dal Governo Italiano un pìcolo
subsidio per mettere il tetto gia che ni vediamo impossibilitati per motivo
econòmico. La sala di sopra a 100 metri cuadri. Nella sicurezza che Lui ni
terra presente vi ringrazziamo caramente aspetando una pronta risposta e
porgiamo i nostri férvidi e cordiali saluti’. Da allora la tengo sempre
appesa nel mio ufficio perché rappresenta profondamente il legame sentimentale
e culturale degli italici nel mondo con l’Italia. E non importa quale sia il
loro livello di istruzione o la loro capacità di parlare, scrivere o fare
impresa. Sono e si sentono parte di questa comunità, della quale avvertono il
valore storico, culturale e linguistico e si ingegnano in ogni modo per tenerlo
vivo e alimentarlo. E questa gente, anche umile, pur non conoscendo la lingua,
ha creato nel mondo migliaia di strutture che poi hanno fatto un grande lavoro
di promozione, pagando professori in grado si insegnare con qualità. Ecco
perché questa lettera, nella sua umiltà, è dignitosissima, bella, emozionante e
paradigmatica di cosa sia stata e sia questa nostra grande comunità, capace dal
niente di costruire imperi con al centro la persona e la sua dignità”.
Infine, Lei ha fatto una tesi di Laurea su De André, Guccini e De
Gregori. Riassumendo in poche parole, e capisco quanto possa essere
difficile, qual è stato il più grande insegnamento che questi grandi artisti le
hanno dato sull’Italia e sull’essere italiano?
“Beh, da loro ho imparato a usare la sensibilità per riconoscere noi
nell’altro, anche il più diverso, e capire che in fondo siamo tutti uguali, con
gli stessi bisogni e le stesse ambizioni. Questo mi ha fatto capire un po’ ciò
che dicevo sopra: il tratto storico italico, che è quello dell’accoglienza,
della mescolanza, del cosmopolitismo. Ed è tutto questo mescolare storia,
popoli, culture, prodotti, che poi fa ciò che siamo. Guccini, nell’intervista
che gli feci proprio per la tesi, per farmi capire come nascevano le sue
canzoni e cosa fossero rispetto a tutto ciò che leggeva, ascoltava o da cui
traeva ispirazione, mi disse: ‘Io amo fare il paragone […] con il maiale […].
Dai tanto cibo ad un maiale e poi quando fai il prosciutto […] non sai più
quale cibo fosse quel prosciutto’. Ecco, questo vale per l’italico o per
l’essere italiano: abbiamo avuto nella nostra storia patria l’occupazione dei
popoli più diversi, abbiamo noi stessi girato il mondo, ci siamo mescolati con
le culture, i saperi, le vite di ogni angolo del pianeta, quindi siamo oggi una
sintesi di tutto ciò, siamo un prosciutto fatto da tutti i cibi che abbiamo
consumato per secoli, ma ormai impossibili da distinguere gli uni dagli altri’”.
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