Buongiorno a tutti e grazie agli organizzatori per avermi invitato a questo appuntamento di Rifare l’Italia.
Oggi il nostro Paese, e il Sud in particolare, vive una crisi internazionale mai conosciuta in precedenza. Ma una crisi, va detto con chiarezza, le cui radici sono antiche e affondano nelle politiche della Destra. Politiche ultraliberiste affermatesi agli inizi degli anni ’80 nell’Inghilterra della Thatcher e negli USA di Reagan.
Politiche neoliberiste consolidatesi nell’amministrazione USA di Bush jr e, in Europa, nei governi Chirac, Kohl e persino Blair, sconfinando egemonicamente anche tra chi avrebbe dovuto elaborare modelli e letture alternative. Politiche che in Italia sono arrivate con Berlusconi. Che hanno progressivamente enfatizzato la produzione di denaro con denaro e sempre meno quella di lavoro e merci. Che hanno coltivato il mito del successo individuale legato esclusivamente alla ricchezza personale, in spregio a ogni principio di equità e di interesse collettivo. Dove le parole eguaglianza e redistribuzione erano intese come un’inaccettabile violazione della libertà personale.
Il risultato è palese: un numero sempre più ristretto di ricchi (sempre più ricchi) e un corrispettivo aumento di poveri (sempre più poveri). E un’economia reale allo stremo.
Politiche nelle quali era imperante il dogma del mercato libero, che solo affrancato dai cosiddetti “lacci e lacciuoli”, dalle regole, avrebbe garantito prosperità per tutti.
Su queste politiche del “meno Stato più mercato”, della crescita anche se squilibrata, si è abbattuta questa crisi. Una crisi di sistema. Che ci sbatte in faccia come il capitalismo senza regole sia il peggior nemico di se stesso poiché, presto o tardi, cade vittima dei propri eccessi e per risollevarsi ha necessariamente bisogno dell’intervento massiccio dello Stato e non di sempre più massicci tagli e alleggerimenti. Si legga al proposito l’articolo su Repubblica di oggi di Paul Krugman. A questo tipo di crisi, però, sarebbe ingenuo rispondere con le ricette della Sinistra tradizionale.
Nelle società del Primo mondo, a democrazia stabilizzata, la Sinistra storica non basta più. Basti pensare alle paradossali sconfitte dei socialdemocratici in alcuni paesi europei. In queste condizioni la Sinistra si afferma ancora in quelle aree del Pianeta strategiche da un punto di vista geopolitico, ma ancora non sviluppate a pieno: India, Sud Africa, Brasile. Aree nelle quali la nuova Sinistra vince e riduce le disuguaglianze, rafforza la democrazia e la macchina dello Stato, investe nel settore pubblico.
In Brasile, per fare un esempio, il sindacalista Lula, ha permesso a 60 milioni di persone di salire un gradino della scala sociale. E a 30 milioni di esse di uscire dallo stato di povertà e cominciare a consumare.
La ricchezza e la forza economica di quel Paese non si sono basate su politiche di deregulation e arretramento dello Stato.
Ma su politiche di eguaglianza, declinate con parole quali: equità, redistribuzione, lavoro, emersione dalla povertà, intervento dello Stato. Occorre quindi tornare a puntare sull’uguaglianza, come direbbe Tony Judt, per ridare fiato all’economia e alla democrazia, avvilita dal turbo capitalismo finanziario. E un nuovo patto per l’uguaglianza e la giustizia va pensato all’interno del Paese e delle sue diverse realtà, Nord e Sud, ma contemporaneamente in un’ottica di internazionalismo.
Capiamoci bene, però, su quali siano oggi e dove affondano anche le radici dei nostri mali storici, a partire da una mai risolta Questione meridionale che oggi reclama di essere colta come questione nazionale.
E cominciamo con forza, come PD, a valutare il peso che le mafie hanno nell’impedire lo sviluppo delle nostre regioni e nell’alimentare il fiume delle nuove emigrazioni. E, viceversa, di come la lotta alla criminalità organizzata sia il più efficace freno all’emigrazione e volano di crescita civile prima ancora che economica. Lotta alla criminalità come risposta a domande di carattere economico, culturale e civile. Domande che non riguardano solo l’Italia, ma interrogano l’Europa e il mondo, come scriveva Francesco Forgione, politico passato da questa città ed ex Presidente della Commissione antimafia. La ‘ndrangheta è un fenomeno a lungo sottovalutato che ha radici forti e tradizionali in queste terre, dove mantiene un maniacale controllo del territorio. Ma è un fenomeno nazionale e internazionale di livello vastissimo.
È, senza ironia, la più potente e affidabile multinazionale che possediamo.
Una holding economico-criminale alla quale si appoggiano le criminalità organizzate di tutto il mondo per i traffici illeciti a livello globale. Una multinazionale che offre servizi del crimine su scala planetaria a chi ne fa richiesta. Ma un cancro per lo sviluppo economico, culturale e morale della Calabria, del Sud e dell’Italia tutta.
Perché, per dirla con Pasolini, non possono esserci né progresso né sviluppo se c’è criminalità. Dunque il primo punto dell’impegno delle nuove generazioni politiche che vogliono ricostruire l’Italia, è la lotta alla mafia. A livello locale, nazionale e internazionale. Senza questa lotta non può esserci ricostruzione al Sud.
