Appena atterrato a Rio, mentre faccio la fila per il controllo passaporti con la mia mazzetta di giornali italiani di ieri in mano, mi avvicina e comincia a chiacchierare un piccolo imprenditore del Nord Italia incuriosito da tutti quegli inutili orpelli. Mi spiega subito chi è: un imprenditore che costruisce capannoni. Avete presente il Perego di Antonio Albanese? Stessa cultura, mentalità e accento. E' a Rio, però, perché deve vendere un paio di appartamenti sul mare a Copacabana. Li vende perché ha trasferito la residenza da Rio alla Costa azzurra, in Francia, vicino a quella della moglie a Montecarlo. Non perché vivano là entrambi, ma perché "in Italia si pagano troppe tasse e hai sempre la finanza a controllare". Naturalmente ha "votato Berlusconi, i rossi siete dei serpenti".
In viaggio verso l'hotel a bordo di una Fiat Idea, invece, trovo un simpaticissimo tassista "filologo" che, poiché non parla italiano, per venirmi incontro fa un misto di portoghese, spagnolo e lingua guaranì. Mi spiega le differenze degli oltre 160 dialetti di non so quale zona e mi ripete la stessa frase in decine di versioni diverse. Poi mi dice che a Rio c'è stato Bertinotti, "un grande" (e lo dice stringendo il pugno alla maniera di Gaber in "Qualcuno era comunista..."), che D'Alema è un grande amico di Lula e, soprattutto, che Lula è un ottimo presidente e che sta facendo molto per il suo Paese. Intanto mi mostra come le favelas che stiamo costeggiando siano dotate di luce elettrica, telefono e internet, acqua corrente e sistema fognante.
Ho capito che in qualche parte del mondo esisono anche tassisti di Sinistra. Bisogna farlo sapere a Bersani che si rincuora...
Tra un'ora, invece, riunione con i dirigenti della Fondazione Astrojildo Pereira.
giovedì 27 novembre 2008
martedì 25 novembre 2008
La mia America
Da domani sarò in America Latina. Questa l'agenda pubblica degli incontri come da comunicato del Partito.
PD: DA MERCOLEDI’ 26 MARINO IN AMERICA LATINA PER INCONTRI DI PARTITO E CON LA COMUNITA’
Inizia mercoledì 26 novembre il viaggio in America Latina di Eugenio Marino, del Coordinamento nazionale del PD per gli italiani nel mondo, e toccherà le città di Rio de Janeiro e San Paolo in Brasile, Buenos Aires e Rosario in Argentina e Montevideo in Uruguay. Marino parteciperà ad alcune manifestazioni pubbliche con la comunità e il mondo associativo, che si terranno venerdì 28 e sabato 29 novembre rispettivamente a San Paolo e Buenos Aires e nelle quali si parlerà anche dei tagli alle politiche del Governo verso gli italiani nel mondo. Sarà l’occasione anche per partecipare ai lavori di costruzione del Partito Democratico in Brasile, Argentina e Uruguay e per prevedere il lancio di un percorso comune aperto, condiviso e partecipato che dovrà portare, già nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, alla strutturazione definitiva del Partito in America Latina sulla base di una serie di iniziative politiche.
Il 27 novembre Marino sarà a Rio de Janeiro, dove incontrerà anche i responsabili della Fondazione Astrojildo Pereira, con i quali sta lavorando a un progetto editoriale sul nuovo riformismo in collaborazione con la Fondazione Gramsci. Il 28 sarà a San Paolo, dove insieme all’onorevole Porta parteciperà a una iniziativa pubblica sui tagli del Governo verso le politiche per gli italiani all’estero e a un incontro del PD Brasile. Per l’occasione saranno presenti a San Paolo delegati del PD delle diverse ripartizioni territoriali.Il 29 il dirigente del PD volerà a Buenos Aires, sempre per una iniziativa pubblica e per un incontro del PD a carattere nazionale. Anche in questa occasione saranno presenti a Buenos Aires esponenti del Partito di tutta l’Argentina.Il 30 novembre sarà la volta di Montevideo, per un incontro con il locale circolo del Partito Democratico e per alcuni incontri politici bilaterali con dirigenti provenienti da altri paesi del Sud America.L’ultima tappa del viaggio sarà a Rosario, il 2 dicembre, dove si terrà una iniziativa pubblica del locale circolo PD e dove Marino incontrerà, insieme ai responsabili locali, alcune autorità politiche e istituzionali argentine.Marino terrà anche alcuni incontri con le autorità diplomatiche, con rappresentanti di Comites e CGIE e con varie associazioni italiane che operano in America Latina.
Inizia mercoledì 26 novembre il viaggio in America Latina di Eugenio Marino, del Coordinamento nazionale del PD per gli italiani nel mondo, e toccherà le città di Rio de Janeiro e San Paolo in Brasile, Buenos Aires e Rosario in Argentina e Montevideo in Uruguay. Marino parteciperà ad alcune manifestazioni pubbliche con la comunità e il mondo associativo, che si terranno venerdì 28 e sabato 29 novembre rispettivamente a San Paolo e Buenos Aires e nelle quali si parlerà anche dei tagli alle politiche del Governo verso gli italiani nel mondo. Sarà l’occasione anche per partecipare ai lavori di costruzione del Partito Democratico in Brasile, Argentina e Uruguay e per prevedere il lancio di un percorso comune aperto, condiviso e partecipato che dovrà portare, già nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, alla strutturazione definitiva del Partito in America Latina sulla base di una serie di iniziative politiche.
Il 27 novembre Marino sarà a Rio de Janeiro, dove incontrerà anche i responsabili della Fondazione Astrojildo Pereira, con i quali sta lavorando a un progetto editoriale sul nuovo riformismo in collaborazione con la Fondazione Gramsci. Il 28 sarà a San Paolo, dove insieme all’onorevole Porta parteciperà a una iniziativa pubblica sui tagli del Governo verso le politiche per gli italiani all’estero e a un incontro del PD Brasile. Per l’occasione saranno presenti a San Paolo delegati del PD delle diverse ripartizioni territoriali.Il 29 il dirigente del PD volerà a Buenos Aires, sempre per una iniziativa pubblica e per un incontro del PD a carattere nazionale. Anche in questa occasione saranno presenti a Buenos Aires esponenti del Partito di tutta l’Argentina.Il 30 novembre sarà la volta di Montevideo, per un incontro con il locale circolo del Partito Democratico e per alcuni incontri politici bilaterali con dirigenti provenienti da altri paesi del Sud America.L’ultima tappa del viaggio sarà a Rosario, il 2 dicembre, dove si terrà una iniziativa pubblica del locale circolo PD e dove Marino incontrerà, insieme ai responsabili locali, alcune autorità politiche e istituzionali argentine.Marino terrà anche alcuni incontri con le autorità diplomatiche, con rappresentanti di Comites e CGIE e con varie associazioni italiane che operano in America Latina.
mercoledì 5 novembre 2008
Dal Robin Hood nostrano a quello americano
Obama ha vinto e l'America cambia. Così come cambiano molte cose per il mondo, la politica e le relazioni internazionali.
Commentatori molto più autorevoli del sottoscritto hanno già detto tutto sulle elezioni americane e sulla figura e di Obama. Io, però, voglio dire, molto modestamente, la mia.
Ho già sentito stamattina alcuni autorevoli commentatori italiani, naturalmente conservatori, dire che adesso Obama deve stare attento a non deluderli sulle politiche di Difesa, forze armate e Iraq, cercando di non cambiare linea politica su queste questioni.
Ecco, io penso esattamente il contrario.
Penso che Obama non è loro che non deve deludere, ma chi rappresenta il suo elettorato naturale di riferimento, i poveri e gli afroamericani, soprattutto quelli che non si recavano mai a votare perché non si sentivano rappresentati da nessuno e che erano spesso abbandonati dal Governo americano.
Insomma, Obama deve mantenere le sue promesse verso questa gente e deve costruire una società nella quale l'istruzione e la sanità pubblica siano garantite a accettabili per chiunque.
Deve far uscire dall'emarginazione una fetta larghissima della società americana.
Deve aumentare le tasse ai ricchi e redistribuire la ricchezza e i diritti ai poveri.
Insomma, al contrario dei Robin Hood nostrani (leggi Giulio Tremonti che toglie l'ICI ai ricchi - Tronchetti Provera, Montezemolo, Briatore, Berlusconi ecc. - per farla pagare agli italiani all'estero spesso emigrati proprio per sfuggire alla povertà) deve essere colui che davvero toglie ai ricchi per dare ai poveri.
Insomma, Obama deve necessariamente deludere alcuni strati sociali ricchi della società americana e confermare le aspettative delle classi sociali povere o a rischio povertà. Solo così manterrà la speranza e la promessa di cambiare l'America.
giovedì 30 ottobre 2008
Decido io: petizione per il mantenimento delle preferenze
Ti prego di utilizzare solo due minuti del tuo tempo per leggere e firmare questa petizione dell'onorevole Gianni Pittella:
Care amiche, cari amici,
considerato che la proposta di riforma della Legge elettorale per le Europee è all’esame dell’Aula della Camera e si registra la chiusura della maggioranza a ogni proposta sostanziale di modifica, ho pensato di intensificare l’iniziativa politica contro il nuovo "porcellum" rilanciando la campagna di mobilitazione "Decido Io". L'iniziativa vede il coinvolgimento di tanti che in modo trasversale ai partiti, vogliono opporsi a questa nuova scellerata proposta.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso parole forti e chiare rispetto alla necessità di ricercare sulla legge un ampio consenso in Parlamento, e ha ricordato come nel recente passato siano emerse preoccupazioni condivise circa l'esigenza di salvaguardare il pluralismo politico e di garantire un’effettiva possibilità di intervento degli elettori nella scelta dei loro rappresentanti.
la ritengo una delle battaglie più importanti per la democrazia e la possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento.
Attenendo fiducioso la tua firma e spero che ti adopererai per procurarne e inviarmene altre.
Attenendo fiducioso la tua firma e spero che ti adopererai per procurarne e inviarmene altre.
Grazie
Care amiche, cari amici,
considerato che la proposta di riforma della Legge elettorale per le Europee è all’esame dell’Aula della Camera e si registra la chiusura della maggioranza a ogni proposta sostanziale di modifica, ho pensato di intensificare l’iniziativa politica contro il nuovo "porcellum" rilanciando la campagna di mobilitazione "Decido Io". L'iniziativa vede il coinvolgimento di tanti che in modo trasversale ai partiti, vogliono opporsi a questa nuova scellerata proposta.
La testardia con cui l'attuale maggioranza sta difendendo le liste bloccate e lo sbarramento al 5 per cento (assolutamente spropositato rispetto al ruolo del Parlamento Europeo), la chiusura alle proposte di prevedere per legge le primarie e una norma di garanzia per le pari opportunità di genere, sono il segno di un'idea di democrazia plebiscitaria inaccettabile.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso parole forti e chiare rispetto alla necessità di ricercare sulla legge un ampio consenso in Parlamento, e ha ricordato come nel recente passato siano emerse preoccupazioni condivise circa l'esigenza di salvaguardare il pluralismo politico e di garantire un’effettiva possibilità di intervento degli elettori nella scelta dei loro rappresentanti.
Togliere al cittadino il diritto di scegliere allontana dalla politica, e trasforma la democrazia in un mondo di cooptati. Per questo è necessaria una più ampia mobilitazione perché dal Paese giunga un deciso "NO" alla estensione della "legge porcellum" anche alle prossime elezioni per il Parlamento Europeo.
Propongo a tutti agli amici del gruppo "Primarie vere, primarie sempre" di sostenere questa iniziativa e a mettere in campo un'azione comune.
I punti della campagna di mobilitazione, potrebbero essere:
1. pieno appoggio alla raccolta di firme dell’UDC e del PSI;
2. stampa e diffusione del volantino pubblicato sul sito del gruppo "Decido io" e invio email ai deputati e senatori del centrodestra;
3. richiesta ai Sindaci, Presidenti di provincia e di Regioni di indire un dibattito nella propria assemblea e approvare un odg contro il porcellum europeo da inviare alle massime cariche istituzionali;4. organizzazione sin da ora di banchetti e manifestazioni in tutta Italia per la difesa della "democrazia degli eletti”;
5. sostegno della campagna “primarie vere, primarie sempre”.
1. pieno appoggio alla raccolta di firme dell’UDC e del PSI;
2. stampa e diffusione del volantino pubblicato sul sito del gruppo "Decido io" e invio email ai deputati e senatori del centrodestra;
3. richiesta ai Sindaci, Presidenti di provincia e di Regioni di indire un dibattito nella propria assemblea e approvare un odg contro il porcellum europeo da inviare alle massime cariche istituzionali;4. organizzazione sin da ora di banchetti e manifestazioni in tutta Italia per la difesa della "democrazia degli eletti”;
5. sostegno della campagna “primarie vere, primarie sempre”.
Vi chiedo di aderire alla Campagna con la vostra firma e di dare la Vostra disponibilità ad organizzare nei Vostri territori le iniziative previste.
Gianni Pittella
Gianni Pittella
martedì 28 ottobre 2008
Dalla protesta alla proposta
Quella di sabato al Circo massimo è stata una grande manifestazione: bella, pacifica, serena, democratica e propositiva. È stata anche il segnale di un partito che c’è, che è forte, che ha capacità di unirsi e mobilitare iscritti e non, oltre i propri confini.
Una manifestazione imponente che ha denunciato le molte cose che non vanno di questo Governo, a cominciare dai tagli spropositati e non giustificabili in molti settori della spesa pubblica italiana: tagli che non risolvono i problemi degli sprechi né creano le condizioni per l’ammodernamento dell’Italia, ma che fanno venir meno anche le condizioni minime indispensabili per il semplice funzionamento del Paese. A titolo di esempio vorrei parlare di ciò che conosco meglio: i tagli irrazionali abbattutisi sulle politiche per gli italiani all’estero. Circa 50 milioni sui già non sufficienti 82 complessivi investiti dai precedenti governi.
Anche per questo motivo sabato eravamo al Circo Massimo con una nutrita rappresentanza di cittadini italiani residenti all’estero, arrivati soprattutto dalla Germania. Eravamo là per ribadire che la scure di questa Finanziaria finirà per cancellare definitivamente il rapporto tra l’Italia e le sue comunità nel mondo.
C’erano donne e uomini, giovani, meno giovani e giovanissimi. Persone che sentono oggi più precario il proprio futuro, che hanno sfilato con la voglia di garantire anche a figli e nipoti la possibilità di studiare la lingua e la cultura italiane e di avere assistenza sanitaria se dovessero trovarsi in condizioni di indigenza, come già oggi avviene soprattutto in America Latina.
Manifestavamo non solo per dire dei “no”: ai tagli, alla chiusura dei corsi di lingua e cultura, all’eliminazione dell’assistenza sanitaria e al rinvio delle elezioni di Comites e CGIE. Manifestavamo anche per dire dei “si”: alla doppia cittadinanza, alla società multiculturale e all’accoglienza agli immigrati (come il ragazzo di Secondigliano che ha parlato dal palco, ricordandoci che anche noi abbiamo vissuto l’emarginazione e la discriminazione).
Quella manifestazione, dunque, ha rappresentato un momento collettivo in cui si è chiesta al Governo una sterzata generale sul futuro dell’Italia. E in questa sterzata generale devono rientrare anche le politiche per gli italiani all’estero, come ha giustamente ricordato Veltroni dal palco.
Per questo, però, ora occorre far sentire forte, anche lontano da Roma, la voce di tutta la comunità italiana nel mondo. Come?
La scorsa settimana il Segretario Generale del CGIE, Elio Carozza, ha inviato una lettera agli stessi consiglieri del CGIE, ai presidenti e consiglieri dei Comites, agli enti gestori dei corsi di lingua e cultura italiana, per denunciare l’enormità dei tagli previsti verso le nostre comunità e il fatto che essi finirebbero per cancellarle, per chiedere al Governo di rivederli e per sollecitare una grande mobilitazione a supporto di queste richieste universalmente condivise.
Sono d’accordo con coloro che, nella maggioranza come nell’opposizione, ritengono che oggi vadano sospese le appartenenze politiche e supportata l’iniziativa del Segretario Carozza, alla quale già in molti hanno risposto positivamente, da entrambi gli schieramenti. Credo sia utile, dunque, mobilitarsi, scendere in piazza anche all’estero per manifestare e chiedere al Governo di rivedere l’entità e la distribuzione dei tagli per gli italiani all’estero. Questo non significa che come italiani nel mondo vogliamo esimerci dal partecipare ai sacrifici per il risanamento del Paese, se di questo si tratta, ma non al prezzo di venir cancellati o messi in ginocchio. Sarebbe difficile, così ridotti, aiutare qualcuno.
Allora muoviamoci insieme, a partire dalle rappresentanze istituzionali: Comites, CGIE, eletti, ma anche rappresentanti di partito e del mondo sindacale e associativo, per concordare e coordinare manifestazioni e azioni di protesta forti, pacifiche, autorevoli. Finalizzate a far giungere al Governo e ai suoi rappresentanti la voce delle comunità. Spetterà poi ai partiti politici e agli eletti dall’estero nel Parlamento nazionale trasformare la protesta popolare e democratica delle piazze in autorevole e istituzionale proposta di Governo.
Una manifestazione imponente che ha denunciato le molte cose che non vanno di questo Governo, a cominciare dai tagli spropositati e non giustificabili in molti settori della spesa pubblica italiana: tagli che non risolvono i problemi degli sprechi né creano le condizioni per l’ammodernamento dell’Italia, ma che fanno venir meno anche le condizioni minime indispensabili per il semplice funzionamento del Paese. A titolo di esempio vorrei parlare di ciò che conosco meglio: i tagli irrazionali abbattutisi sulle politiche per gli italiani all’estero. Circa 50 milioni sui già non sufficienti 82 complessivi investiti dai precedenti governi.
Anche per questo motivo sabato eravamo al Circo Massimo con una nutrita rappresentanza di cittadini italiani residenti all’estero, arrivati soprattutto dalla Germania. Eravamo là per ribadire che la scure di questa Finanziaria finirà per cancellare definitivamente il rapporto tra l’Italia e le sue comunità nel mondo.
C’erano donne e uomini, giovani, meno giovani e giovanissimi. Persone che sentono oggi più precario il proprio futuro, che hanno sfilato con la voglia di garantire anche a figli e nipoti la possibilità di studiare la lingua e la cultura italiane e di avere assistenza sanitaria se dovessero trovarsi in condizioni di indigenza, come già oggi avviene soprattutto in America Latina.
Manifestavamo non solo per dire dei “no”: ai tagli, alla chiusura dei corsi di lingua e cultura, all’eliminazione dell’assistenza sanitaria e al rinvio delle elezioni di Comites e CGIE. Manifestavamo anche per dire dei “si”: alla doppia cittadinanza, alla società multiculturale e all’accoglienza agli immigrati (come il ragazzo di Secondigliano che ha parlato dal palco, ricordandoci che anche noi abbiamo vissuto l’emarginazione e la discriminazione).
Quella manifestazione, dunque, ha rappresentato un momento collettivo in cui si è chiesta al Governo una sterzata generale sul futuro dell’Italia. E in questa sterzata generale devono rientrare anche le politiche per gli italiani all’estero, come ha giustamente ricordato Veltroni dal palco.
Per questo, però, ora occorre far sentire forte, anche lontano da Roma, la voce di tutta la comunità italiana nel mondo. Come?
La scorsa settimana il Segretario Generale del CGIE, Elio Carozza, ha inviato una lettera agli stessi consiglieri del CGIE, ai presidenti e consiglieri dei Comites, agli enti gestori dei corsi di lingua e cultura italiana, per denunciare l’enormità dei tagli previsti verso le nostre comunità e il fatto che essi finirebbero per cancellarle, per chiedere al Governo di rivederli e per sollecitare una grande mobilitazione a supporto di queste richieste universalmente condivise.
Sono d’accordo con coloro che, nella maggioranza come nell’opposizione, ritengono che oggi vadano sospese le appartenenze politiche e supportata l’iniziativa del Segretario Carozza, alla quale già in molti hanno risposto positivamente, da entrambi gli schieramenti. Credo sia utile, dunque, mobilitarsi, scendere in piazza anche all’estero per manifestare e chiedere al Governo di rivedere l’entità e la distribuzione dei tagli per gli italiani all’estero. Questo non significa che come italiani nel mondo vogliamo esimerci dal partecipare ai sacrifici per il risanamento del Paese, se di questo si tratta, ma non al prezzo di venir cancellati o messi in ginocchio. Sarebbe difficile, così ridotti, aiutare qualcuno.
Allora muoviamoci insieme, a partire dalle rappresentanze istituzionali: Comites, CGIE, eletti, ma anche rappresentanti di partito e del mondo sindacale e associativo, per concordare e coordinare manifestazioni e azioni di protesta forti, pacifiche, autorevoli. Finalizzate a far giungere al Governo e ai suoi rappresentanti la voce delle comunità. Spetterà poi ai partiti politici e agli eletti dall’estero nel Parlamento nazionale trasformare la protesta popolare e democratica delle piazze in autorevole e istituzionale proposta di Governo.
lunedì 20 ottobre 2008
Stai con Saviano o con la camorra?
Si parla troppo spesso delle varie emergenze nel nostro Bel Paese. L'emergenza criminalità a Roma nella passata campagna elettorale per le amministrative o la sempre verde emergenza giustizia, sollevata dalle vicende processuali di "imputati illustri". Da quanto, invece, non si parla di emergenza mafia (o mafie), che mi pare, invece, la vera emergenza d'Italia? Forse perché è un'emergenza orami da così tanto tempo che ci siamo così assuefatti al tema da considerarla una normalità.
Sono convinto che mafia, ndrgangheta e camorra rappresentino un cancro per il nostro Paese, le sue istituzioni, la sua democrazia e la sua economia.
E' per questo, quindi, che ho aderito subito all'appello lanciato da sei premi Nobel (Fo, Gorbaciov, Grass, Montalcini, Pamuk, Tutu) in difesa di Roberto Saviano e per una mobilitazione forte ed efficace dello Stato.
Lo riporto di seguito e vi invito a firmarlo al link che troverete a fine pagina.
"Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - "Gomorra" - tradotto e letto in tutto il mondo. E' minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese. Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, "Repubblica", e di tacere. Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E' un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
Dario Fo
Mikhail Gorbaciov
Gunther Grass
Rita Levi Montalcini
Orhan Pamuk
Desmond Tutu".
Mikhail Gorbaciov
Gunther Grass
Rita Levi Montalcini
Orhan Pamuk
Desmond Tutu".
Per firmare l'appello clicca qui.
P.S. Voglio dedicare anche un breve pensiero a Vittorio Foa, la cui morte rappresenta per la Sinistra italiana la perdita di un importante punto di riferimento in un momento decisivo in cui c'è bisogno proprio di ridiscutere il ruolo storico che essa ha avuto nel Novecento e che dovrà avere nel nostro secolo.
martedì 7 ottobre 2008
Rubinetto che cola una goccia
Che il futuro per gli italiani nel mondo non fosse roseo si sospettava dai primissimi passi del Governo Berlusconi quando, subito dopo il voto, svanivano le chimeriche promesse elettorali. Tutti ricorderanno la letterina da ‘svolgimento corretto al tema’ dell’allora candidato Berlusconi, con la quale si prometteva tra l’altro il ripristino del Ministero degli Italiani nel mondo: a risultato elettorale acquisito la lettera divenne carta straccia e non solo non si nominò un Ministro, ma nemmeno un Vice ministro e nemmeno un Sottosegretario con delega unica, bensì un Sottosegretario che, tra le mille cose da fare, a tempo perso si sarebbe occupato anche di italiani “del” mondo, come ama definirli.
Questo è solo uno dei segnali di quanto gli italiani all’estero non interessassero a questo esecutivo e a questa maggioranza.
La premiata ditta Berlusconi-Tremonti ha sempre saccheggiato le risorse destinate agli italiani all’estero, al contrario di quanto hanno fatto i Governi del centrosinistra.
Un po’ di storia tanto per capirci.
Nel 1996 fu il Governo Prodi, con l’allora sottosegretario agli esteri Piero Fassino, ad avviare il processo che portò nel 1998 alla modifica costituzionale e all’introduzione della Circoscrizione estero e dei 18 parlamentari residenti ed eletti all’estero.
Fu successivamente il Governo D’Alema a volere il raddoppio del finanziamento governativo alla stampa italiana all’estero (giudicato ancora insufficiente, ma che dava il segnale di una volontà di potenziamento). Eppure non c’erano parlamentari decisivi per le sorti dell’allora maggioranza, ma solo una volontà di valorizzazione di questa risorsa, percepita appunto come tale.
Venne poi il Governo Berlusconi che introduceva il Ministero per gli Italiani nel Mondo, guidato da Mirko Tremaglia.
Come messaggio di benvenuto, nella sua prima Finanziaria, il Governo Berlusconi e l’allora superministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, con il voto favorevole del Ministro Tremaglia, tagliarono più di 31 milioni di euro per gli italiani all’estero nel bilancio di competenza e più di 43 in quello di cassa. Naturalmente i tagli erano spalmati, in maniera proporzionale e uniforme, su tutti i capitoli di spesa per gli italiani all’estero, nessuno escluso.
L’anno successivo, la Finanziaria stanziò circa 40 milioni di euro, che però non furono nemmeno sufficienti a coprire i tagli dell’anno precedente.
Nella Finanziaria dell’anno successivo, quella per il 2008 (ultima del Governo Prodi), erano inizialmente previsti per gli italiani all’estero tagli per 5 milioni, corretti da un emendamento del Governo che aggiungeva 14 milioni per la Conferenza dei giovani, il Museo dell’emigrazione e l’assistenza diretta.
Arrivarono poi altri 18 milioni con un emendamento dei senatori de L’Unione eletti all’estero che recuperavano, precisamente, 12.500.000 euro per assistenza diretta e 5.500.000 euro per i corsi di lingua e cultura. Un totale, dunque, di 32 milioni di euro di investimenti che, a fronte dei 5 milioni di tagli, presentava un saldo attivo di 27 milioni di euro in più rispetto all’anno precedente.
Quindi, in due anni e due finanziarie, il Governo Prodi ha destinato 27 milioni di euro in più agli italiani all’estero, lasciando gli investimenti per i nostri connazionali a 82 milioni di euro. Il tutto coerentemente con quanto fatto nei passati governi di centrosinistra e a dimostrazione di un impegno costante in favore della valorizzazione delle nostre comunità nel mondo, seppure compatibile con le esigenze di bilancio.
Oggi, come denunciato dal Comitato di Presidenza del CGIE, con la prima Finanziaria del Berlusconi IV, si precipita di nuovo a 32 milioni di investimenti totali.
Se è vero che dalla storia si possono trarre insegnamenti per il futuro, tanto vale non farsi illusioni, né sorprendersi per quanto sta accadendo. Questo Governo, questo capo dell’Esecutivo, questo Ministro per l’economia e finanze, non hanno mai avuto, né avranno mai interesse a capire, sostenere e valorizzare le nostre comunità all’estero. Dicessero chiaramente ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti: per loro gli italiani all’estero non sono una risorsa per il Paese, ma tutt’al più, quando va bene serbatoi di retorica patriottarda e nazionalismo d’antan. Quando va meno bene, magari perché da quelle comunità si levano rivendicazioni legittime e richieste esigenti di attenzione, un fastidio. Per dirla con il Gianmaria Testa che parla di immigrazione, “un rubinetto che cola una goccia”.
Per questo, penso che difficilmente gli auspici espressi in una lettera dal Segretario generale del CGIE, Elio Carozza, al Ministro Frattini, si realizzeranno. A meno di un impegno personale serio, come spesso sa esserlo, determinato ed efficace del Capo della Farnesina in persona.
Questo è solo uno dei segnali di quanto gli italiani all’estero non interessassero a questo esecutivo e a questa maggioranza.
La premiata ditta Berlusconi-Tremonti ha sempre saccheggiato le risorse destinate agli italiani all’estero, al contrario di quanto hanno fatto i Governi del centrosinistra.
Un po’ di storia tanto per capirci.
Nel 1996 fu il Governo Prodi, con l’allora sottosegretario agli esteri Piero Fassino, ad avviare il processo che portò nel 1998 alla modifica costituzionale e all’introduzione della Circoscrizione estero e dei 18 parlamentari residenti ed eletti all’estero.
Fu successivamente il Governo D’Alema a volere il raddoppio del finanziamento governativo alla stampa italiana all’estero (giudicato ancora insufficiente, ma che dava il segnale di una volontà di potenziamento). Eppure non c’erano parlamentari decisivi per le sorti dell’allora maggioranza, ma solo una volontà di valorizzazione di questa risorsa, percepita appunto come tale.
Venne poi il Governo Berlusconi che introduceva il Ministero per gli Italiani nel Mondo, guidato da Mirko Tremaglia.
Come messaggio di benvenuto, nella sua prima Finanziaria, il Governo Berlusconi e l’allora superministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, con il voto favorevole del Ministro Tremaglia, tagliarono più di 31 milioni di euro per gli italiani all’estero nel bilancio di competenza e più di 43 in quello di cassa. Naturalmente i tagli erano spalmati, in maniera proporzionale e uniforme, su tutti i capitoli di spesa per gli italiani all’estero, nessuno escluso.
L’anno successivo, la Finanziaria stanziò circa 40 milioni di euro, che però non furono nemmeno sufficienti a coprire i tagli dell’anno precedente.
Nella Finanziaria 2003, poi, si ritornò ai tagli: più di 36 milioni per gli italiani all’estero e le politiche migratorie, con particolare accanimento sull’assistenza, per la quale i finanziamenti vennero quasi dimezzati, passando dai 23 milioni per il 2003 ai 13 per il 2004.
Nel 2006, invece, arrivano i parlamentari eletti all’estero e il Governo Prodi.
Si passò da un ministero palesemente inefficace, come dimostrano i tagli testé riportati, a un Vice ministro.
Nella prima Finanziaria della nuova maggioranza, quella per il 2007, definita da tutti gli osservatori di “lacrime e sangue” per l’operazione generale di risanamento che prevedeva, per gli italiani all’estero vennero tagliati solo 16 milioni.
A fronte di questi tagli, però, la stessa Finanziaria prevedeva un investimento di 14 milioni e risorse aggiuntive per 4 milioni. A conti fatti, dunque, in una Finanziaria che tagliava in tutti i ministeri e in tutti i settori, per gli italiani all’estero si prevedevano due milioni in più di investimenti rispetto all’anno precedente. Pochi, certo, ma segnale chiaro di impegno futuro e di inversione di tendenza.
Nel 2006, invece, arrivano i parlamentari eletti all’estero e il Governo Prodi.
Si passò da un ministero palesemente inefficace, come dimostrano i tagli testé riportati, a un Vice ministro.
Nella prima Finanziaria della nuova maggioranza, quella per il 2007, definita da tutti gli osservatori di “lacrime e sangue” per l’operazione generale di risanamento che prevedeva, per gli italiani all’estero vennero tagliati solo 16 milioni.
A fronte di questi tagli, però, la stessa Finanziaria prevedeva un investimento di 14 milioni e risorse aggiuntive per 4 milioni. A conti fatti, dunque, in una Finanziaria che tagliava in tutti i ministeri e in tutti i settori, per gli italiani all’estero si prevedevano due milioni in più di investimenti rispetto all’anno precedente. Pochi, certo, ma segnale chiaro di impegno futuro e di inversione di tendenza.
Nella Finanziaria dell’anno successivo, quella per il 2008 (ultima del Governo Prodi), erano inizialmente previsti per gli italiani all’estero tagli per 5 milioni, corretti da un emendamento del Governo che aggiungeva 14 milioni per la Conferenza dei giovani, il Museo dell’emigrazione e l’assistenza diretta.
Arrivarono poi altri 18 milioni con un emendamento dei senatori de L’Unione eletti all’estero che recuperavano, precisamente, 12.500.000 euro per assistenza diretta e 5.500.000 euro per i corsi di lingua e cultura. Un totale, dunque, di 32 milioni di euro di investimenti che, a fronte dei 5 milioni di tagli, presentava un saldo attivo di 27 milioni di euro in più rispetto all’anno precedente.
Quindi, in due anni e due finanziarie, il Governo Prodi ha destinato 27 milioni di euro in più agli italiani all’estero, lasciando gli investimenti per i nostri connazionali a 82 milioni di euro. Il tutto coerentemente con quanto fatto nei passati governi di centrosinistra e a dimostrazione di un impegno costante in favore della valorizzazione delle nostre comunità nel mondo, seppure compatibile con le esigenze di bilancio.
Oggi, come denunciato dal Comitato di Presidenza del CGIE, con la prima Finanziaria del Berlusconi IV, si precipita di nuovo a 32 milioni di investimenti totali.
Se è vero che dalla storia si possono trarre insegnamenti per il futuro, tanto vale non farsi illusioni, né sorprendersi per quanto sta accadendo. Questo Governo, questo capo dell’Esecutivo, questo Ministro per l’economia e finanze, non hanno mai avuto, né avranno mai interesse a capire, sostenere e valorizzare le nostre comunità all’estero. Dicessero chiaramente ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti: per loro gli italiani all’estero non sono una risorsa per il Paese, ma tutt’al più, quando va bene serbatoi di retorica patriottarda e nazionalismo d’antan. Quando va meno bene, magari perché da quelle comunità si levano rivendicazioni legittime e richieste esigenti di attenzione, un fastidio. Per dirla con il Gianmaria Testa che parla di immigrazione, “un rubinetto che cola una goccia”.
Per questo, penso che difficilmente gli auspici espressi in una lettera dal Segretario generale del CGIE, Elio Carozza, al Ministro Frattini, si realizzeranno. A meno di un impegno personale serio, come spesso sa esserlo, determinato ed efficace del Capo della Farnesina in persona.
venerdì 26 settembre 2008
Trasformare rumori in tifo
Oggi è uscito sul quotidiano statunitense America oggi questo mio articolo. Buona lettura.
Nelle ultime settimane si è alzato un po’ il volume a Saxa Rubra. Da parte mia, che ho seguito da diverse postazioni, politiche e istituzionali, la vita di Rai International – oggi Rai Italia – vorrei dare conto di quello che ho visto nel comparto dell’azienda televisiva dello Stato a cui sono più affezionato.
Dico subito che il quadro non mi pare lusinghiero. Come l’ultimo atto dell’attuale direzione mi conferma, con la redazione che ha prima respinto a grande maggioranza l’ultimo piano di riorganizzazione e poi votato la sfiducia al suo direttore. Non voglio, né debbo, entrare nel merito del contenzioso fra redazione e direttore.
Devo però, mio malgrado, constatare che a poco più di 18 mesi dal suo insediamento, l’attuale direzione rischia di ritrovarsi in una situazione di stallo simile a quelle precedenti, nonostante al suo arrivo, Badaloni, avesse trovato una redazione compatta e motivata dalla prospettiva di lavorare con un bravo e affermato professionista quale lui è. Un entusiasmo che era cresciuto con la firma di una nuova e avanzata Convenzione tra Rai e Presidenza del Consiglio, che prevedeva l’introduzione di discreti strumenti di verifica e controllo, come il Comitato di controllo su Rai International che, se riuscisse a risolvere i conflitti di competenze (a mio avviso non dovrebbe far parte di una commissione di controllo anche il controllato), potrebbe essere un utile banco di verifica dei risultati e uno stimolo alla direzione e redazione tutta.
Nell’applicazione del dettato della Convenzione si erano visti, in una prima fase, piccoli passi in avanti che avevano fatto ben sperare per il futuro: una maggiore pluralità dell’informazione, con la messa in onda all’estero di diversi programmi di approfondimento giornalistico insieme a programmi di buon successo quali “Parla con me” e “Che tempo che fa”.
Come pure è stata senz’altro una scelta felice quella di diversificare i palinsesti: uno per le Americhe, uno per l’Africa e l’Asia e uno per l’Europa e l’Italia, seppure vi sia ancora molto da lavorare nella direzione di altri sdoppiamenti di questi stessi palinsesti. Persino la qualità del segnale era migliorata.
Questi risultati sono stati apprezzati anche dagli italiani all’estero, che vi hanno riscontrato i piccoli germi di un cambiamento di rotta e una speranza per il futuro di Rai Italia. Un sentimento registrato nell’annuale rapporto del MAE che riportava i timidi segnali di un leggero apprezzamento che alimentava crescenti aspettative.
Invece là ci si è fermati, riaprendo la strada a un nuovo e diffuso disagio tra gli utenti all’estero (italiani e non) e nella redazione. Per questo oggi, alla vigilia di una quasi certa invasione politica da parte della maggioranza di Governo, è necessario capire le ragioni più profonde di questo disagio, che costringe il canale internazionale del servizio pubblico in un continuo stato di sofferenza. Lo dobbiamo fare per non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, consentendo ai limiti del passato di travolgere la mission di Rai Italia.
Ormai, la crisi dell’Alitalia ce lo conferma, la grande competizione globale fra i brand territoriali, si gioca proprio sul terreno della capacità di proporre e sviluppare un’immagine, un’idea del sistema paese. Rai Italia deve essere uno strumento vitale di questa strategia, come impone la Convenzione. Ne ha tutte le premesse e le potenzialità. Invece, proprio su questo snodo decisivo si è avvitata la crisi dell’ultima gestione del canale, che ha portato alla sfiducia di martedì scorso. Forse può essere utile ricordare alcuni dati sintomatici di uno stallo e di una distanza perniciosa dalle indicazioni dettate dalla Convenzione:
- news: dal gennaio 2007 al gennaio 2008 il palinsesto di Rai Italia si è ridotto passando dall’11,5% al 6,75%. Si è dimezzata l’offerta di informazioni per la comunità italiana all’estero, sostituita con commenti e approfondimenti generalisti che non hanno rafforzato l’appeal del canale verso il suo attuale target di riferimento, né gli hanno consentito di conquistarne uno nuovo.
- Comunicazione sociale e lavoro: anche qui si registra un dimezzamento dell’offerta: dal 6% del gennaio 2007 al 3% del gennaio 2008.
- Turismo e qualità del territorio: questo è un punto strategico, passato però dal 2,3% del palinsesto complessivo all’1,4% di oggi.
- Intrattenimento e cinema: mentre sono notevolmente aumentate le repliche, come abbiamo constatato nell’ultimo trimestre, vediamo che persino lo sport è calato del 5% e l’offerta per minori, nevralgica per rinnovare la nostra platea di riferimento e rafforzare il legame con le nuove generazioni di italiani nati all’estero, è passata dal già insufficiente 3,85% a uno striminzito 1,85%.