E se non si ricostruisce il Sud non si ricostruisce l’Italia. Insieme alla lotta alla mafia e all’innesto quotidiano di una diffusa cultura civica e della legalità, occorre tempestivamente investire nel lavoro e nella presenza visibile, forte, autorevole dello Stato. Il cittadino deve percepire concretamente che lo Stato è l’antimafia, è la garanzia della sua libertà, è quell’entità che può garantirgli la possibilità di lavorare e crescere in sicurezza. Garanzie che a volte, anche tra gli onesti, si pensa possa dare da queste parti solo la ‘ndrangheta. Solo se affronteremo questo nodo cruciale, il Sud potrà attrarre investimenti e il sistema Italia tutto potrà sperare di recuperare quel ruolo che le spetta nel consenso internazionale. È il tema dell’internazionalismo a cui accennavo: internazionalismo politico, di diritti, di mercati, di possibilità, di formazione, di giustizia sociale. Quindi provo a concludere con delle proposte concrete legate all’ambito delle migrazioni. Il nostro Paese ha una comunità di emigrati di più di 60 milioni tra italiani cittadini e di “di origine”, legati a noi dalla memoria e dal richiamo culturale.
La stragrande maggioranza di essi viene dal nostro Mezzogiorno, dalla Calabria.
Gente che contribuisce a promuovere e diffondere cultura italiana, tutti i prodotti del made in Italy e del turismo, con ingenti ritorni per l’economia nazionale e locale, come ha ricordato il Presidente Napolitano. E non parliamo solo di vecchia emigrazione.
Perché il nostro Paese non ha cessato di essere terra di emigrazione.
Basta leggere il saggio Ma il cielo è sempre più su, di Provenzano e Bianchi, nel quale si denuncia la ripresa dell’emigrazione verso il Nord del Paese e l’estero; la distanza accentuatasi tra Nord e Sud; il fatto che nel Sud sia ormai morta tra i giovani anche la speranza di cambiare le cose. Per cui l’unico cielo terso cui volgere lo sguardo quaggiù, si sposta sempre più su, a Nord o all’estero. Per capirci: i miei nonni emigrarono negli anni ’60 in Svizzera per campare e far studiare il figlio. Diversi miei coetanei di questa provincia, sono oggi, dopo 40 anni, emigrati in Germania o Svizzera per trovare un qualsiasi lavoro o nel centro e Nord Italia per studiare.
Questa gente, che nell’era della globalizzazione va comunque alla ricerca delle proprie radici in un mondo sempre più piccolo, in una dimensione politica sovranazionale, in un pianeta sempre più interconnesso, è una preziosa risorsa multiculturale, cosmopolita ed economica dell’Italia. È un importante plusvalore economico. Un capitale umano su cui investire con politiche in grado di attrarre eccellenze, capitali, scambi economici e culturali capaci di produrre ricchezza, lavoro e crescita e ridurre la diseguaglianza. Tra questi connazionali o corregionali è ancora forte il sentimento di comunità e di appartenenza. Che li spinge a non perdere i rapporti con la terra d’origine. Rapporti che alimentano l’economia locale e nazionale. Per fare un esempio, basti ricordare solo che il nostro Paese, per tutte le politiche verso gli italiani nel mondo, investirà un totale di 16 milioni di euro nel 2012. Al contempo, esclusivamente dalle casse pensionistiche della sola Europa, arrivano annualmente in Italia circa 5 miliardi di euro.
Risorse quotidianamente spese nel nostro Paese e che alimentano la nostra economia nazionale e locale. Non parliamo di quanto poi potrebbero ancora aiutare la diffusione dei prodotti made in Italy e l’economia nazionale e meridionale nello specifico, se l’Italia e le regioni del Sud costruissero una rete di servizi e assistenza strutturate.
Capaci di creare e alimentare rapporti politici, culturali e scambi commerciali con partnership locali e nei paesi di residenza dei nostri molti e spesso giovani emigrati.
Occorrerebbe, dunque, investire anche in queste politiche e in paesi a forte densità di immigrati italiani e alta crescita economica, come Brasile e Argentina, oltre che i classici USA, Canada e Australia.
O in aree geopoliticamente strategiche e vicine come Tunisia, Egitto, Libia, Marocco e Turchia. Anche per ritrovare quella vicinanza culturale di un antico passato condiviso e di scambi economici un tempo frequenti. Occorrerebbe farlo anche con investimenti dello Stato centrale o delle regioni e province del Sud, con programmi di internazionalizzazione tra piccole e medie imprese locali selezionate con criteri di qualità e piccole e medie imprese nei paesi citati. Buone pratiche di questo tipo esistono già. E rappresentano pochi casi isolati. Ma dimostrano come con investimenti modesti, un milione e mezzo di euro, abbiano creato ritorni economici di 15 milioni, prodotto posti di lavoro, aperto vie commerciali e rafforzato il rapporto con le comunità italiane e regionali all’estero.
Il rafforzamento di questi rapporti produce poi ulteriori ritorni economici tramite il turismo di ritorno dall’estero delle nuove generazioni attraverso le vacanze-studio. Gli enti locali del Sud dovrebbero investire con appositi pacchetti strutturati tra università e attività ricettive e agenzie turistiche, nell’attrazione dei discendenti di italiani nel mondo (o di stranieri interessati all’Italia) che vogliono venire nelle regioni d’origine a studiare l’italiano, la moda, la cucina e a visitare i luoghi d’origine e non. Anche con tanti, piccoli progetti e contributi strutturati in rete come questi, si può ricostruire l’Italia, il Sud e i piccoli centri, creando lavoro, legalità, cultura, internazionalizzazione.
Anche questo può essere utile affinché nessuno scriva più versi amari come quelli che scriveva e cantava Vittorio Franceschi nella ballata Chi non emigra spara, quando diceva: “Nel Sud, paese caldo/ chi non emigra, spara!/ e chi non spara/ ascolta nel silenzio/ il ronzio della sua rabbia impotente”.
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