Il dato preoccupante è che nei mesi successivi al gennaio 2008 (per i quali, tuttavia, non sono disponibili dati di dettaglio) i trend non sono affatto migliorati, anzi sembrano peggiorare. Abbiamo infatti visto scomparire in queste settimane trasmissioni che interpretavano al meglio la mission di marketing territoriale, come “ItaliaCampus” e, soprattutto, programmi che segnavano un’innovazione sia nel linguaggio che nella capacità di rappresentare il sistema paese, come “ItaliaCult”, il magazine che segnava un originale modello produttivo, con il coinvolgimento diretto degli Istituti di cultura italiana all’estero e della stessa Farnesina, dalla quale si trasmetteva e che, insieme agli istituti stessi, aveva manifestato apprezzamento per il lavoro fatto, come ho avuto modo di constatare direttamente nel mio ruolo di rappresentante del MAE nel Comitato di controllo su Rai International.
Ma siccome l’obiettivo più importante è quello di guardare al futuro, riconoscendo e prendendo atto dei limiti che hanno segnato il percorso fin qui svolto, vorrei provare a individuare almeno un punto di partenza condiviso da cui muovere, ciascuno nel proprio ruolo.
Rai Italia deve essere competitiva con la nuova realtà della comunicazione internazionale. Deve saper raggiungere i diversi target: quello dell’emigrazione tradizionale con quello delle nuove migrazioni italiane e degli stranieri a vario titolo interessati all’Italia e alla sua cultura. Essere capace di intrecciare contenitori e contenuti: adottando linguaggi innovativi, mutuati dalle nuove soluzioni multimediali, per dare il senso della realtà del sistema Italia.
Nessuno – e sottolineo nessuno – può pensare di tornare al passato, realizzando un prodotto consolatorio e nostalgico. Le competenze e le potenzialità innovative sono già nella redazione: occorre saperle gestire e valorizzare al massimo. Solo così delusione degli utenti, insieme a scricchiolii, malumori e rumore di queste settimane, potranno diventare utile tifo e incoraggiamento per Rai Italia.
Nelle ultime settimane si è alzato un po’ il volume a Saxa Rubra. Da parte mia, che ho seguito da diverse postazioni, politiche e istituzionali, la vita di Rai International – oggi Rai Italia – vorrei dare conto di quello che ho visto nel comparto dell’azienda televisiva dello Stato a cui sono più affezionato.
Dico subito che il quadro non mi pare lusinghiero. Come l’ultimo atto dell’attuale direzione mi conferma, con la redazione che ha prima respinto a grande maggioranza l’ultimo piano di riorganizzazione e poi votato la sfiducia al suo direttore. Non voglio, né debbo, entrare nel merito del contenzioso fra redazione e direttore.
Devo però, mio malgrado, constatare che a poco più di 18 mesi dal suo insediamento, l’attuale direzione rischia di ritrovarsi in una situazione di stallo simile a quelle precedenti, nonostante al suo arrivo, Badaloni, avesse trovato una redazione compatta e motivata dalla prospettiva di lavorare con un bravo e affermato professionista quale lui è. Un entusiasmo che era cresciuto con la firma di una nuova e avanzata Convenzione tra Rai e Presidenza del Consiglio, che prevedeva l’introduzione di discreti strumenti di verifica e controllo, come il Comitato di controllo su Rai International che, se riuscisse a risolvere i conflitti di competenze (a mio avviso non dovrebbe far parte di una commissione di controllo anche il controllato), potrebbe essere un utile banco di verifica dei risultati e uno stimolo alla direzione e redazione tutta.
Nell’applicazione del dettato della Convenzione si erano visti, in una prima fase, piccoli passi in avanti che avevano fatto ben sperare per il futuro: una maggiore pluralità dell’informazione, con la messa in onda all’estero di diversi programmi di approfondimento giornalistico insieme a programmi di buon successo quali “Parla con me” e “Che tempo che fa”.
Come pure è stata senz’altro una scelta felice quella di diversificare i palinsesti: uno per le Americhe, uno per l’Africa e l’Asia e uno per l’Europa e l’Italia, seppure vi sia ancora molto da lavorare nella direzione di altri sdoppiamenti di questi stessi palinsesti. Persino la qualità del segnale era migliorata.
Questi risultati sono stati apprezzati anche dagli italiani all’estero, che vi hanno riscontrato i piccoli germi di un cambiamento di rotta e una speranza per il futuro di Rai Italia. Un sentimento registrato nell’annuale rapporto del MAE che riportava i timidi segnali di un leggero apprezzamento che alimentava crescenti aspettative.
Invece là ci si è fermati, riaprendo la strada a un nuovo e diffuso disagio tra gli utenti all’estero (italiani e non) e nella redazione. Per questo oggi, alla vigilia di una quasi certa invasione politica da parte della maggioranza di Governo, è necessario capire le ragioni più profonde di questo disagio, che costringe il canale internazionale del servizio pubblico in un continuo stato di sofferenza. Lo dobbiamo fare per non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, consentendo ai limiti del passato di travolgere la mission di Rai Italia.
Ormai, la crisi dell’Alitalia ce lo conferma, la grande competizione globale fra i brand territoriali, si gioca proprio sul terreno della capacità di proporre e sviluppare un’immagine, un’idea del sistema paese. Rai Italia deve essere uno strumento vitale di questa strategia, come impone la Convenzione. Ne ha tutte le premesse e le potenzialità. Invece, proprio su questo snodo decisivo si è avvitata la crisi dell’ultima gestione del canale, che ha portato alla sfiducia di martedì scorso. Forse può essere utile ricordare alcuni dati sintomatici di uno stallo e di una distanza perniciosa dalle indicazioni dettate dalla Convenzione:
- news: dal gennaio 2007 al gennaio 2008 il palinsesto di Rai Italia si è ridotto passando dall’11,5% al 6,75%. Si è dimezzata l’offerta di informazioni per la comunità italiana all’estero, sostituita con commenti e approfondimenti generalisti che non hanno rafforzato l’appeal del canale verso il suo attuale target di riferimento, né gli hanno consentito di conquistarne uno nuovo.
- Comunicazione sociale e lavoro: anche qui si registra un dimezzamento dell’offerta: dal 6% del gennaio 2007 al 3% del gennaio 2008.
- Turismo e qualità del territorio: questo è un punto strategico, passato però dal 2,3% del palinsesto complessivo all’1,4% di oggi.
- Intrattenimento e cinema: mentre sono notevolmente aumentate le repliche, come abbiamo constatato nell’ultimo trimestre, vediamo che persino lo sport è calato del 5% e l’offerta per minori, nevralgica per rinnovare la nostra platea di riferimento e rafforzare il legame con le nuove generazioni di italiani nati all’estero, è passata dal già insufficiente 3,85% a uno striminzito 1,85%.
Il dato preoccupante è che nei mesi successivi al gennaio 2008 (per i quali, tuttavia, non sono disponibili dati di dettaglio) i trend non sono affatto migliorati, anzi sembrano peggiorare. Abbiamo infatti visto scomparire in queste settimane trasmissioni che interpretavano al meglio la mission di marketing territoriale, come “ItaliaCampus” e, soprattutto, programmi che segnavano un’innovazione sia nel linguaggio che nella capacità di rappresentare il sistema paese, come “ItaliaCult”, il magazine che segnava un originale modello produttivo, con il coinvolgimento diretto degli Istituti di cultura italiana all’estero e della stessa Farnesina, dalla quale si trasmetteva e che, insieme agli istituti stessi, aveva manifestato apprezzamento per il lavoro fatto, come ho avuto modo di constatare direttamente nel mio ruolo di rappresentante del MAE nel Comitato di controllo su Rai International.
Ma siccome l’obiettivo più importante è quello di guardare al futuro, riconoscendo e prendendo atto dei limiti che hanno segnato il percorso fin qui svolto, vorrei provare a individuare almeno un punto di partenza condiviso da cui muovere, ciascuno nel proprio ruolo.
Rai Italia deve essere competitiva con la nuova realtà della comunicazione internazionale. Deve saper raggiungere i diversi target: quello dell’emigrazione tradizionale con quello delle nuove migrazioni italiane e degli stranieri a vario titolo interessati all’Italia e alla sua cultura. Essere capace di intrecciare contenitori e contenuti: adottando linguaggi innovativi, mutuati dalle nuove soluzioni multimediali, per dare il senso della realtà del sistema Italia.
Nessuno – e sottolineo nessuno – può pensare di tornare al passato, realizzando un prodotto consolatorio e nostalgico. Le competenze e le potenzialità innovative sono già nella redazione: occorre saperle gestire e valorizzare al massimo. Solo così delusione degli utenti, insieme a scricchiolii, malumori e rumore di queste settimane, potranno diventare utile tifo e incoraggiamento per Rai Italia.
lunedì 22 settembre 2008
Colonia: Zacchera - Pro-Koln, le relazioni pericolose
Questo sabato ero a Colonia, insieme a Laura Garavini, Rosella Benati, Giuseppe Bartolotta e altri compagni e amici della Germania, per partecipare alla manifestazione contro il raduno europeo neonazista "Pro-Koln".
Pro-Koln aveva organizzato un congresso anti-islam, da tenere nella tollerante città tedesca che ha deciso di costruire la più grande moschea della Germania. Aveva aderito al congresso la creme del nazionalpopulismo europeo: dal francese Jean Marie Le Pen ai fiamminghi del Vlaams Belang, al nostro "soldatino" padano, come lui stesso si è definito, Mario Borghezio.
Contro questo evento si sono mobilitati i tradizionali partiti e sindacati tedeschi, insieme al sindaco di Colonia, Fritz Schramma (CDU), per organizzare le grandi controdimostrazioni di sabato. E con loro ho voluto essere in piazza anch'io.
Devo dire che la città ha reagito come meglio non si potrebbe alla provocazione neonazista, cioè ribellandosi civilmente: gli hotel hanno rifiutato alloggio ai sostenitori Pro-Koln, tassisti e autobus privati non li hanno portati da nessuna parte, ristorantori e baristi gli hanno rifiutato i viveri. In queste condizioni solo pochissimi sono riusciti a raggiungere Colonia e quei pochi hanno dovuto rinunciare a manifestare perché, all'ultimo momento la manifestazione è stata annullata.
In piazza non c'era traccia nemmeno dei militanti mantovani della Lega Nord né di "Padania cristiana" annunciati da Borghezio. Una fortuna, poiché la sola, rumorosa, presenza di Borghezio, insieme a quella "tecnica" della rappresentante tedesca del PDL, Luciana Martena, aveva già cominciato ad alimentare qualche sentimento anti-italiano.
Eppure, un autorevole dirigente tedesco di Pro-Koln "in contatto con Marco Zacchera", un certo Hans Breninek, aveva portato nella piazza dei nazional-populisti una bandiera italiana. Perché? Chi glielo ha chiesto di farsi interprete degli italiani fino al punto di sventolare una bandiera che non gli appartiene? Zacchera ne era a conoscenza? Che tipo di rapporti ha con il signor Breninek e con Pro-Koln?
Sono domande per le quali mi piacerebbe avere delle risposte da un dirigente di AN che pure stimo. Le sue risposte sarebbero anche un segnale di rispetto per quegli italiani di varia estrazione politica spontaneamente costituitisi in "Comitato italiano contro ogni discriminazione" e che sabato hanno partecipato alla manifestazione della Chiesa e dei sindacati per dire, con il proprio striscione, che gli italiani di Germania sono "per il dialogo religioso e la comprensione tra i popoli".
Sono loro, dunque, che con la bandiera italiana in mano nell'altra piazza, quella vicino al Duomo, hanno tenuto alto il buon nome dell'Italia e mostrato la vera faccia delgli italiani in Germania. A questi connazionali nella democratica e civile Colonia non può rimanere il dubbio che il Responsabile esteri di AN (o PDL) intrattenga relazioni sottobanco con esponenti neonazisti, così come non può rimanere a noi in Italia.
Mi pare che troppi elementi si tengano per non fare chiarezza: la Martena nominata in Germania da Zacchera che doveva partecipare alla manifestazione; un dirigente di Pro-Koln che porta una bandiera italiana e che mostra orgoglioso il biglietto da visita di Zacchera che tiene nel portamonete, come suo "contatto politico in Italia". Tutto ciò non aiuta gli italiani in Germania.
Per quanto ci riguarda, invece, durante la manifestazione antirazzista nella Roncalliplatz, abbiamo incontrato il sindaco Fritz Schramma, al quale abbiamo ribadito che come Partito Democratico, insieme ai nostri militanti in Germania, eravamo al suo fianco per il rifiuto della xenofobia e del razzismo e per l'identità multiculturale. Schramma ci ha dunque abbracciati e si è voluto far fotografare con la bandiera del PD.
martedì 9 settembre 2008
Minacce di morte
Proprio ieri avevo scritto degli esponenti di AN Alemanno e La Russa in chiave di revisionismo e riabilitazione del Fascismo, accennando a come quel regime avesso privato i cittadini delle libertà di pensiero, di opinione politica e di stampa e, dunque, di come quel regime (e i suoi effetti concreti) andasse condannato senza esitazione alcuna.
Oggi, invece, in tempi di democrazia, ho inviato la mia piena e sincera solidarietà a due avversari politici, proprio esponenti di AN, minacciati a causa delle opinioni e attività che, democraticamente, svolgono. Si tratta del direttore de L'Italiano, Gian Luigi Ferretti, e del suo vice, Tullio Zembo, minacciati di morte domenica scorsa da Franco Arena dai microfoni di una radio argentina (“Cuidado a no bajarse del cordon porque podria pizarlo un coche” - Stia attento a non scendere dal marciapiede perché potrebbe investirlo un’auto).
Trovo la cosa intollerabile e invito tutti coloro che credono nella democrazia e nella libertà della Persona a condannare quanto accaduto.
La mia solidarietà al Direttore Ferretti e al suo Vice, Tuttlio Zembo.
Caro Direttore,
invio a Lei e al vice direttore Zembo la mia più sentita solidarietà per le minacce ricevute. Ritengo quanto accadutoLe un fatto inaccettabile non soltanto perché gravemente lesivo della Sua libertà personale, ma anche perché chi La minaccia offende e mortifica la libertà di opinione e di stampa così come sancite dalla nostra Carta costituzionale. Dunque colpisce l'essenza stessa della democrazia. Penso che in momenti come questi, chiunque, vieppiù chi fa politica o informazione, debba sentirsi indignato e colpito in prima persona e reagire con fermezza, senza se e senza ma. Poiché se è sempre legittimo il confronto di idee, principi e valori differenti in una battaglia politica anche aspra, non lo è mai la scelta della violenza e dell'insulto nei confronti dell'avversario.
Cordiali saluti.
Eugenio Marino
lunedì 8 settembre 2008
Dalla Festa di Firenze alla tragedia di Roma...
Ieri ero alla giornata conclusiva della Festa Democratica (devo pensarci un po' prima di dirlo o scriverlo, la mente va ancora a "Festa de l'Unità") dove si è tenuto il tradizionale dibattito sulle politiche che riguardano gli italiani nel mondo, insieme a Maurizio Chiocchetti, Franco Danieli, Gino Bucchino, Laura Garavini, Elio Carozza e Fabio Porta.
Quest'anno sono arrivati a Firenze nostri connazionali dal Lussemburgo, dal Belgio, dalla Francia, dagli USA e dalla Svizzera, dove in contemporanea si teneva la commemorazione delle vittime della tragedia del Lotschberg, del 1908.
Abbiamo dunque ricordato quelle vittime del lavoro italiano all'estero, insieme a quelle di Mattmark - il cui anniversario ricorreva il 30 agosto - di Marcinelle e di Monongah osservando, in contemporanea con la cerimonia in Svizzera, un minuto di silenzio per tutti i morti sul lavoro.
Da parte mia, ho sottolineato come il tema della sicurezza sul lavoro debba essere uno di quelli che determina l'identità del Partito Democratico. Proprio su questo il PD dovrebbe insistere quotidianamente (così come quasi quotidianamente abbiamo un morto sul lavoro) e costruire l'iniziativa politica (o le iniziative) anche sul territorio. Gli altri partiti, infatti, anche se non dovrebbero, possono permettersi di rimuovere questo tema dalla propria agenda politica, ma il PD no. Non può permettersi di sottovalutarlo o di non considerarlo tra le priorità del Paese, pena un altro colpo al deficit di identità e alla battaglia per i diritti della Persona. Insomma: un'altra tragedia politica, come quelle di Marcinelle, Mattmark e Monongah e del Lotschberg.
A proposito di tragedie, all'estero come in Italia, vogliamo parlare di quelle romane di La Russa e Alemanno?
Il Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, intervenuto alla cerimonia di commemorazione del 65° anniversario della Difesa di Roma e dell'Armistizio, ci ha ricordato che tra combattenti di Salò e partigiani e angloamericani non vi è differenza.
"Farei un torto alla mia coscienza - ha detto La Russa - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia".
Una sola domanda:
1) se nel 1945, invece dei partigiani e degli anglo-americani, avessero vinto i repubblichini di Salò e i nazisti, cosa sarebbe successo, tanto per dire, in Italia?
Penso che non avremmo avuto un'Assemblea costituente né una Costituzione repubblicana, così come non avremmo avuto un Parlamento democraticamente eletto e cinquant'anni di pace.
Ma non avremmo avuto nemmeno libertà di stampa né avremmo più visto circoloare alcun avversario politico.
Avremmo, invece, continuato a veder partire treni piombati e carichi di oppositori politici ed ebrei verso i campi di concentramento, dato che il Fascismo aveva introdotto da tempo anche le leggi razziali.
Sarà anche per questo che quel comunista di Gianfranco Fini aveva definto il Fascismo come "il male assoluto". Naturalmente prima che il mio sindaco, Gianni Alemanno, rettificasse la cosa, spiegandogli e spiegandoci che il Fascismo "non fu il male assoluto e non mi sento di condannarlo".
Già, perché condannarlo? A pensarci bene nel Ventennio "si poteva lasciare la chiave di casa attaccata alla porta" e "i treni arrivavano in orario", soprattutto quelli per Auschwitz...
Penso che il vizio di fondo della Destra italiana, di non voler mai condannare davvero il Fascismo, non sia affatto sparito, così come penso che le dichiarazioni di La Russa e Alemanno siano il frutto di una visione condivisa e di uno stesso progetto: la revisione storica e la riabilitazione del Fascismo a discapito della Resistenza.
Bene farà Veltroni se, in rottura con le affermazioni dell'attuale sindaco, si dimetterà dal dal Comitato per il museo della Shoah, di cui era stato promotore.
mercoledì 3 settembre 2008
Il ritorno
Questo agosto è stato politicamente movimentato e sono successe parecchie cose. Al rientro, dunque, ho ripreso il filo da dove lo avevo interrotto prima di partire e guardando le cose nell'arco temporale di qualche mese, ho riscontrato una serie di fatti curiosi. Alcuni li riporto schematicamente:
a) il neo Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha istituito una commissione per il "rilancio di Roma" e ha voluto che a guidarla fosse Giuliano Amato, che ha accettato. Se la commissione è stata fatta per il "rilancio", nelle intenzioni del Sindaco significa che Roma non era affatto lanciata, bensì ferma, quindi che la passata gestione non funzionava (non a caso lo slogan elettorale era "Rialzati Roma").
Io non la penso affatto così, anzi. Se Amato ha accettato, da ex Ministro del Governo di Centrosinistra e uomo di Sinistra, significa che implicitamente condivide l'esigenza di rilanciare una Roma ferma (o in ginocchio), quindi è come se facesse una critica alla passata gestione. Ma forse sbaglio io;
b) in campagna elettorale, l'Alemanno candidato aveva puntato moltissimo sulla questione "sicurezza", cavalcando il caso della signora Reggiani e alimentando fobie contro gli immigrati, soprattutto rom. Aveva parlato di misure per rendere la città sicura e per espellere i rom. Oggi leggo l'Alemanno Sindaco che dice che "Roma è sicura" e che non ci sarà nessuna espulsione di rom. Ma, per la cronaca, ho visto numerosi altri annunci e retromarcia del nuovo sindaco - compresa la mancata intitolazione di una strada ad Almirante, già annunciata tempo fa - che gli hanno addirittura procurato l'appellativo di Retromanno;
c) su Alitalia, poi, la Destra si era opposta con forza - con la motivazione che la compagnia di bandiera doveva rimanere italiana - all'offerta di Air France, che originariamente prevedeva esuberi per circa 2000 dipendenti. Oggi, a campagna elettorale finita, Berlusconi riparte proprio da Air France, ma con un piano di esuberi arrivato a 5000 dipendenti. Non c'è che dire: bel risultato per i lavoratori;
d) sui problemi interni al PD, mi ero lasciato tutto alle spalle confidando nel fatto che le vacanze avrebbero ritemprato e motivato tutti noi. Durante tutto agosto, invece, ho trovato sul territorio molti compagni e amici iper critici e delusi. In molte sezioni mi sono sentito riproporre un accostamento tra situazione politica nazionale e locale, accomunate da modalità suicide, incompetenze, confusione, presunzione.
Fino allo sfinimento mi sono sentito ripetere: “le sezioni sono considerate dai dirigenti nazionali e locali luoghi in cui se va bene si perde del tempo, se va male si intralcia ‘la linea’ decisa altrove”; oppure “i nostri voti sono dati per scontati, ma se continua così alle prossime elezioni amministrative del 2009 facciamo la lista alternativa a quella del PD”; o “Perché da Roma non si spende una parola di chiarezza sulle modalità che portano a scegliere i riferimenti locali e gli interlocutori del PD sul territorio che sono oggi spesso 'figure' senza una chiara posizione politica, senza un legame esplicito col partito quando non in odore di malavita?”. Anche nei paesi più piccoli, come il mio, mi sono sentito dire che le decisioni e le candidature vengono prese tra pochissime persone, senza ascoltare la "base".
Insomma, ho potuto riscontrare che anche localmente si riproducono i problemi nazionali;
e) la cosa politicamente bella e positiva di questo mese, è stata per me la partecipazione ad alcune tappe del tour della Fondazione Mezzoggiorno Europa e del Presidente della Delegazione italiana al PSE, Gianni Pittella. Certo anche in queste occasioni abbiamo ascoltato molte critiche da parte di cittadini, militanti e dirigenti locali. Ma abbiamo anche raccolto proposte concrete, indicazioni e suggerimenti utili. Di quelli che ti riconciliano con la politica e con la gente.
In questo senso, sono certo, Gianni Pittella è la persona più indicata a fare questo lavoro. E' uno di quei politici di razza capace di non risparmiarsi mai sul lavoro, di quelli che sa mantenere sempre un contatto diretto, costante e di qualità con l'elettorato che è chiamato a rappresentare. E soprattutto ha una grande capacità di ascolto.
Se ho voluto dare il mio contributo al tour è proprio per questo, e perché se le elezioni ci hanno confermato che è vitale il rapporto e il radicamento sul territorio, con Gianni Pittella il radicamento lo si costruisce e rafforza davvero, poiché da sempre questo è uno dei suoi punti di forza e di consenso.
Tanto per fare un esempio, rioporto le 10 proposte concrete che Gianni ha lanciato a fine tour, raccogliendo e sintetizzando le indicazioni e i suggerimenti raccolti in ben sei regioni del Mezzoggiorno. Proposte che, naturalmente, sottoscrivo e per le quali chiedo a tutti di mandarmi la propia adesione, o sul blog o alla mia mail (e.marino@partitodemocratico.it):
1. La Giornata europea della memoria per le vittime di tutte le mafie;
2. Una Direttiva della Commissione europea mirata ad un più efficace utilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali;
2. Una Direttiva della Commissione europea mirata ad un più efficace utilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali;
3. Un "Centro permanente di formazione di cultura europea" a Caserta da ospitarsi in una struttura confiscata alla criminalità organizzata;
4. Il coinvolgimento, per i prossimi tre anni, attraverso il programma Erasmus, di alcune decine di migliaia di ragazzi e ragazze italiani di scuole di diverso ordine e grado (fino all'Università);
5. Ospitare, in accordo con le università italiane, alcune decine di migliaia di ragazzi dei Paesi della sponda sud del Mediterraneo;
6. La nomina in ogni Consiglio comunale, di centrodestra e di centrosinistra, di un delegato alle politiche comunitarie, in modo da rendere percettibile l’Europa e da diffondere tutte le informazioni che riguardano l’Ue;
7. L'inserimento nei Pof (Piani dell'offerta formativa) delle scuole di ogni ordine e grado dei temi inerenti i programmi e i valori europei";
8. Erasmus per professionisti e dipendenti pubblici;
9. Interventi infrastrutturali sui porti di Napoli, Salerno, Gioia Tauro, Brindisi,Taranto e Bari, per rendere il Mezzogiorno la piattaforma logistica del Mediterraneo;
10. La modifica dell'attuale legge elettorale italiana e la reintroduzione dei collegi uninominali o delle preferenze.
lunedì 21 luglio 2008
Uno studente che studia, che si deve prendere una laura
Devo dire che era diverso tempo che, aprendo i giornali della mattina, non mi capitava di sentirmi allo stesso tempo sconfortato e, mi si passi il termine, divertito. È l’ennesimo insulto di Bossi all’inno nazionale a ispirare il primo sentimento, mentre il sorriso (amaro) lo ha suscitato l’esternazione sui professori terroni che rubano le cattedre agli insegnanti padani e poi bocciano i candidati perché rei di ispirarsi ai grandi del pensiero politico pre unitario.
Il Senatùr dice testualmente:
"Dopo il federalismo bisogna passare anche alla riforma della scuola. Non possiamo lasciare martoriare i nostri figli da gente che non viene dal Nord. Il problema della scuola è molto sentito perché tocca tutta la famiglia”;
E ancora:
“E’ anche un problema occupazionale, che denuncia lo stato attuale dell'istruzione che permette ad insegnanti del meridione di togliere lavoro agli insegnanti del Nord e consente loro di giudicare negli esami di maturità quei ragazzi che si azzardano ad avere idee del Nord e di presentare tesine su Cattaneo”.
Intanto voglio dire che mi sento parte lesa in quanto insegnante terrone e precario, seppure per una breve stagione della mia vita. Poi vorrei suggerire all’Umberto nazionale di andarsi a rivedere i concorsi a cattedra di ogni ordine e grado degli ultimi venti anni. Vedrà senza difficoltà che i cittadini del Nord non manifestano il minimo interesse per il mestiere dell’insegnante.
Non si iscrivono nelle graduatorie delle domande a supplenza;
non tentano i concorsi;
non scelgono le scuole di specializzazione all’insegnamento.
Le ragioni sono tante e mi scuso se le banalizzo. Lo stipendio è da fame, l’autorevolezza inesistente, riconoscimento e prestigio sociale ridotti a zero, possibilità di carriera nulle… e va a finire che i parenti ti pure sfottono. Avevo un amico di Padova, “plurimasterizzato”, che a ogni festa comandata si doveva sorbire la reprimenda compassionevole dei parenti per aver scelto una strada (l’insegnante di filosofia) che lo metteva nell’impossibilità di fronteggiare dignitosamente il cugino piastrellista, con la terza media, nell’eterno, atavico confronto delle cilindrate.
Per contro, ho un numero imprecisato di conterranei, compaesani, parenti sparsi per il Nord e Centro Italia a fare supplenze o insegnanti di ruolo. Diversi di loro il concorso non lo hanno neppure dovuto vincere. Perché i candidati erano in numero inferiore alle cattedre messe a bando.
Paola Goisis, rappresentante della Lega nella commissione Cultura della Camera, sta studiando la riforma dell'istruzione. Per la Goisis “i ragazzi sanno tutti i nomi dei sette Re di Roma, ma non sanno nemmeno cos'è un doge, che dettava legge in tutto il mondo orientale”…“sono disorientati, non sanno più cosa significa il rispetto delle istituzioni”. C’è da crederci, se dalla bocca di un Ministro della Repubblica esce un tale florilegio.
Si informi meglio il Ministro Bossi (e già che c’è passi pure le carte alla Goisis) e scoprirà un vasto mondo, non solo al Nord, dove cultura, educazione e formazione non sono ‘priorità’. Dove il precoce abbandono scolastico dei giovani e la mancanza di appeal della professione di insegnante sono solo alcuni dei sintomi di un malessere profondo. Di un’etica del “fare” che si è da tempo arresa a un malinteso mito del successo fondato sull’“avere” a ogni costo, sull’accumulo forsennato e senza regole che diventa l’unico metro per valutare l’affermazione individuale.
Ma qui il discorso si fa lungo e rischia di spegnere il mio sorriso. Invece voglio tenerlo bello brillante e mi soccorre nell’intento la vicenda di un giovanotto padano, tale Renzo Bossi, che per il secondo anno consecutivo ha affrontato la temibile (lo è stata per tutti) prova di maturità. Ci immaginiamo quanto debba averlo mortificato la prima bocciatura a Varese, un anno fa. Immaginiamo che dopo un primo momento di sconforto, il giovane epigono di Alberto da Giussano si sia rimboccato le maniche e abbia chiesto come prima cosa a “papi” di cambiargli scuola. “Papi” lo iscrive a Tradate, in un Istituto religioso parificato (hai visto mai lo aiutasse l’esercizio spirituale). Immaginiamo un anno di dedizione assoluta alle sudate carte culminata nella redazione di una prestigiosa tesina dal titolo “La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità”.
A nulla però valgono gli sforzi. La perfida Commissione d’esame, strumento del più vasto e pernicioso complotto demo-pluto-giudaico che vampirizza il Nord, incredibilmente, lo boccia ancora. E non provate nemmeno ad adombrare il sospetto che ci sia un qualche nesso tra la vicenda del povero Renzo e le parole severe del Ministro Bossi. Al quale va, tutta intera, la mia solidarietà di padre non sempre fiero delle performance del proprio figlio e un consiglio: ma ricominciare dai sette re di Roma, no?
P.S. Dubbio atroce: se passasse la riforma di Bossi-Goisis che vuole insegnanti padani per i giovani padani, potrebbe ancora insegnare e dirigere la “Scuola bosina” di Varese (Istituto parificato con asilo, scuola elementare e media nelle quali si insegnano “le nostre tradizioni locali e la nostra lingua locale”) la signora Manuela Marrone, siciliana e moglie di Umberto Bossi?
Il Senatùr dice testualmente:
"Dopo il federalismo bisogna passare anche alla riforma della scuola. Non possiamo lasciare martoriare i nostri figli da gente che non viene dal Nord. Il problema della scuola è molto sentito perché tocca tutta la famiglia”;
E ancora:
“E’ anche un problema occupazionale, che denuncia lo stato attuale dell'istruzione che permette ad insegnanti del meridione di togliere lavoro agli insegnanti del Nord e consente loro di giudicare negli esami di maturità quei ragazzi che si azzardano ad avere idee del Nord e di presentare tesine su Cattaneo”.
Intanto voglio dire che mi sento parte lesa in quanto insegnante terrone e precario, seppure per una breve stagione della mia vita. Poi vorrei suggerire all’Umberto nazionale di andarsi a rivedere i concorsi a cattedra di ogni ordine e grado degli ultimi venti anni. Vedrà senza difficoltà che i cittadini del Nord non manifestano il minimo interesse per il mestiere dell’insegnante.
Non si iscrivono nelle graduatorie delle domande a supplenza;
non tentano i concorsi;
non scelgono le scuole di specializzazione all’insegnamento.
Le ragioni sono tante e mi scuso se le banalizzo. Lo stipendio è da fame, l’autorevolezza inesistente, riconoscimento e prestigio sociale ridotti a zero, possibilità di carriera nulle… e va a finire che i parenti ti pure sfottono. Avevo un amico di Padova, “plurimasterizzato”, che a ogni festa comandata si doveva sorbire la reprimenda compassionevole dei parenti per aver scelto una strada (l’insegnante di filosofia) che lo metteva nell’impossibilità di fronteggiare dignitosamente il cugino piastrellista, con la terza media, nell’eterno, atavico confronto delle cilindrate.
Per contro, ho un numero imprecisato di conterranei, compaesani, parenti sparsi per il Nord e Centro Italia a fare supplenze o insegnanti di ruolo. Diversi di loro il concorso non lo hanno neppure dovuto vincere. Perché i candidati erano in numero inferiore alle cattedre messe a bando.
Paola Goisis, rappresentante della Lega nella commissione Cultura della Camera, sta studiando la riforma dell'istruzione. Per la Goisis “i ragazzi sanno tutti i nomi dei sette Re di Roma, ma non sanno nemmeno cos'è un doge, che dettava legge in tutto il mondo orientale”…“sono disorientati, non sanno più cosa significa il rispetto delle istituzioni”. C’è da crederci, se dalla bocca di un Ministro della Repubblica esce un tale florilegio.
Si informi meglio il Ministro Bossi (e già che c’è passi pure le carte alla Goisis) e scoprirà un vasto mondo, non solo al Nord, dove cultura, educazione e formazione non sono ‘priorità’. Dove il precoce abbandono scolastico dei giovani e la mancanza di appeal della professione di insegnante sono solo alcuni dei sintomi di un malessere profondo. Di un’etica del “fare” che si è da tempo arresa a un malinteso mito del successo fondato sull’“avere” a ogni costo, sull’accumulo forsennato e senza regole che diventa l’unico metro per valutare l’affermazione individuale.
Ma qui il discorso si fa lungo e rischia di spegnere il mio sorriso. Invece voglio tenerlo bello brillante e mi soccorre nell’intento la vicenda di un giovanotto padano, tale Renzo Bossi, che per il secondo anno consecutivo ha affrontato la temibile (lo è stata per tutti) prova di maturità. Ci immaginiamo quanto debba averlo mortificato la prima bocciatura a Varese, un anno fa. Immaginiamo che dopo un primo momento di sconforto, il giovane epigono di Alberto da Giussano si sia rimboccato le maniche e abbia chiesto come prima cosa a “papi” di cambiargli scuola. “Papi” lo iscrive a Tradate, in un Istituto religioso parificato (hai visto mai lo aiutasse l’esercizio spirituale). Immaginiamo un anno di dedizione assoluta alle sudate carte culminata nella redazione di una prestigiosa tesina dal titolo “La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità”.
A nulla però valgono gli sforzi. La perfida Commissione d’esame, strumento del più vasto e pernicioso complotto demo-pluto-giudaico che vampirizza il Nord, incredibilmente, lo boccia ancora. E non provate nemmeno ad adombrare il sospetto che ci sia un qualche nesso tra la vicenda del povero Renzo e le parole severe del Ministro Bossi. Al quale va, tutta intera, la mia solidarietà di padre non sempre fiero delle performance del proprio figlio e un consiglio: ma ricominciare dai sette re di Roma, no?
P.S. Dubbio atroce: se passasse la riforma di Bossi-Goisis che vuole insegnanti padani per i giovani padani, potrebbe ancora insegnare e dirigere la “Scuola bosina” di Varese (Istituto parificato con asilo, scuola elementare e media nelle quali si insegnano “le nostre tradizioni locali e la nostra lingua locale”) la signora Manuela Marrone, siciliana e moglie di Umberto Bossi?
martedì 8 luglio 2008
Ma dove vanno i marinai?
Ho letto con una certa apprensione l'articolo di Fabio Bordignon sulla Repubblica di oggi intitolato “Dove va il PD”.
Dalle rilevazioni di Demos & Pi emergerebbe una tendenziale perdita di appel del Partito Democratico, percepito al suo esordio come la vera (l’unica?) novità della politica italiana e a due mesi dalla sconfitta elettorale come soggetto ‘confuso’ sotto il profilo politico/programmatico e culturale. Smarrimento e sfiducia investirebbero ugualmente il progetto politico, la strategia di opposizione al Governo e la leadership.
L’idea di un ritorno a prima dell'ottobre 2007 (ovvero ai due partiti DS e Margherita) troverebbe d’accordo il 23% di tutti gli elettori e l'11.3% degli elettori del PD.
Di questi ultimi oggi solo il 61,1% confermerebbe la scelta compiuta lo scorso 13 e 14 aprile (l’8,1% voterebbe per l'IDV, l'11,4% si asterrebbe, il 12,5% si definisce indeciso e il 7% voterebbe per un altro partito che non è l'IDV).
Ma anche quel 61% è lungi dal costituire un corpaccione omogeneo e compatto risultando viceversa attraversato da almeno due linee politiche distinte se non opposte: un 29.2% anelante una linea di opposizione più intransigente e un 39,4% che vorrebbe un maggior dialogo con questa maggioranza.
Un malessere che inevitabilmente si riflette sul Segretario del Partito, che vedrebbe il proprio gradimento in flessione dal 93.5% del marzo 2008 al 70.5% di oggi tra gli elettori del solo PD e dal 52.1% al 40.7% nell'elettorato nel suo insieme.
Ora, fermo restando che i sondaggi valgono quanto valgono (e nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi…) è evidente che numeri come questi non sono molto rassicuranti per un gruppo dirigente alle prese con la gestione di una fase delicatissima almeno sotto due fronti (peraltro tra loro intrecciati): quello interno, relativo alla definizione di un profilo e di una identità più netti e riconoscibili per il PD; e quello esterno del rapporto con la maggioranza e con le altre forze di opposizione.
Personalmente sono convinto che possiamo ancora volgere a nostro vantaggio questo passaggio stretto e accidentato. A patto però di affrontare finalmente – senza rimozioni e letture edulcorate – quei nodi che i congressi di DS e Dl hanno rimandato e che un Governo instabile e una maggioranza rissosa prima, una campagna elettorale difficile (per qualcuno disperata) poi, hanno fatto finora mettere da parte.
Mi riferisco, chi ha la pazienza di seguire questo blog lo sa già, alla necessità non più rinviabile di aprire un’autentica ‘fase costituente’ del PD che sorregga un dibattito approfondito, sincero, anche duro se necessario, nel quale il confronto sia sulle idee e sul profilo e non sugli apparati; sull’identità e la cultura di questo partito e sulle battaglie che darà e non su componenti/correnti/anime; sull’idea di Paese (e di mondo) che propone agli elettori.
Insomma, non mi rassegno al fatto che l’unico elemento di originalità nel dibattito italiano sulla globalizzazione da 15 anni a questa parte l’abbia introdotto Tremonti.
Se non faremo questo, credo sarà piuttosto inutile passare alla fase B (“ridefinizione degli assetti e delle strategie”).
Dalle rilevazioni di Demos & Pi emergerebbe una tendenziale perdita di appel del Partito Democratico, percepito al suo esordio come la vera (l’unica?) novità della politica italiana e a due mesi dalla sconfitta elettorale come soggetto ‘confuso’ sotto il profilo politico/programmatico e culturale. Smarrimento e sfiducia investirebbero ugualmente il progetto politico, la strategia di opposizione al Governo e la leadership.
L’idea di un ritorno a prima dell'ottobre 2007 (ovvero ai due partiti DS e Margherita) troverebbe d’accordo il 23% di tutti gli elettori e l'11.3% degli elettori del PD.
Di questi ultimi oggi solo il 61,1% confermerebbe la scelta compiuta lo scorso 13 e 14 aprile (l’8,1% voterebbe per l'IDV, l'11,4% si asterrebbe, il 12,5% si definisce indeciso e il 7% voterebbe per un altro partito che non è l'IDV).
Ma anche quel 61% è lungi dal costituire un corpaccione omogeneo e compatto risultando viceversa attraversato da almeno due linee politiche distinte se non opposte: un 29.2% anelante una linea di opposizione più intransigente e un 39,4% che vorrebbe un maggior dialogo con questa maggioranza.
Un malessere che inevitabilmente si riflette sul Segretario del Partito, che vedrebbe il proprio gradimento in flessione dal 93.5% del marzo 2008 al 70.5% di oggi tra gli elettori del solo PD e dal 52.1% al 40.7% nell'elettorato nel suo insieme.
Ora, fermo restando che i sondaggi valgono quanto valgono (e nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi…) è evidente che numeri come questi non sono molto rassicuranti per un gruppo dirigente alle prese con la gestione di una fase delicatissima almeno sotto due fronti (peraltro tra loro intrecciati): quello interno, relativo alla definizione di un profilo e di una identità più netti e riconoscibili per il PD; e quello esterno del rapporto con la maggioranza e con le altre forze di opposizione.
Personalmente sono convinto che possiamo ancora volgere a nostro vantaggio questo passaggio stretto e accidentato. A patto però di affrontare finalmente – senza rimozioni e letture edulcorate – quei nodi che i congressi di DS e Dl hanno rimandato e che un Governo instabile e una maggioranza rissosa prima, una campagna elettorale difficile (per qualcuno disperata) poi, hanno fatto finora mettere da parte.
Mi riferisco, chi ha la pazienza di seguire questo blog lo sa già, alla necessità non più rinviabile di aprire un’autentica ‘fase costituente’ del PD che sorregga un dibattito approfondito, sincero, anche duro se necessario, nel quale il confronto sia sulle idee e sul profilo e non sugli apparati; sull’identità e la cultura di questo partito e sulle battaglie che darà e non su componenti/correnti/anime; sull’idea di Paese (e di mondo) che propone agli elettori.
Insomma, non mi rassegno al fatto che l’unico elemento di originalità nel dibattito italiano sulla globalizzazione da 15 anni a questa parte l’abbia introdotto Tremonti.
Se non faremo questo, credo sarà piuttosto inutile passare alla fase B (“ridefinizione degli assetti e delle strategie”).
Alcuni segnali incoraggianti sono arrivati. Ma penso che nuove strade, nuove parole e nuove ‘visioni’ abbiano bisogno di nuove facce e nuove teste. Per questo mi unisco a chi, riconoscendo con gratitudine i meriti non piccoli di una leadership collettiva che ha dato moltissimo alla politica e al Paese, oggi le chiede di sostenere con forza e generosità, fino in fondo, l’avanzare di una nuova classe dirigente. Fermo restando che alcuni e molto isolati pezzi di quella leadership collettiva hanno già dato esempi di questo tipo.
Tuttavia, penso che ogni leadership dovrebbe conquistare sul campo la propria credibilità, con tanto di battaglie, morti, feriti e prigionieri e non perché qualcuno, per benevolenza, stanchezza o disperazione ha deciso di farsi da parte.
Tuttavia, penso che ogni leadership dovrebbe conquistare sul campo la propria credibilità, con tanto di battaglie, morti, feriti e prigionieri e non perché qualcuno, per benevolenza, stanchezza o disperazione ha deciso di farsi da parte.
lunedì 30 giugno 2008
Tunisi: il mio intervento alla Settimana del dialogo interculturale
Sono tornato dalla Tunisia, dove ho partecipato, insieme ai Parlamentari Marco Fedi e Nino Randazzo, alla "Settimana del dialogo interculturale" organizzata dallo storico Corriere di Tunisi, della famiglia Finzi.
E' stata anche l'occasione per rivedere Manuelita Scigliano, una brillante ragazza del mio paese.
Manuelita, che nei giorni scorsi ha presieduto uno dei dibattiti in programma e che vive e lavora nella città nordafricana, è riuscita a trovare anche il tempo di farmi godere un po' di Tunisi: venerdì notte mi ha portato, insieme ad altri amici e amiche, in un bellissimo e panoramico locale sul mare nel quale, nella quiete della notte tunisina, tra una chiacchierata e l'altra, seduti su bellissimi tappeti mediorentali, abbiamo bevuto l'ottimo thè ai pinoli e menta e fumato in compagnia il narghilè. Il mondo mi è sembrato, come non mi succedeva da parecchio tempo, a misura d'uomo, lento, tranquillo e civile. Peccato solo non aver potuto comprare proprio uno di quei grandi narghilè da portare nella mia oasi a Zifarelli, dove il mondo è sempre a misura d'uomo.
Sabato, poi, è stata la volta del convegno. Io ho detto le cose che seguono.
"Gli studi antropologici ci insegnano che l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra in Africa.
Da li ha cominciato subito e pian piano a muoversi e viaggiare, fino ad attraversare lo Stretto di Bering e ridiscendere l’intero continente americano fino alle Ande, in America del Sud.
In tutte le ere geologiche e storiche, i nostri antenati hanno continuato a spostarsi, portandosi dietro il proprio bagaglio di conoscenze, piccole o grandi che fossero, di abitudini, buone o cattive che le si interpreti, di culture, primitive o progredite.
Questi nomadi, primitivi, moderni e contemporanei, si sono incontrati e scontrati sulla base di un’appartenenza e per il possesso di un territorio o per l’imposizione di un’identità e di una cultura sull'altra, generando morte e distruzione: basti pensare all'affermazione latina "Cartago deleda est", tanto per rimanere ai casi a noi più prossimi culturalmente.
La storia dell’umanità è segnata da guerre per il predominio dell’uomo sull’uomo, di una civiltà su un’altra, di una religione sull’altra, di una cultura sull’altra, di una identità sull’altra.
La storia del mondo, come lo abbiamo conosciuto fino a poco tempo fa, fino al superamento degli stati nazione, poggiava su divisioni di carattere locale basate sul valore e sul concetto di identità e di cittadinanza.
Proprio nel concetto di identità rientrava il sentimento dell’appartenenza, basato sull’etnia, sulla religione, sugli stili di vita, sulla permanenza in un luogo geografico ben definito e sul percorso storico privato e collettivo che ci si portava dietro.
Da questa identità-appartenenza, poi, derivava il concetto e il diritto di cittadinanza, che determinava il confine tra chi stava dentro e chi fuori, tra l’uguale e il diverso, fino all’estremo dell’incluso e l’escluso, dell'amico e nemico.
Con l’avanzare delle nuove tecnologie che hanno potenziato, migliorato e ingigantito il sistema delle comunicazioni e dei trasporti, il mondo è diventato quel villaggio globale di cui molto si parla.
Il Pianeta è oggi più piccolo, più veloce, più eterogeneo.
Le distanze si sono ridotte, è cambiata la geografia delle comunicazioni, la filosofia e la scienza politica, lo stesso concetto dello stare insieme e il sistema di valori e di riferimenti.
Se dovessi provare a caratterizzare questo nuovo mondo e la sua civiltà con un unico aggettivo dovrei certamente dire che viviamo in una realtà "complessa", come l’ha definita Edgar Morin.
Con la categoria della "complessità", infatti, possiamo dare un valore e un significato a tutto l’insieme di trasformazioni, problemi, spesso drammi che connotano la nostra contemporaneità.
Spaziando dalla globalizzazione economica e gli squilibri sociali che essa, per sua natura, genera.
Alle nuove e grandi migrazioni, ai problemi di carattere energetico e al pericolo militare e terroristico globale.
Per interpretare e governare questa realtà molteplice e "complessa", dunque, serve un pensiero che sia a sua volta "complesso", un apparato valoriale e culturale di riferimento, un’etica condivisa.
E a mio avviso questa etica, per la politica che è chiamata a governare i grandi processi, non può che essere laica, di una laicità intesa come metodo di analisi della realtà e dei suoi fenomeni e non, banalmente, come contrapposizione a religioso.
Attraverso una lettura laica dei fenomeni – tutti i fenomeni, anche quelli non religiosi – il tema dell’etica deve essere declinato al dialogo interculturale, alla pace globale in un mondo oggi a serio rischio di distruzione e in cui è divenuta esigenza vitale l’individuazione di obiettivi comuni e condivisi di costruzione del futuro.
In questa complessità, poi, anche il concetto valoriale dell’identità, come l’ho poc'anzi descritto, sta mutando, e deve continuare a mutare.
Non più un’identità fondata sull’appartenenza dunque, ma sulla condivisione.
Quindi un’identità che poggi non più solo su uno sguardo rivolto al passato, a ciò che siamo stati, bensì al futuro, e che parta dal capire ciò che ci accomuna, che scegliamo di condividere per individuare il percorso che vogliamo fare insieme e il traguardo che vogliamo raggiungere.
Che è poi il sentimento che spinge l’UE nel costruire l’identità europea, per la quale uno sguardo rivolto al passato finirebbe per accentuare gli elementi di divisione, piuttosto che quelli di unità.
E’ necessario, quindi, mettere insieme la ricchezza e la pluralità delle identità
verso obiettivi comuni e scelte condivise: cosa che, per quanto ci riguarda nel nostro piccolo e nell’ambito della vita democratica di un partito politico che si candidata a guidare un Paese e disegnarne l’identità, stiamo cercando di fare in Italia con la nuova esperienza del Partito Democratico.
In questo partito confluiscono identità e culture diverse per tradizione storica, politica, religiosa e sociale.
Un’esperienza che va proprio nella direzione della mescolanza e della multiculturalità, che noi vogliamo proiettare nella fisionomia e organizzazione dell'intero Paese.
In Europa, l’interculturalità costituisce una sfida difficile, allo stesso tempo naturale e obbligata.
Si tratta di gestire molte e importanti diversità che dovranno convivere in modo armonioso all’interno di un destino comune, all’interno di una identità che concili non solo le differenze del Vecchio Continente, ma che sappia integrare anche le componenti extraeuropee nell’ambito dei valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.
Tutto ciò implica aspetti positivi e negativi: lo sforzo deve essere quello di valorizzare quelli positivi e minimizzare quelli negativi, guardando al futuro e alle prossime generazioni, poiché è chiaro a tutti che parliamo di questioni che si protrarranno per molte generazioni a venire.
Per l’Europa è dunque indispensabile assecondare la molteplicità delle espressioni culturali, così com’è vitale sancire l'universalità dei valori essenziali, quelli appunto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
La stessa anima dell’Europa pensata a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale è quella che si riconosce in questi valori.
Valori che hanno consentito più di mezzo secolo di pace e di integrazione, oltre che di espansione e unione territoriale, economica e monetaria basate sulla libera e volontaria adesione piuttosto che sulla conquista e il predominio.
Una Unione, quella europea, nata e ingranditasi contro le guerre e per la pace, nella diversità e integrazione, contro le esperienze totalizzanti, il razzismo e l’antisemitismo e nell’ottica di un multipolarismo globale basato sulla competizione economica e la solidarietà sociale.
Un quadro di valori che non rientra, però, nel relativismo culturale, ma che mira a difendere e consolidare la "dignità di ogni essere umano, uomo, donna o bambino, salvaguardarne l'integrità fisica e morale, impedire il deterioramento del suo ambiente naturale, rifiutare ogni umiliazione e ogni discriminazione abusiva legata al colore, alla religione, alla lingua, all’origine etnica, al sesso, all’età, alla disabilità".
Dunque un’idea di Europa fondata sull’universalità di valori comuni e condivisi e la diversità delle espressioni culturali.
Fino a quando il mondo era quello degli Stati nazione i confini erano netti, anche sul piano culturale e geografico.
Erano possibili distinzioni categoriche tra diverse civiltà e culture, poteva funzionare anche il modello di una pluralità di etiche diverse e distinte.
Il mondo contemporaneo – e l’11 settembre 2001 ce lo ha dimostrato ancor di più – fatto di interdipendenza, permeabilità delle civiltà nel loro reciproco interagire, ci obbliga a una riflessione nuova e alta sull’etica, sulla governance locale e globale che regola il vivere dell’Umanità e l’esistenza individuale, sul problema dei rapporti fra culture diverse.
Quindi la prospettiva deve essere quella della pace, a cui occorre tendere nella riflessione filosofico-politica.
Una pace da perseguire attraverso il dialogo interculturale, il solo in grado di evitare il pericolo dello scontro fra civiltà.
Un dialogo che conduca a una multiculturalità che mette tutti nelle condizioni di conoscenza tali da poter indurre scelte coscienti e ragionate.
Che permetta a tutti di essere pienamente liberi culturalmente.
Se così non fosse, se si trattasse solo di diffondere tolleranza culturale, ci ritroveremmo sempre alle porte casi come quello inglese del 2005, di alienazione di giovani figli di immigrati che si danno al terrorismo.
O casi come quelli delle rivolte delle Banlieu francesci, sempre del 2005.
Si tratterebbe, quindi, di riproposizione di quel modello che Amartya Sen definisce "monoculturalismo plurale".
La giusta strada, invece, come dicevo va individuata in una riflessione pacifista e interculturale che occorre declinare anche nella pratica educativo-formativa, su scala globale e verso le nuove generazioni.Viene naturale che su questi argomenti possa dunque esservi un confronto non semplice fra etiche diverse a livello mondiale.
Per questo lo sforzo oggi si concentra nel provare a costruire quell’"etica razionale universale", il cui massimo teorico è Habermas, che vuole essere un tentativo per costruire una relazione di dialogo e confronto interculturale, il cui fine ultimo sia proprio la pace globale quale soluzione del processo etico-storico.
In questo contesto, nell’ambito dell’Anno europeo del dialogo interculturale, penso sia giusto accogliere l’invito che Asma Jahangir, relatrice dell’ONU sulla libertà di religione e di credo, ha fatto al Parlamento europeo.
Un appello affinché "il dialogo interculturale sia inteso in senso ampio, e comprenda le prospettive religiose e laiche, includa un dialogo a tutti i livelli, si opponga a ogni incriminazione per diffamazione delle religioni" e coinvolga nel dialogo interreligioso anche i "non deisti" e gli atei, poiché è fondamentale "che i governi e la società civile abbiano un ruolo da svolgere nella creazione di un ambiente in cui le persone di diverse religioni e diverso credo possano interagire senza sforzi".
E’ normale che, nella dialettica vi sia chi vuole dimostrare che la propria cultura, religione o lingua è superiore a quella degli altri.
Eppure le religioni offrono anche spunti per condividere valori morali che consentirebbero una comprensione comune e il rispetto reciproco: esempi del genere vi sono persino in Israele, in Palestina e in Irlanda del Nord, seppure raramente evidenziati dai media, che preferiscono puntare sul sensazionalismo delle violenze interreligiose.
Un altro punto fondamentale nel dialogo interculturale e interreligioso è il punto di vista delle donne, quasi sempre marginalizzato, invece, nel dibattito su questi temi.
Così come sarebbe utile ascoltare chi, pur condividendo la stessa fede, ha opinioni e visioni diverse, o gli artisti, i quali meglio degli altri hanno sempre dato prova di saper creare ponti, mescolanze, contaminazioni tra diverse culture.
Nel contesto globale delle differenze economiche, etniche, religiose e culturali, della mescolanza, dell’interculturalità e della pace, la storia del Mediterraneo non può essere scissa da quella dell'Europa e assume una importanza strategica per l’intero pianeta e vitale per il Vecchio Continente e per le sue relazioni con i Paesi che si affacciano su questo Mare Nostrum.
E’ in quest’area infatti che si concentrano le problematiche più calde del pianeta:
questione israeliano-palestinese, conflitto tra le tre religioni monoteiste che sono state all’origine di civilizzazioni e culture millenarie, lotta alle criminalità organizzate, flusso di grandi migrazioni e importanti commerci.
Quest’area è oggi più che mai la porta tra il Nord e il Sud del Pianeta, tra l'Oriente e l'Occidente.
È qualcosa che va molto al di là della semplice strada o frontiera per l'Europa.
È una regione la cui stabilità è divenuta essenziale sia per la sicurezza e prosperità dell’Europa che per quella di tutti i Pasesi dell’Area nord-africana e mediorientali, come dell’intero pianeta.
A che cosa, dunque, la politica – e quella italiana ed europea soprattutto – deve guardare per promuovere la pace mondiale attraverso il principale snodo del dialogo interculturale?
A mio avviso alla cooperazione, avvicinandola il più possibile ai cittadini, attraverso alcuni obiettivi fondamentali che per me sono quelli indicati dal "Processus di Barcellona".
Un processus che va sostenuto e rilanciato, dopo la sua crisi, soprattutto in quegli aspetti che mirano al rafforzamento del livello politico delle relazioni dell’UE con i Paesi del Mediterraneo;
alla divisione delle responsabilità nelle relazioni multilaterali;
alla promozione di progetti regionali concreti utili ai cittadini;
al coinvolgimento del settore privato;
al multilinguismo.
Ad essi andrebbero aggiunti la realizzazione di progetti concreti tendenti a rendere operativa una "solidarietà dei fatti", come la chiamava Robert Schuman, incontri periodici dei capi di Stato e di Governo dei paesi del Mediterraneo che rafforzino il ruolo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea.
Se tutte queste cose le sapremo fare, se la multiculturalità sapremo tradurla in un modo di essere quotidiano e strumento pedagogico, sono certo che consegneremo alle future generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo alle spalle e di quello in cui viviamo oggi.
Un modo più ricco, non solo economcamente, più misto e più bello.
Grazie per l'attenzione e buon lavoro a tutti".
E' stata anche l'occasione per rivedere Manuelita Scigliano, una brillante ragazza del mio paese.
Manuelita, che nei giorni scorsi ha presieduto uno dei dibattiti in programma e che vive e lavora nella città nordafricana, è riuscita a trovare anche il tempo di farmi godere un po' di Tunisi: venerdì notte mi ha portato, insieme ad altri amici e amiche, in un bellissimo e panoramico locale sul mare nel quale, nella quiete della notte tunisina, tra una chiacchierata e l'altra, seduti su bellissimi tappeti mediorentali, abbiamo bevuto l'ottimo thè ai pinoli e menta e fumato in compagnia il narghilè. Il mondo mi è sembrato, come non mi succedeva da parecchio tempo, a misura d'uomo, lento, tranquillo e civile. Peccato solo non aver potuto comprare proprio uno di quei grandi narghilè da portare nella mia oasi a Zifarelli, dove il mondo è sempre a misura d'uomo.
Sabato, poi, è stata la volta del convegno. Io ho detto le cose che seguono.
"Gli studi antropologici ci insegnano che l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra in Africa.
Da li ha cominciato subito e pian piano a muoversi e viaggiare, fino ad attraversare lo Stretto di Bering e ridiscendere l’intero continente americano fino alle Ande, in America del Sud.
In tutte le ere geologiche e storiche, i nostri antenati hanno continuato a spostarsi, portandosi dietro il proprio bagaglio di conoscenze, piccole o grandi che fossero, di abitudini, buone o cattive che le si interpreti, di culture, primitive o progredite.
Questi nomadi, primitivi, moderni e contemporanei, si sono incontrati e scontrati sulla base di un’appartenenza e per il possesso di un territorio o per l’imposizione di un’identità e di una cultura sull'altra, generando morte e distruzione: basti pensare all'affermazione latina "Cartago deleda est", tanto per rimanere ai casi a noi più prossimi culturalmente.
La storia dell’umanità è segnata da guerre per il predominio dell’uomo sull’uomo, di una civiltà su un’altra, di una religione sull’altra, di una cultura sull’altra, di una identità sull’altra.
La storia del mondo, come lo abbiamo conosciuto fino a poco tempo fa, fino al superamento degli stati nazione, poggiava su divisioni di carattere locale basate sul valore e sul concetto di identità e di cittadinanza.
Proprio nel concetto di identità rientrava il sentimento dell’appartenenza, basato sull’etnia, sulla religione, sugli stili di vita, sulla permanenza in un luogo geografico ben definito e sul percorso storico privato e collettivo che ci si portava dietro.
Da questa identità-appartenenza, poi, derivava il concetto e il diritto di cittadinanza, che determinava il confine tra chi stava dentro e chi fuori, tra l’uguale e il diverso, fino all’estremo dell’incluso e l’escluso, dell'amico e nemico.
Con l’avanzare delle nuove tecnologie che hanno potenziato, migliorato e ingigantito il sistema delle comunicazioni e dei trasporti, il mondo è diventato quel villaggio globale di cui molto si parla.
Il Pianeta è oggi più piccolo, più veloce, più eterogeneo.
Le distanze si sono ridotte, è cambiata la geografia delle comunicazioni, la filosofia e la scienza politica, lo stesso concetto dello stare insieme e il sistema di valori e di riferimenti.
Se dovessi provare a caratterizzare questo nuovo mondo e la sua civiltà con un unico aggettivo dovrei certamente dire che viviamo in una realtà "complessa", come l’ha definita Edgar Morin.
Con la categoria della "complessità", infatti, possiamo dare un valore e un significato a tutto l’insieme di trasformazioni, problemi, spesso drammi che connotano la nostra contemporaneità.
Spaziando dalla globalizzazione economica e gli squilibri sociali che essa, per sua natura, genera.
Alle nuove e grandi migrazioni, ai problemi di carattere energetico e al pericolo militare e terroristico globale.
Per interpretare e governare questa realtà molteplice e "complessa", dunque, serve un pensiero che sia a sua volta "complesso", un apparato valoriale e culturale di riferimento, un’etica condivisa.
E a mio avviso questa etica, per la politica che è chiamata a governare i grandi processi, non può che essere laica, di una laicità intesa come metodo di analisi della realtà e dei suoi fenomeni e non, banalmente, come contrapposizione a religioso.
Attraverso una lettura laica dei fenomeni – tutti i fenomeni, anche quelli non religiosi – il tema dell’etica deve essere declinato al dialogo interculturale, alla pace globale in un mondo oggi a serio rischio di distruzione e in cui è divenuta esigenza vitale l’individuazione di obiettivi comuni e condivisi di costruzione del futuro.
In questa complessità, poi, anche il concetto valoriale dell’identità, come l’ho poc'anzi descritto, sta mutando, e deve continuare a mutare.
Non più un’identità fondata sull’appartenenza dunque, ma sulla condivisione.
Quindi un’identità che poggi non più solo su uno sguardo rivolto al passato, a ciò che siamo stati, bensì al futuro, e che parta dal capire ciò che ci accomuna, che scegliamo di condividere per individuare il percorso che vogliamo fare insieme e il traguardo che vogliamo raggiungere.
Che è poi il sentimento che spinge l’UE nel costruire l’identità europea, per la quale uno sguardo rivolto al passato finirebbe per accentuare gli elementi di divisione, piuttosto che quelli di unità.
E’ necessario, quindi, mettere insieme la ricchezza e la pluralità delle identità
verso obiettivi comuni e scelte condivise: cosa che, per quanto ci riguarda nel nostro piccolo e nell’ambito della vita democratica di un partito politico che si candidata a guidare un Paese e disegnarne l’identità, stiamo cercando di fare in Italia con la nuova esperienza del Partito Democratico.
In questo partito confluiscono identità e culture diverse per tradizione storica, politica, religiosa e sociale.
Un’esperienza che va proprio nella direzione della mescolanza e della multiculturalità, che noi vogliamo proiettare nella fisionomia e organizzazione dell'intero Paese.
In Europa, l’interculturalità costituisce una sfida difficile, allo stesso tempo naturale e obbligata.
Si tratta di gestire molte e importanti diversità che dovranno convivere in modo armonioso all’interno di un destino comune, all’interno di una identità che concili non solo le differenze del Vecchio Continente, ma che sappia integrare anche le componenti extraeuropee nell’ambito dei valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.
Tutto ciò implica aspetti positivi e negativi: lo sforzo deve essere quello di valorizzare quelli positivi e minimizzare quelli negativi, guardando al futuro e alle prossime generazioni, poiché è chiaro a tutti che parliamo di questioni che si protrarranno per molte generazioni a venire.
Per l’Europa è dunque indispensabile assecondare la molteplicità delle espressioni culturali, così com’è vitale sancire l'universalità dei valori essenziali, quelli appunto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
La stessa anima dell’Europa pensata a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale è quella che si riconosce in questi valori.
Valori che hanno consentito più di mezzo secolo di pace e di integrazione, oltre che di espansione e unione territoriale, economica e monetaria basate sulla libera e volontaria adesione piuttosto che sulla conquista e il predominio.
Una Unione, quella europea, nata e ingranditasi contro le guerre e per la pace, nella diversità e integrazione, contro le esperienze totalizzanti, il razzismo e l’antisemitismo e nell’ottica di un multipolarismo globale basato sulla competizione economica e la solidarietà sociale.
Un quadro di valori che non rientra, però, nel relativismo culturale, ma che mira a difendere e consolidare la "dignità di ogni essere umano, uomo, donna o bambino, salvaguardarne l'integrità fisica e morale, impedire il deterioramento del suo ambiente naturale, rifiutare ogni umiliazione e ogni discriminazione abusiva legata al colore, alla religione, alla lingua, all’origine etnica, al sesso, all’età, alla disabilità".
Dunque un’idea di Europa fondata sull’universalità di valori comuni e condivisi e la diversità delle espressioni culturali.
Fino a quando il mondo era quello degli Stati nazione i confini erano netti, anche sul piano culturale e geografico.
Erano possibili distinzioni categoriche tra diverse civiltà e culture, poteva funzionare anche il modello di una pluralità di etiche diverse e distinte.
Il mondo contemporaneo – e l’11 settembre 2001 ce lo ha dimostrato ancor di più – fatto di interdipendenza, permeabilità delle civiltà nel loro reciproco interagire, ci obbliga a una riflessione nuova e alta sull’etica, sulla governance locale e globale che regola il vivere dell’Umanità e l’esistenza individuale, sul problema dei rapporti fra culture diverse.
Quindi la prospettiva deve essere quella della pace, a cui occorre tendere nella riflessione filosofico-politica.
Una pace da perseguire attraverso il dialogo interculturale, il solo in grado di evitare il pericolo dello scontro fra civiltà.
Un dialogo che conduca a una multiculturalità che mette tutti nelle condizioni di conoscenza tali da poter indurre scelte coscienti e ragionate.
Che permetta a tutti di essere pienamente liberi culturalmente.
Se così non fosse, se si trattasse solo di diffondere tolleranza culturale, ci ritroveremmo sempre alle porte casi come quello inglese del 2005, di alienazione di giovani figli di immigrati che si danno al terrorismo.
O casi come quelli delle rivolte delle Banlieu francesci, sempre del 2005.
Si tratterebbe, quindi, di riproposizione di quel modello che Amartya Sen definisce "monoculturalismo plurale".
La giusta strada, invece, come dicevo va individuata in una riflessione pacifista e interculturale che occorre declinare anche nella pratica educativo-formativa, su scala globale e verso le nuove generazioni.Viene naturale che su questi argomenti possa dunque esservi un confronto non semplice fra etiche diverse a livello mondiale.
Per questo lo sforzo oggi si concentra nel provare a costruire quell’"etica razionale universale", il cui massimo teorico è Habermas, che vuole essere un tentativo per costruire una relazione di dialogo e confronto interculturale, il cui fine ultimo sia proprio la pace globale quale soluzione del processo etico-storico.
In questo contesto, nell’ambito dell’Anno europeo del dialogo interculturale, penso sia giusto accogliere l’invito che Asma Jahangir, relatrice dell’ONU sulla libertà di religione e di credo, ha fatto al Parlamento europeo.
Un appello affinché "il dialogo interculturale sia inteso in senso ampio, e comprenda le prospettive religiose e laiche, includa un dialogo a tutti i livelli, si opponga a ogni incriminazione per diffamazione delle religioni" e coinvolga nel dialogo interreligioso anche i "non deisti" e gli atei, poiché è fondamentale "che i governi e la società civile abbiano un ruolo da svolgere nella creazione di un ambiente in cui le persone di diverse religioni e diverso credo possano interagire senza sforzi".
E’ normale che, nella dialettica vi sia chi vuole dimostrare che la propria cultura, religione o lingua è superiore a quella degli altri.
Eppure le religioni offrono anche spunti per condividere valori morali che consentirebbero una comprensione comune e il rispetto reciproco: esempi del genere vi sono persino in Israele, in Palestina e in Irlanda del Nord, seppure raramente evidenziati dai media, che preferiscono puntare sul sensazionalismo delle violenze interreligiose.
Un altro punto fondamentale nel dialogo interculturale e interreligioso è il punto di vista delle donne, quasi sempre marginalizzato, invece, nel dibattito su questi temi.
Così come sarebbe utile ascoltare chi, pur condividendo la stessa fede, ha opinioni e visioni diverse, o gli artisti, i quali meglio degli altri hanno sempre dato prova di saper creare ponti, mescolanze, contaminazioni tra diverse culture.
Nel contesto globale delle differenze economiche, etniche, religiose e culturali, della mescolanza, dell’interculturalità e della pace, la storia del Mediterraneo non può essere scissa da quella dell'Europa e assume una importanza strategica per l’intero pianeta e vitale per il Vecchio Continente e per le sue relazioni con i Paesi che si affacciano su questo Mare Nostrum.
E’ in quest’area infatti che si concentrano le problematiche più calde del pianeta:
questione israeliano-palestinese, conflitto tra le tre religioni monoteiste che sono state all’origine di civilizzazioni e culture millenarie, lotta alle criminalità organizzate, flusso di grandi migrazioni e importanti commerci.
Quest’area è oggi più che mai la porta tra il Nord e il Sud del Pianeta, tra l'Oriente e l'Occidente.
È qualcosa che va molto al di là della semplice strada o frontiera per l'Europa.
È una regione la cui stabilità è divenuta essenziale sia per la sicurezza e prosperità dell’Europa che per quella di tutti i Pasesi dell’Area nord-africana e mediorientali, come dell’intero pianeta.
A che cosa, dunque, la politica – e quella italiana ed europea soprattutto – deve guardare per promuovere la pace mondiale attraverso il principale snodo del dialogo interculturale?
A mio avviso alla cooperazione, avvicinandola il più possibile ai cittadini, attraverso alcuni obiettivi fondamentali che per me sono quelli indicati dal "Processus di Barcellona".
Un processus che va sostenuto e rilanciato, dopo la sua crisi, soprattutto in quegli aspetti che mirano al rafforzamento del livello politico delle relazioni dell’UE con i Paesi del Mediterraneo;
alla divisione delle responsabilità nelle relazioni multilaterali;
alla promozione di progetti regionali concreti utili ai cittadini;
al coinvolgimento del settore privato;
al multilinguismo.
Ad essi andrebbero aggiunti la realizzazione di progetti concreti tendenti a rendere operativa una "solidarietà dei fatti", come la chiamava Robert Schuman, incontri periodici dei capi di Stato e di Governo dei paesi del Mediterraneo che rafforzino il ruolo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea.
Se tutte queste cose le sapremo fare, se la multiculturalità sapremo tradurla in un modo di essere quotidiano e strumento pedagogico, sono certo che consegneremo alle future generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo alle spalle e di quello in cui viviamo oggi.
Un modo più ricco, non solo economcamente, più misto e più bello.
Grazie per l'attenzione e buon lavoro a tutti".
martedì 10 giugno 2008
Rischiamo il fallimento di un progetto alto e ambizioso
Ammetto che sono preoccupato. Preoccupato per quello che si sta muovendo e per gli effetti negativi che potrebbero ricadere sul Partito Democratico: rischiamo il fallimento o il ridimensionamento di un progetto molto ambizioso.
Oggi inizia a Napoli il tradizionale appuntamento annuale di incontro, confronto e riflessione sui principali dossier all’attenzione delle istituzioni comunitarie, organizzato dal PSE e dal suo Gruppo Parlamentare. Secondo Gianni Pittella, Presidente della delegazione italiana al PSE, "e' stata scelta l’Italia per la sua lunga tradizione europeista, per il suo impegno profuso nel corso degli anni per la costruzione dell'Europa e per conoscere da vicino il senso della novità politica maturata nel campo riformista con la nascita del PD. E' nostra intenzione approfondire forme di cooperazione e discussione con questa nuova forza politica - dice Pittella - oltre che con le altre componenti nazionali storicamente già legate all’esperienza del socialismo europeo".
In questo contesto esce oggi, invece, sul Corriere della sera, un'intervista a Francesco Rutelli in cui sostanzialmente dice che è impensabile una confluenza del PD nel PSE o nell'Internazionale Socialista: un vero colpo basso alla delicata discussione che con grande equilibrio, apertura e attenzione si sta facendo da lungo tempo sulla collocazione internazionale del PD tra noi e i vertici del PSE.
A questa intervista, poi, io collego anche l'editoriale non firmato di ieri su Famiglia Cristiana (Il peccato originale di un partito fantasma), nel quale si invita Veltroni a mettere alla porta i Radicali di Pannella e Bonino e si ipotizza una scissione nel PD: la tesi è che i cattolici siano stati stritolati e rischiano di finire in una riserva a fare solo testimonianza. Per questo una consistente pattuglia, guidata da Carra e Binetti, sarebbe pronta a lasciare il porto del PD per approdare nel PDL. Una scelta, questa, che riprodurrebbe il cammino già fatto nelle recenti elezioni dagli elettori cattolici, che in quanto cattolici, appunto, avrebbero votato per il PDL, non riconoscendosi in un PD senza identità in cui convivono il diavolo e l'acqua santa: cattolici e integralisti laici spinti.
A questo proposito, invece, a me le cose non paiono affatto così. Gli elettori cattolici non sembrano affatto spaventati dal PD, anzi. E vorrei citare a proposito l'illuminante studio sul voto cattolico segnalatomi dal sempre preziosissimo Professor Stefano Ceccanti, Senatore cattolico proveniente dalla FUCI. In questa rilevazione mi colpiscono due cose:
in primo luogo il dato su come ha votato il segmento dei praticanti regolari, che sono il 31% dei cittadini. Ad una messa tipo, in una parrocchia media, su 100 partecipanti 44 hanno votato per il PDL, 35 per il PD, 7 per la Lega, 6 per l'UDC, 3 per l'IDV e il restante per gli altri.
I praticanti, dunque, sono assolutamente bipolaristi. E d'altronde fu già Giovanni Paolo II a dirci che l'unità politica dei cattolici era da considerarsi finita;
in secondo luogo il fatto che l'UDC non rappresenta un'attrazione particolare per i centristi né per i cattolici. Infatti il partito di Casini è sotto alla Lega e le nostalgie per lo scudo crociato tra i praticanti cattolici non esistono, al contrario di quanto affermavano molte analisi dei mesi scorsi, secondo le quali la Chiesa sponsorizzava il leader centrista ed equidistante dai poli: cosa che avrebbe dovuto far confluire sull'UDC il voto dei cattolici praticanti.
Dico tutto ciò in maniera quasi scomposta perché, in previsione delle prossime elezioni europee, il PD corre molti rischi, alla base dei quali mi pare ci sia, sopravvalutata, una errata questione cattolica:
non abbiamo ancora definito con chiarezza quale sia o quale dovrà essere, in un partito che è e deve essere plurale, la nostra identità e la nostra collocazione in campo europeo;
rischiamo di trovarci, dopo il voto alle europee, con una parte del PD nel PSE e un'altra in altri gruppi o, in una ipotesi sciagurata, tutti nel gruppo misto;
addirittura rischiamo di arrivare a questo voto con una parte di cattolici che ha lasciato il PD;
e rischiamo di perdere, in conseguenza del sistema di voto proporzionale, il voto di quella parte di Sinistra italiana che ci aveva votato solo per contrastare Berlusconi (il così detto voto utile) e di finire al di sotto del 30%, poiché alle europee questi voterebbero per la Sinistra radicale.
In questo caso non avremmo realizzato quella sintesi alta tra culture politiche diverse, non avremmo disegnato una nuova, moderna e innovativa identità politico-culturale, non avremmo trovato una partnership internazionale credibile e in grado di metterci nelle condizioni di contare in Europa e, ultimo, non avremmo nemmeno raggiunto un mero (seppur effimero) risultato elettorale apprezzabile.
Non credo che la Sinistra, o il centrosinistra, abbiano bisogno di un fallimento di questo tipo. Non servirebbe, anzi sarebbe dannoso, sia all'intera politica italiana ed europea che all'l'Italia tutta.
martedì 3 giugno 2008
La Repubblica di Rino. Non la reggo più?
Ieri ricadeva il ventisettesimo anniversario della morte di Rino Gaetano. Una data beffarda per morire come è morto il dissacrante cantautore crotonese. Il due giugno è infatti la festa della Repubblica. Quella Repubblica che Rino spesso cantava nelle sue contraddizioni, nei suoi vizi, nelle sue inefficienze, nei suoi limiti. Tanti limiti...
Rino cantava una Repubblica a due velocità: quella del Nord industrializzato e ricco e quella del Sud contadino e povero dal quale partivano ogni anno migliaia di emigranti, quelli delle sue canzoni appunto (Agapito Malteni il ferroviere).
Una Repubblica nella quale c'era chi si arricchiva costruendo ospedali (Ok papà) e un'altra nella quale si moriva perché negli ospedali non c'era posto (La ballata di Renzo).
Esattamente com'è successo a lui, vittima di un incidente stradale e rifiutato, in condizioni gravi, in ben cinque ospedali, cinque, della capitale perché non c'era una sala operatoria pronta a ospitarlo. Ironia della sorte ciò che scriveva dieci anni prima in una canzone mai pubblicata...
Una Repubblica inamovibile, statica, priva di ricambio, perché le solite facce e i soliti nomi stanno sempre là, fermi, a fare la storia piccola e grande del Paese.
Una Repubblica nella quale, nonostante il passare degli anni, il cambiare delle circostanze, l'avvicendaresi delle generazioni, il mutare delle situazioni politiche, i problemi del Paese restano sempre uguali a se stessi.
Una Repubblica nella quale lo stesso grido di rivolta allo status quo è, in effetti, uno sbadiglio di noia.
Basta ascoltare uno dei suoi brani più indicativi, in questo senso, per capire come la nostra Repubblica stia ferma, con le sue facce e i suoi vizi, la sua incapacità a ribellarsi davvero.
Basta ascoltare come Rino Gaetano, già negli anni Settanta, gridava di non farcela più. Eppure, di anni ne sono passati ventisette, ma la nostra Repubblica è, per molti versi, ancora quella.
E ancora oggi, spesso, mi viene in mente quell'attualissima, dissacrante e ironica canzone che ascolto anche su youtube cliccando su: Nuntereggaepiù
Abbasso e alè/ abbasso e alè/ abbasso e alè con le canzoni/ senza fatti e soluzioni/ la castità/ la verginità/ la sposa in bianco, il maschio forte/ i ministri puliti i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ NUNTEREGGAEPIU'/ Eya alalà/ pci psi/ dc dc/ pci psi pli pri dc dc dc dc/ Cazzaniga/ avvocato Agnelli, Umberto Agnelli/ Susanna Agnelli, Monti, Pirelli/ dribbla Causio che passa a Tardelli/ Musiello, Antognoni, Zaccarelli/ Gianni Brera/ Bearzot/ Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio/ Lauda, Thoeni Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno/ Villaggio, Raffà, Guccini/ onorevole eccellenza, cavaliere senatore/ nobildonna, eminenza, monsignore/ vossia cherie, mon amour/ NUNTEREGGAEPIU'/ Immunità parlamentare/ abbasso e alè/ il numero 5 sta in panchina/ s'è alzato male stamattina/ mi sia consentito dire/ il nostro è un partito serio/ disponibile al confronto/ nella misura in cui/ alternativo/ aliena ogni compromess, ahi lo stress/ Freud e il sess/ è tutto un cess/ ci sarà la ress/ se quest'estate andremo al mare/ solo i soldi e tanto amore/ e vivremo nel terrore, che ci rubino l'argenteria/ è più prosa che poesia/ NUNTEREGGAEPIU'/ Ue paisà/ il bricolage/ il quindicidiciotto/ il prosciutto cotto/ il quarantotto/ il sessantotto/ le pitrentotto/ sulla spiaggia di Capocotta/ Cartier Cardin Gucci/ portobello e illusioni/ lotteria a trecento milioni/ mentre il popolo si gratta/ a dama c'è chi fa la patta/ a settemezzo c'ho la matta/ mentre vedo tanta gente/ che non c'ha l'acqua corrente e non c'ha niente/ ma chi me sente... ma chi me sente/ e allora amore mio ti amo/ che bella sei/ vali per sei/ ci giurerei/ ma è meglio lei/ che bella sei/ che bella lei/ vale per sei/ ci giurerei/ sei meglio tu/ che bella sei/ NUNTEREGGAEPIU'
domenica 25 maggio 2008
A Berlino per analisi del voto e Statuto
Oggi sono in Germania, alla Willy Brandt House di Berlino, per un seminario sull'analisi del voto, con particolare riferimento a quello in Europa e in Germania.
Di seguito la mia relazione introduttiva.
Cari amici e compagni,
mi fa davvero molto piacere essere qui oggi, in Germania, dove non venivo ormai da moltissimo tempo, cioè da prima che si avviasse il percorso costituente del Partito Democratico: un’altra era politica dunque.
Tornarci oggi, quindi, fa un certo effetto, poiché ci troviamo con un altro partito, un’altra situazione politica e un altro Governo.
Anche la platea che mi trovo davanti è molto diversa da allora.
L’ultima volta che sono stato in Germania c’erano ancora DS e Margherita, c’era da poco il Governo de L’Unione e la Germania non aveva eletti in Parlamento.
Oggi c’è il Partito Democratico, purtroppo c’è il Governo della Destra, ma almeno avete un eletto della Germania.
Per questa prima parte della giornata è stato chiesto a me di fare una relazione sui risultati del recente voto politico, probabilmente perché negli ultimi mesi, tra Gruppo ristretto per lo Statuto, seminari e campagna elettorale, non ho fatto altro che relazioni.
Il compito, naturalmente, non è dei più semplici, poiché analizzare il voto è sempre cosa ardua.
In Italia, tra l’altro, non è stata ancora fatta una discussione approfondita all'interno del partito su quanto è accaduto.
E questo limita enormemente la mia analisi generale.
Per questo cercherò di dare una lettura di quanto successo più circoscritta possibile, con maggiore attenzione proprio al dato tedesco.
Prima del 14 aprile immaginavamo tutti una probabile sconfitta. Ma nessuno avrebbe immaginato un distacco di nove punti, soprattutto al Senato.
La Destra ha ottenuto il 46% dei consensi degli italiani contro il nostro 37%: ben nove punti in più.
Il solo PDL ha raggiunto il 38% contro il nostro 33%: ben cinque punti in più.
In questo pessimo risultato, però, dobbiamo saper vedere anche il molto che c’è di buono.
A parte la semplificazione di tutta la vita politica e democratica italiana, merito esclusivo del PD, c’è anche il grande risultato di aver raccolto intorno al nostro progetto il consenso di un italiano su tre.
Così come c’è il coraggio che abbiamo avuto nel proporre un modello di discontinuità, la scelta dell’innovazione e del riformismo, insieme a quella di costruire un partito plurale, aperto e radicato nei territori.
Ora bisogna, però, che quelli che fin qui sono stati progetti, premesse e ambizioni, d’ora in avanti divengano realtà, a cominciare dalla sintesi delle diverse culture che formano il Partito Democratico e dal suo radicamento tra i cittadini.
Se non sapremo fare davvero bene tutto ciò, questo nostro grande progetto potrà fallire.
Perché esso non fallisca, dunque, dobbiamo partire dal fare tesoro dall’esperienza di quanto è stato, dalla nostra capacità di dialogo e dall’abitudine all’agire democratico di un partito e dei suoi militanti.
Fino a oggi, invece, troppo spesso, in Italia e in alcuni casi all’estero, abbiamo visto di più la concorrenza tra gruppettini del PD – permettetemi di dirlo – che tra progettualità e visioni diverse dell’identità e strategia politica del partito.
E tutto ciò non è un buon segnale in un partito che del rifiuto delle correnti e nella sintesi delle diverse culture ha fatto un suo punto di forza nell’atto fondativo.
Abbiamo perso – anche se all’estero non è così – quindi ci conviene sviscerare fino in fondo i ragionamenti sul perché e riflettere bene sui risultati, cercando di fare un tutt’uno di strategia, identità e cultura politica.
Lo stesso segretario Veltroni ha insistito qualche settimana fa sull’importanza della lettura del voto dopo una sconfitta.
E la mia lettura del voto, come spero la vostra, non deve essere fatta con lo spirito di chi cerca conferme a ciò che pensava prima del voto, qualsiasi cosa pensasse.
La lettura deve servire a distinguere tra ciò che di positivo è uscito dalle urne e i limiti che esse ci hanno evidenziato e che dobbiamo superare nel futuro.
Noi abbiamo certamente pagato il debito dell’impopolarità della precedente maggioranza politica de L’Unione, che io però distinguo dal Governo, che a mio avviso ha ben operato.
Questa impopolarità ci assegnava una sconfitta certa e pesante, anche se in campagna elettorale abbiamo molto recuperato in termini di consenso.
Forse tutto il possibile, insieme a una parte di voti provenienti da altre forze politiche della Sinistra, spinta dall’esigenza di dare un "voto utile" contro la Destra, e dall’astensionismo critico, quello del ceto medio riflessivo o quello di Sinistra.
Ma questo consenso non è acquisito una volta per sempre. Esso può sparire già alle prossime elezioni europee, alle quali non funzionerà il meccanismo del "voto utile".
Quell’area di elettorato gravitante intorno alla Sinistra radicale, infatti, oggi non più rappresentata in Parlamento, domani tornerà a votare alle europee non più contro Berlusconi, ma per una rappresentanza in cui si riconosce di più di quanto non si riconosca nel Partito Democratico.
E allora tutto ciò che fin qui ho detto esserci stato di positivo, tanto da portarci al 33% dei consensi, domani semplicemente non ci sarà più.
Nel 2009 rischieremmo di ritrovarci sotto la soglia del 30%, ancora meno di quanto ottenemmo alle passate elezioni europee, quando la lista Uniti nell’Ulivo raggiunse poco più del 31% dei consensi.
Che fare, dunque, per evitare che ciò accada.
E soprattutto che fare per evitare che ciò accada all’estero.
Prima di tentare di dare una risposta, penso sia utile provare ad analizzare proprio il risultato estero.
Va innanzitutto detto che, per quello che ci riguarda, il voto nella nostra Circoscrizione è stato ben diverso da quello italiano.
Nel complesso della Circoscrizione estero il Partito Democratico vince le elezioni, ottenendo nove parlamentari su diciotto, contro i sette del PDL e i due indipendenti.
Da solo vince alla Camera con circa un punto in più e perde al Senato con circa un punto in meno in termini percentuali.
Insieme all’IDV vince bene in entrambi i rami del Parlamento.
In questo quadro, però, è da sottolineare che il risultato del Partito Democratico all’estero è in linea con quello in Italia, intorno al 33%.
Quello del PDL, invece, è di quattro punti in meno all’estero rispetto che all’Italia (33% all’estero contro 38% in Italia) e di addirittura sei alla Camera (31% all’estero contro 37% in Italia).
Segno, dunque, che l’appeal generale della Destra fuori dai confini nazionali si riduce di molto.
Se poi guardiamo alla sola Europa, il dato non può che migliorare per noi.
In questa ripartizione, infatti, il Partito Democratico ottiene il 40% dei consensi alla Camera contro il 33% del PDL.
Sette punti in più: quasi il rovescio di ciò che succede in Italia.
Che in termini di voti assoluti significa 204.393 voti del PD contro i 171.658 del PDL.
Circa 33.000 voti in più, pari al totale di quelli che nel 2006 ottenne in più L’Unione in Italia per vincere le elezioni, ma su un numero di elettori di molti milioni in più rispetto a noi.
Analizzando, inoltre, il dettaglio di questi dati, nazione per nazione, vediamo che il Partito Democratico vince molto bene in quasi tutti i Paesi in cui è più consistente la presenza italiana, più forte il comune sentire democratico, e dove vi è almeno una qualche forma di organizzazione e presenza del Partito.
Vediamo che in Belgio, in entrambi i rami del Parlamento, il PD ottiene 15 punti percentuali in più del PDL.
In Francia 16 punti in più alla Camera e 15 al Senato.
In Lussemburgo 28 punti in più alla Camera e 22 al Senato.
In Olanda 16 punti in più in entrambi i rami.
In Svizzera 17 punti in più in entrambi i rami.
In Spagna, dove però la nostra presenza organizzata è minima, un solo punto in più in entrambi i rami.
Unica eccezione negativa, è purtroppo proprio la Germania, dove il Partito Democratico ottiene ben 10 punti in meno rispetto al PDL, e in entrambi i rami del Parlamento.
Un risultato tanto più preoccupante se paragonato alla situazione del 2006 e agli altri paesi europei.
Nel 2006, infatti, nei paesi già citati, L’Unione vinceva bene quasi ovunque, anche se confrontata alla somma di tutti i partiti dell’allora Casa delle libertà.
L’Unione senza IDV e UDEUR, infatti, vinceva nel 2006 con 19.000 voti in più in Belgio rispetto a tutta la CDL; con 27.000 voti in più in Francia; con 41.000 in Svizzera; con 2.000 in Lussemburgo (su un totale di circa 5.000 elettori) e 2.000 in Olanda (su un totale di circa 7.000 elettori).
In questi ultimi due casi parliamo di paesi molto piccoli e con pochi voti, dunque lo scarto, seppur di poche migliaia di voti, è da considerarsi un ottimo risultato.
Le uniche eccezioni erano ancora la Germania, dove L’Unione vinceva di soli 3.000 voti in più (su circa 134.000 elettori) e pur essendo il Paese con il più alto numero di italiani, e la Gran Bretagna, dove L’Unione addirittura perdeva, seppur di soli 1.000 voti (su circa 40.000 elettori).
Oggi, poi, il PD senza Italia dei valori, Sinistra Arcobaleno, Partito Socialista e Sinistra critica, vince quasi dappertutto sul PDL unito senza l’UDC.
E vince con scarti alti, come ho già detto. Tanto che anche se alla CDL si sommasse l’UDC noi vinceremmo lo stesso.
In Germania, invece, il PD perde sul PDL con lo scarto alto già accennato: di 10 punti.
Uno scarto tanto alto che seppure aggiungessimo ai voti del PD quelli di tutta la Sinistra radicale non raggiungeremmo ugualmente il centrodestra.
E tutto il centrosinistra compresa l'IDV è al di sotto di tutto il centrodestra compresa l'UDC.
Il che significa che neanche in una situazione di alleanze simile a quella di due ani fa avremmo vinto e che il centrosinistra tutto è minoritario rispetto al centrodestra ed è in perdita rispetto a due anni fa.
Una perdita di voti che si concentra proprio tra PD e Sinistra della coalizione, poiché l’IDV, rispetto al 2006, guadagna diverse migliaia di voti.
E non si può certo dire che abbia semplicemente guadagnato aritmeticamente quelli liberatisi dall’Udeur, poiché nel 2006 il partito di Mastella aveva solo 1.560 voti in tutta la Germania, meno della metà di quanti ne guadagna l’IDV.
Tutto ciò è molto preoccupante.
Sono voti persi da tutto il centrosinistra, tranne Di Pietro, che avanza in tutta Europa, tranne che in Belgio, dove invece perde voti per quasi mezzo punto.
Caso unico in Europa, dunque, quello tedesco del PD e del centrosinistra nel suo insieme.
Nemmeno in Gran Bretagna, infatti, dove pure perdiamo con uno scarto minimo, si ripete questa situazione.
Se in Gran Bretagna, infatti, ai 14.175 voti del PD sommiamo i 6.966 voti della Sinistra radicale e dell’IDV arriviamo a 21.171 voti: 5.418 voti in più del PDL e addirittura 3.944 voti in più de L’Unione di due anni fa.
In questo caso, dunque, il centrosinistra cresce rispetto a due anni fa ed è maggioritario, come nel resto d’Europa.
Nella sola Germania, dunque, il PD e l’intero centrosinistra, risultano oggi più deboli del 2006 e minoritari.
E tutto il Centrosinistra non raggiunge il centrodestra.
Il Partito Democratico, inoltre, oltre ad essere largamente minoritario in Germania a livello di Paese lo è anche a livello locale.
Fanno eccezione solo poche realtà come Berlino e Amburgo, dove il PD vince bene sul PDL, e Monaco, dove siamo però avanti di un magro 0.6% in più.
Com’è dunque accettabile un tale risultato nel Paese a più alta concentrazione di italiani al mondo?
Com’è dunque possibile un simile risultato in un Paese in cui l’immagine di Berlusconi non è certo un punto di forza?
Dove abbiamo sbagliato?
E che fare? Dicevo poc’anzi.
Probabilmente è rispondendo a queste domande che troveremo la forza e le risorse per cominciare a costruire il cammino che potrà portarci a diventare maggioranza fra cinque anni, ma speriamo anche di meno.
A mio avviso, ma su questo non voglio costruire certezze, bensì stimolare dialogo, in Germania si è verificato questo disastro perché erano già deboli in passato sia i DS che la Margherita: cioè le due forze principali del PD.
E perché manca sia un associazionismo forte, organizzato e radicato come in Svizzera, sia un rapporto sano e proficuo con quello esistente.
Tutto ciò si è verificato perché queste forze, poco radicate davvero sul territorio, avevano anche una grave difficoltà a parlarsi, a stare insieme, a mescolare idee, progetti, risorse, competenze, uomini.
Queste due forze non sono riuscite a fare sintesi e, per usare una metafora genetica, non sono riuscite a mescolare il loro sangue.
E ancora nel passato recente, con la costruzione del PD, non riescono né a radicarsi tra la gente, né a mescolarsi, ad amalgamarsi, a sentirsi parte di un tutto, a trovare una giusta sintesi.
Su quali premesse, dunque, in Germania stiamo fondando la struttura, l’identità e la forza del nuovo Partito?
Ho l’impressione che chi proviene da gruppi e gruppetti pre-esistenti o dalle vecchie identità non riesce a guardare a una evoluzione di esse e a una nuova identità, magari post-ideologica.
Ho l’impressione, spero vivamente sbagliata e viziata dal fatto che negli ultimi tempi sono stato solo osservatore esterno della Germania, che in molti pensano ad una autosufficienza culturale che è dannosa per il PD.
Il mondo che ci circonda, infatti, i fenomeni che vogliamo governare sono estremamente complessi. Le forze che abbiamo di fronte sono ampie e dispongono di molti mezzi.
Da solo, dunque, non può farcela nessuno. Nessuno è in grado di interpretare la società, coglierne i bisogni e trovare le soluzioni.
E la risposta a tutto ciò non è certamente il sommare aritmeticamente le forze all’interno del PD, poiché questo è stato già fatto comunque, anche in Germania, e non è bastato, anzi.
Occorre riprendere una discussione seria sullo stare insieme, sul mescolare le culture, le identità, il sangue, per capire come stiamo insieme e quale profilo e identità culturale diamo al partito e che tipo di alleanza vogliamo, anche nelle prossime consultazioni per i Comites e successivamente per le politiche.
Tutto ciò lo dico, e scusatemi se appaio duro, ma spero sempre di sbagliare, perché ho la terribile sensazioni che noi tutti ci guardiamo con sospetto e come tante piccole componenti distinte e inavvicinabili.
Ho l’impressione di un partito in cui convivono tante piccole signorie, tanti piccoli duchi come nell’Italia di molti secoli fa.
Ho l’impressione che ancora ci si veda in competizione come DS contro Margherita, vecchio contro nuovo, veltroniani contro lettiani e bindiani, dalemiani contro rutelliani, integralisti laici contro integralisti cattolici, CGIL contro UIL e ACLI, bertaliani contro coppiani, beatlesiani contro stoniani e romanisti come laziali.
Un po’ il clima che si respira nell’"Inno nazionale" di Luca Carboni, di ormai parecchi anni fa, eppure sempre attuale.
Non è, né deve essere così: pena la morte di un progetto molto ambizioso che ha già cambiato l’Italia e semplificato la politica, anche se perdendo le elezioni.
Per questo, amici e compagni, non abbiate paura del confronto e del dialogo, anche se duro.
Non abbiate paura delle idee e delle identità diverse.
Non chiudetevi in recinti o signorie né di superiorità culturale, né di egemonia numerica, né di altro tipo.
Create e moltiplicate luoghi di discussione approfondita, nei quali è possibile sviscerare fino in fondo le cose, guardarsi negli occhi e poi provare a mescolare davvero le identità e il sangue politico.
Vedete, amici e compagni, c’è un bel film di qualche decennio fa, il cui titolo è entrato a far parte del lessico italiano e che mi piace ricordare.
In questo film, ambientato proprio in quell’Italia delle signorie e dei cavalierati, gli scalmanati protagonisti si presentano alla corte di un’antica famiglia bizantina per chiedere il riscatto per la liberazione del figlio del signorotto locale.
Entro le chiuse mura del castello, ad accoglierli c’è la corte tutta schierata nei suoi abiti tradizionali, intenta nei suoi seri riti, ottusamente orgogliosa e fiera della sua nobile storia, ma per nulla aperta agli altri, al diverso da se, alla mescolanza.
Eppure, al suo interno, pronta a ogni tipo di nefandezza, tradimento e guerra intestina.
Quando il cavaliere protagonista del film chiede al finto sequestrato chi è quella gente dai volti pallidi, Teofilatto dei Leonzi, figlio illegittimo del signorotto, nato da una relazione "impura" con la serva e quindi rinnegato perché sangue misto, risponde così:
"Sono gli ultimi duchi di Bisanzio, sangue prezioso e malato mischiato a se stesso. Membra febbrili, fiacchi alla spada, ma ratte a pugnare, dedite a ogni amplesso. Gente meglio da perdere che da trovare".
Ecco amici e compagni, fuor di metafora, io spero che all’interno di questo nostro partito, si riesca a superare il periodo delle signorie e dei cavalierati.
Spero che il nostro sangue si mescoli e che la smettiamo di guardarci come DS e Margherita, come veltroniani, lettiani, bindiani, dalemiani, rutelliani, fassiniani e chi più ne ha più ne metta.
Spero che riusciremo a creare l’incontro tra le varie anime e le diverse persone.
A rendere agibile a tutti i luoghi della democrazia interna e a rafforzarla, come ancora non siamo riusciti a fare.
Se lo facciamo e cerchiamo di capire dalla dura analisi del voto come rimediare per il futuro, sono sicuro che riusciremo a radicare davvero il PD sul territorio, facendone un grande partito in grado di tornare a vincere, sia in Italia che in Germania.
Se non lo facciamo, e continuiamo a guardarci con sospetti reciproci, il radicamento reale del partito non ci sarà.
Ci sarà, invece, quell’Armata Brancaleone appena citata, per la quale i cittadini penseranno ciò che nel film recitava Teofilatto dei Leonzi: "gente meglio da perdere che da trovare".
E così avremo fatto fallire un grande progetto e perso numerosi altri consensi.
Grazie a tutti per l'attenzione e buon lavoro.
Di seguito la mia relazione introduttiva.
Cari amici e compagni,
mi fa davvero molto piacere essere qui oggi, in Germania, dove non venivo ormai da moltissimo tempo, cioè da prima che si avviasse il percorso costituente del Partito Democratico: un’altra era politica dunque.
Tornarci oggi, quindi, fa un certo effetto, poiché ci troviamo con un altro partito, un’altra situazione politica e un altro Governo.
Anche la platea che mi trovo davanti è molto diversa da allora.
L’ultima volta che sono stato in Germania c’erano ancora DS e Margherita, c’era da poco il Governo de L’Unione e la Germania non aveva eletti in Parlamento.
Oggi c’è il Partito Democratico, purtroppo c’è il Governo della Destra, ma almeno avete un eletto della Germania.
Per questa prima parte della giornata è stato chiesto a me di fare una relazione sui risultati del recente voto politico, probabilmente perché negli ultimi mesi, tra Gruppo ristretto per lo Statuto, seminari e campagna elettorale, non ho fatto altro che relazioni.
Il compito, naturalmente, non è dei più semplici, poiché analizzare il voto è sempre cosa ardua.
In Italia, tra l’altro, non è stata ancora fatta una discussione approfondita all'interno del partito su quanto è accaduto.
E questo limita enormemente la mia analisi generale.
Per questo cercherò di dare una lettura di quanto successo più circoscritta possibile, con maggiore attenzione proprio al dato tedesco.
Prima del 14 aprile immaginavamo tutti una probabile sconfitta. Ma nessuno avrebbe immaginato un distacco di nove punti, soprattutto al Senato.
La Destra ha ottenuto il 46% dei consensi degli italiani contro il nostro 37%: ben nove punti in più.
Il solo PDL ha raggiunto il 38% contro il nostro 33%: ben cinque punti in più.
In questo pessimo risultato, però, dobbiamo saper vedere anche il molto che c’è di buono.
A parte la semplificazione di tutta la vita politica e democratica italiana, merito esclusivo del PD, c’è anche il grande risultato di aver raccolto intorno al nostro progetto il consenso di un italiano su tre.
Così come c’è il coraggio che abbiamo avuto nel proporre un modello di discontinuità, la scelta dell’innovazione e del riformismo, insieme a quella di costruire un partito plurale, aperto e radicato nei territori.
Ora bisogna, però, che quelli che fin qui sono stati progetti, premesse e ambizioni, d’ora in avanti divengano realtà, a cominciare dalla sintesi delle diverse culture che formano il Partito Democratico e dal suo radicamento tra i cittadini.
Se non sapremo fare davvero bene tutto ciò, questo nostro grande progetto potrà fallire.
Perché esso non fallisca, dunque, dobbiamo partire dal fare tesoro dall’esperienza di quanto è stato, dalla nostra capacità di dialogo e dall’abitudine all’agire democratico di un partito e dei suoi militanti.
Fino a oggi, invece, troppo spesso, in Italia e in alcuni casi all’estero, abbiamo visto di più la concorrenza tra gruppettini del PD – permettetemi di dirlo – che tra progettualità e visioni diverse dell’identità e strategia politica del partito.
E tutto ciò non è un buon segnale in un partito che del rifiuto delle correnti e nella sintesi delle diverse culture ha fatto un suo punto di forza nell’atto fondativo.
Abbiamo perso – anche se all’estero non è così – quindi ci conviene sviscerare fino in fondo i ragionamenti sul perché e riflettere bene sui risultati, cercando di fare un tutt’uno di strategia, identità e cultura politica.
Lo stesso segretario Veltroni ha insistito qualche settimana fa sull’importanza della lettura del voto dopo una sconfitta.
E la mia lettura del voto, come spero la vostra, non deve essere fatta con lo spirito di chi cerca conferme a ciò che pensava prima del voto, qualsiasi cosa pensasse.
La lettura deve servire a distinguere tra ciò che di positivo è uscito dalle urne e i limiti che esse ci hanno evidenziato e che dobbiamo superare nel futuro.
Noi abbiamo certamente pagato il debito dell’impopolarità della precedente maggioranza politica de L’Unione, che io però distinguo dal Governo, che a mio avviso ha ben operato.
Questa impopolarità ci assegnava una sconfitta certa e pesante, anche se in campagna elettorale abbiamo molto recuperato in termini di consenso.
Forse tutto il possibile, insieme a una parte di voti provenienti da altre forze politiche della Sinistra, spinta dall’esigenza di dare un "voto utile" contro la Destra, e dall’astensionismo critico, quello del ceto medio riflessivo o quello di Sinistra.
Ma questo consenso non è acquisito una volta per sempre. Esso può sparire già alle prossime elezioni europee, alle quali non funzionerà il meccanismo del "voto utile".
Quell’area di elettorato gravitante intorno alla Sinistra radicale, infatti, oggi non più rappresentata in Parlamento, domani tornerà a votare alle europee non più contro Berlusconi, ma per una rappresentanza in cui si riconosce di più di quanto non si riconosca nel Partito Democratico.
E allora tutto ciò che fin qui ho detto esserci stato di positivo, tanto da portarci al 33% dei consensi, domani semplicemente non ci sarà più.
Nel 2009 rischieremmo di ritrovarci sotto la soglia del 30%, ancora meno di quanto ottenemmo alle passate elezioni europee, quando la lista Uniti nell’Ulivo raggiunse poco più del 31% dei consensi.
Che fare, dunque, per evitare che ciò accada.
E soprattutto che fare per evitare che ciò accada all’estero.
Prima di tentare di dare una risposta, penso sia utile provare ad analizzare proprio il risultato estero.
Va innanzitutto detto che, per quello che ci riguarda, il voto nella nostra Circoscrizione è stato ben diverso da quello italiano.
Nel complesso della Circoscrizione estero il Partito Democratico vince le elezioni, ottenendo nove parlamentari su diciotto, contro i sette del PDL e i due indipendenti.
Da solo vince alla Camera con circa un punto in più e perde al Senato con circa un punto in meno in termini percentuali.
Insieme all’IDV vince bene in entrambi i rami del Parlamento.
In questo quadro, però, è da sottolineare che il risultato del Partito Democratico all’estero è in linea con quello in Italia, intorno al 33%.
Quello del PDL, invece, è di quattro punti in meno all’estero rispetto che all’Italia (33% all’estero contro 38% in Italia) e di addirittura sei alla Camera (31% all’estero contro 37% in Italia).
Segno, dunque, che l’appeal generale della Destra fuori dai confini nazionali si riduce di molto.
Se poi guardiamo alla sola Europa, il dato non può che migliorare per noi.
In questa ripartizione, infatti, il Partito Democratico ottiene il 40% dei consensi alla Camera contro il 33% del PDL.
Sette punti in più: quasi il rovescio di ciò che succede in Italia.
Che in termini di voti assoluti significa 204.393 voti del PD contro i 171.658 del PDL.
Circa 33.000 voti in più, pari al totale di quelli che nel 2006 ottenne in più L’Unione in Italia per vincere le elezioni, ma su un numero di elettori di molti milioni in più rispetto a noi.
Analizzando, inoltre, il dettaglio di questi dati, nazione per nazione, vediamo che il Partito Democratico vince molto bene in quasi tutti i Paesi in cui è più consistente la presenza italiana, più forte il comune sentire democratico, e dove vi è almeno una qualche forma di organizzazione e presenza del Partito.
Vediamo che in Belgio, in entrambi i rami del Parlamento, il PD ottiene 15 punti percentuali in più del PDL.
In Francia 16 punti in più alla Camera e 15 al Senato.
In Lussemburgo 28 punti in più alla Camera e 22 al Senato.
In Olanda 16 punti in più in entrambi i rami.
In Svizzera 17 punti in più in entrambi i rami.
In Spagna, dove però la nostra presenza organizzata è minima, un solo punto in più in entrambi i rami.
Unica eccezione negativa, è purtroppo proprio la Germania, dove il Partito Democratico ottiene ben 10 punti in meno rispetto al PDL, e in entrambi i rami del Parlamento.
Un risultato tanto più preoccupante se paragonato alla situazione del 2006 e agli altri paesi europei.
Nel 2006, infatti, nei paesi già citati, L’Unione vinceva bene quasi ovunque, anche se confrontata alla somma di tutti i partiti dell’allora Casa delle libertà.
L’Unione senza IDV e UDEUR, infatti, vinceva nel 2006 con 19.000 voti in più in Belgio rispetto a tutta la CDL; con 27.000 voti in più in Francia; con 41.000 in Svizzera; con 2.000 in Lussemburgo (su un totale di circa 5.000 elettori) e 2.000 in Olanda (su un totale di circa 7.000 elettori).
In questi ultimi due casi parliamo di paesi molto piccoli e con pochi voti, dunque lo scarto, seppur di poche migliaia di voti, è da considerarsi un ottimo risultato.
Le uniche eccezioni erano ancora la Germania, dove L’Unione vinceva di soli 3.000 voti in più (su circa 134.000 elettori) e pur essendo il Paese con il più alto numero di italiani, e la Gran Bretagna, dove L’Unione addirittura perdeva, seppur di soli 1.000 voti (su circa 40.000 elettori).
Oggi, poi, il PD senza Italia dei valori, Sinistra Arcobaleno, Partito Socialista e Sinistra critica, vince quasi dappertutto sul PDL unito senza l’UDC.
E vince con scarti alti, come ho già detto. Tanto che anche se alla CDL si sommasse l’UDC noi vinceremmo lo stesso.
In Germania, invece, il PD perde sul PDL con lo scarto alto già accennato: di 10 punti.
Uno scarto tanto alto che seppure aggiungessimo ai voti del PD quelli di tutta la Sinistra radicale non raggiungeremmo ugualmente il centrodestra.
E tutto il centrosinistra compresa l'IDV è al di sotto di tutto il centrodestra compresa l'UDC.
Il che significa che neanche in una situazione di alleanze simile a quella di due ani fa avremmo vinto e che il centrosinistra tutto è minoritario rispetto al centrodestra ed è in perdita rispetto a due anni fa.
Una perdita di voti che si concentra proprio tra PD e Sinistra della coalizione, poiché l’IDV, rispetto al 2006, guadagna diverse migliaia di voti.
E non si può certo dire che abbia semplicemente guadagnato aritmeticamente quelli liberatisi dall’Udeur, poiché nel 2006 il partito di Mastella aveva solo 1.560 voti in tutta la Germania, meno della metà di quanti ne guadagna l’IDV.
Tutto ciò è molto preoccupante.
Sono voti persi da tutto il centrosinistra, tranne Di Pietro, che avanza in tutta Europa, tranne che in Belgio, dove invece perde voti per quasi mezzo punto.
Caso unico in Europa, dunque, quello tedesco del PD e del centrosinistra nel suo insieme.
Nemmeno in Gran Bretagna, infatti, dove pure perdiamo con uno scarto minimo, si ripete questa situazione.
Se in Gran Bretagna, infatti, ai 14.175 voti del PD sommiamo i 6.966 voti della Sinistra radicale e dell’IDV arriviamo a 21.171 voti: 5.418 voti in più del PDL e addirittura 3.944 voti in più de L’Unione di due anni fa.
In questo caso, dunque, il centrosinistra cresce rispetto a due anni fa ed è maggioritario, come nel resto d’Europa.
Nella sola Germania, dunque, il PD e l’intero centrosinistra, risultano oggi più deboli del 2006 e minoritari.
E tutto il Centrosinistra non raggiunge il centrodestra.
Il Partito Democratico, inoltre, oltre ad essere largamente minoritario in Germania a livello di Paese lo è anche a livello locale.
Fanno eccezione solo poche realtà come Berlino e Amburgo, dove il PD vince bene sul PDL, e Monaco, dove siamo però avanti di un magro 0.6% in più.
Com’è dunque accettabile un tale risultato nel Paese a più alta concentrazione di italiani al mondo?
Com’è dunque possibile un simile risultato in un Paese in cui l’immagine di Berlusconi non è certo un punto di forza?
Dove abbiamo sbagliato?
E che fare? Dicevo poc’anzi.
Probabilmente è rispondendo a queste domande che troveremo la forza e le risorse per cominciare a costruire il cammino che potrà portarci a diventare maggioranza fra cinque anni, ma speriamo anche di meno.
A mio avviso, ma su questo non voglio costruire certezze, bensì stimolare dialogo, in Germania si è verificato questo disastro perché erano già deboli in passato sia i DS che la Margherita: cioè le due forze principali del PD.
E perché manca sia un associazionismo forte, organizzato e radicato come in Svizzera, sia un rapporto sano e proficuo con quello esistente.
Tutto ciò si è verificato perché queste forze, poco radicate davvero sul territorio, avevano anche una grave difficoltà a parlarsi, a stare insieme, a mescolare idee, progetti, risorse, competenze, uomini.
Queste due forze non sono riuscite a fare sintesi e, per usare una metafora genetica, non sono riuscite a mescolare il loro sangue.
E ancora nel passato recente, con la costruzione del PD, non riescono né a radicarsi tra la gente, né a mescolarsi, ad amalgamarsi, a sentirsi parte di un tutto, a trovare una giusta sintesi.
Su quali premesse, dunque, in Germania stiamo fondando la struttura, l’identità e la forza del nuovo Partito?
Ho l’impressione che chi proviene da gruppi e gruppetti pre-esistenti o dalle vecchie identità non riesce a guardare a una evoluzione di esse e a una nuova identità, magari post-ideologica.
Ho l’impressione, spero vivamente sbagliata e viziata dal fatto che negli ultimi tempi sono stato solo osservatore esterno della Germania, che in molti pensano ad una autosufficienza culturale che è dannosa per il PD.
Il mondo che ci circonda, infatti, i fenomeni che vogliamo governare sono estremamente complessi. Le forze che abbiamo di fronte sono ampie e dispongono di molti mezzi.
Da solo, dunque, non può farcela nessuno. Nessuno è in grado di interpretare la società, coglierne i bisogni e trovare le soluzioni.
E la risposta a tutto ciò non è certamente il sommare aritmeticamente le forze all’interno del PD, poiché questo è stato già fatto comunque, anche in Germania, e non è bastato, anzi.
Occorre riprendere una discussione seria sullo stare insieme, sul mescolare le culture, le identità, il sangue, per capire come stiamo insieme e quale profilo e identità culturale diamo al partito e che tipo di alleanza vogliamo, anche nelle prossime consultazioni per i Comites e successivamente per le politiche.
Tutto ciò lo dico, e scusatemi se appaio duro, ma spero sempre di sbagliare, perché ho la terribile sensazioni che noi tutti ci guardiamo con sospetto e come tante piccole componenti distinte e inavvicinabili.
Ho l’impressione di un partito in cui convivono tante piccole signorie, tanti piccoli duchi come nell’Italia di molti secoli fa.
Ho l’impressione che ancora ci si veda in competizione come DS contro Margherita, vecchio contro nuovo, veltroniani contro lettiani e bindiani, dalemiani contro rutelliani, integralisti laici contro integralisti cattolici, CGIL contro UIL e ACLI, bertaliani contro coppiani, beatlesiani contro stoniani e romanisti come laziali.
Un po’ il clima che si respira nell’"Inno nazionale" di Luca Carboni, di ormai parecchi anni fa, eppure sempre attuale.
Non è, né deve essere così: pena la morte di un progetto molto ambizioso che ha già cambiato l’Italia e semplificato la politica, anche se perdendo le elezioni.
Per questo, amici e compagni, non abbiate paura del confronto e del dialogo, anche se duro.
Non abbiate paura delle idee e delle identità diverse.
Non chiudetevi in recinti o signorie né di superiorità culturale, né di egemonia numerica, né di altro tipo.
Create e moltiplicate luoghi di discussione approfondita, nei quali è possibile sviscerare fino in fondo le cose, guardarsi negli occhi e poi provare a mescolare davvero le identità e il sangue politico.
Vedete, amici e compagni, c’è un bel film di qualche decennio fa, il cui titolo è entrato a far parte del lessico italiano e che mi piace ricordare.
In questo film, ambientato proprio in quell’Italia delle signorie e dei cavalierati, gli scalmanati protagonisti si presentano alla corte di un’antica famiglia bizantina per chiedere il riscatto per la liberazione del figlio del signorotto locale.
Entro le chiuse mura del castello, ad accoglierli c’è la corte tutta schierata nei suoi abiti tradizionali, intenta nei suoi seri riti, ottusamente orgogliosa e fiera della sua nobile storia, ma per nulla aperta agli altri, al diverso da se, alla mescolanza.
Eppure, al suo interno, pronta a ogni tipo di nefandezza, tradimento e guerra intestina.
Quando il cavaliere protagonista del film chiede al finto sequestrato chi è quella gente dai volti pallidi, Teofilatto dei Leonzi, figlio illegittimo del signorotto, nato da una relazione "impura" con la serva e quindi rinnegato perché sangue misto, risponde così:
"Sono gli ultimi duchi di Bisanzio, sangue prezioso e malato mischiato a se stesso. Membra febbrili, fiacchi alla spada, ma ratte a pugnare, dedite a ogni amplesso. Gente meglio da perdere che da trovare".
Ecco amici e compagni, fuor di metafora, io spero che all’interno di questo nostro partito, si riesca a superare il periodo delle signorie e dei cavalierati.
Spero che il nostro sangue si mescoli e che la smettiamo di guardarci come DS e Margherita, come veltroniani, lettiani, bindiani, dalemiani, rutelliani, fassiniani e chi più ne ha più ne metta.
Spero che riusciremo a creare l’incontro tra le varie anime e le diverse persone.
A rendere agibile a tutti i luoghi della democrazia interna e a rafforzarla, come ancora non siamo riusciti a fare.
Se lo facciamo e cerchiamo di capire dalla dura analisi del voto come rimediare per il futuro, sono sicuro che riusciremo a radicare davvero il PD sul territorio, facendone un grande partito in grado di tornare a vincere, sia in Italia che in Germania.
Se non lo facciamo, e continuiamo a guardarci con sospetti reciproci, il radicamento reale del partito non ci sarà.
Ci sarà, invece, quell’Armata Brancaleone appena citata, per la quale i cittadini penseranno ciò che nel film recitava Teofilatto dei Leonzi: "gente meglio da perdere che da trovare".
E così avremo fatto fallire un grande progetto e perso numerosi altri consensi.
Grazie a tutti per l'attenzione e buon lavoro.
Iscriviti a:
Post (Atom)