martedì 8 gennaio 2008

Fabrizio De André tra ricordi ed emigrazione

Era il 1998, il mio ultimo anno di università, quando lavoravo alla tesi di laurea sui cantautori italiani. Vivevo a Roma in una casa con altri studenti, ma ero in giro per la città a fare le mie ricerche. Squilla il telefono e risponde Francesco, un mio caro amico e compagno di stanza:
- Si, pronto?
- Buongiorno, sto cercando Eugenio Marino.
- Non è in casa. Chi devo dire che lo ha cercato?
- Sono Fabrizio De André.
Segue qualche istante di silenzio. Poi il mio amico riprende:
- Si, va bene. Io sono Lucio Battisti!
- No guardi, non è uno scherzo. Sono Fabrizio De André e cerco Eugenio perché sta scrivendo una tesi di laurea sui cantautori e voleva intervistarmi. Ci siamo sentiti la settimana scorsa.

Il mio amico realizza e, ancora semistordito, si protende in mille scuse e in dichiarazioni di stima.
Questo era Fabrizio De André: uno dei più grandi e sensibili cantautori italiani che, dopo la prima telefonata di uno sconosciuto studente romano non ha alcuna difficoltà a richiamarlo personalmente a casa per concordare termini e modalità di una intervista. A questa telefonata, poi, ne sono seguite altre fatte da me in Sardegna, alla sua casa a Milano o sul suo cellulare (l’ultima proprio nelle vacanze di Natale del ’98, pochi giorni prima della morte). Ogni volta Fabrizio, con estrema gentilezza e sempre scusandosi (l’ultima volta lo ha fatto per lui Dori Ghezzi), tra una chiacchierata telefonica e l’altra, rimandava quell’incontro di persona mai svoltosi. Solo il successivo 11 gennaio 1999, tra lo stordimento e le lacrime, ho capito davvero perché non si è potuto: aveva scoperto quel maledetto tumore che peggiorava progressivamente e rapidamente.

Oggi, a nove anni dalla sua morte, non posso dimenticare quella voce così profonda e vera, quella sensibilità e gentilezza, quella modestia di chi, pur dall’alto della sua statura umana e professionale, era quasi emozionato che qualcuno potesse scrivere una tesi sulla sua opera e che, nonostante la grave malattia di cui nessuno – tranne pochi intimi – era a conoscenza, non si negava e non si mostrava mai infastidito.

Quella voce oggi la ascolto con la stessa attenzione e ricerca con la quale leggo i classici della letteratura. Parlo di classici parafrasando Italo Calvino, quando definiva i classici nel senso di opere che “non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire”, nelle quali a ogni lettura/ascolto viene fuori qualcosa di nuovo, che non si era percepito in precedenza. Brani dai contenuti universali, quelli di De Andrè, pietre miliari nella storia della canzone italiana; sempre attuali e mai banali; che scavano e arrivano nel profondo dell’animo umano. Capolavori ricchi di echi letterari che trasudano filosofia, arte, poesia, amore, cronaca, politica, lotta. Tutto letto con gli occhi di un osservatore estremamente sensibile e capace come pochissimi di riconoscersi nell’altro.
Per ricordarlo in questo nono anniversario della morte, voglio proporre una sua canzone rimasta inedita e sconosciuta, ma che propone l’emigrazione italiana nella sua veste più cruda, quasi mai trattata e per nulla conosciuta o affrontata fino in fondo. Un aspetto dell’emigrazione che oggi, in una Italia terra di immigrazione, clandestinità, criminalità e prostituzione, dovrebbe farci riflettere su ciò che siamo stati, su ciò che siamo e su ciò che dovremmo fare nei confronti di chi arriva in Italia con lo stesso bagaglio di attese e speranze che portavano i nostri connazionali nel mondo.
Si tratta della canzone Lunfardia. Il lunfardo è il registro linguistico di un determinato gruppo sociale, quello degli ultimi. La lingua, per intenderci, che parlavano i nostri emigrati alla Boca, il quartiere portuale di Buenos Aires. E la storia è quella di una italiana abbandonata dal marito che per vivere è costretta a prostituirsi: cosa molto diffusa in certe epoche della nostra emigrazione. Di seguito vi propongo la versione originale e la traduzione.

Lunfardia
Ella vive el dìa en San Telmo
en la Boca de noche està
allà la llaman bacana
aquì busca aunque abrochada està
en sus pasos el tango
en la bocha un clavo pà doblar
bajo una luna portena
bamboleando su martona va.

Què harìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche...

Etos hombres borrachos
que le hablan siempre de ellos
con lengua de tabaco
ellos abren pronto asì sus labios
por cada escarcha que cae
una rosa abierta ella cultiva
hasta que le escupen polvo de oro
que en el profundo centro de su deseo cruel arriba.

Y què herìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche...

Cuando su fulano
aquel chanta se fue
la regadera al suelo
come una taza se cajò
aun mina fiel
hasta que se mueva el dìa
bajo as estrellas es turra
en esta cegante noce de Lunfardia.

Y què herìas vos
de este viento que
le sube de las piernas
hasta el corazòn.

Què herìas vos
de esto ojos negros que
se abotonan bien
con ella y con la noche.

Traduzione
Vive il giorno a San Telmo
e di notte sta alla Boca
là la chiamano signora
qui puttana, anche se è sposata.

Nei suoi passi c'è il tango
nella testa un chiodo da piegare
sotto la luna del porto
dondolando le tette cammina.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa farest tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

Questi uomini ubriachi
che le parlano sempre di se
con la lingua che sa di tabacco
aprono in fretta le sue labra

Per ogni brina che cade
una rosa aperta coltiva
fino a quando le sputano polvere d'oro
che nel profondo centro
del suo desiderio crudele approda.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa faresti tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

Quando il suo uomo
quel balordo se ne andò

la fica le cadde a terra
come una tazza.

Ancora sposa fedele
fino a che si muove il giorno
sotto le stelle fa la battona
in questa accecante notte di Lunfardia.

Cosa faresti tu
di questo vento che
le sale dalle gambe
fino a perdere il cuore.
Cosa farest tu
di questi occhi neri che
si sposano bene con lei e con la notte...

La canzone è stata incisa qualche anno fa da Adriano Celentano nell’album C'è sempre un motivo.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Ed ecco il redivivo... vacanze brevi e molto lavoro da evadere vero?. Non ci provare, 21 giorni di silenzio sul blog: complimentooooni.
Devo dire però che la pausa ti ha fatto bene, dai un'immagine bellissima di De Andrè, quasi commovente. E la canzone, poi, è davvero originale per il tema che tratta, oltre che sensuale allo stesso tempo.
Naturalmente non la conoscevo.

Anonimo ha detto...

Non la conoscevo nemmeno io. E' bellissima, forte, vera, cruda... Se penso che l'unico ad averla incisa è Celentano, come scrivi, mi viene l'ulcera. Grazie comunque al grande Fabrizio, che mi fai amare sempre di più. Anche il tuo ricordo di lui è molto dolce ed emozionante.
Ciao.
Fr

Laura ha detto...

Tutta la leggerezza della poesia di De André per descrivere uno squarcio della emigrazione piú dura..grazie Eugenio per avermela fatta conoscere. E´bellissima

Anonimo ha detto...

Rimango sempre molto ammirata -e anche un pò sorpresa- quando scopro uomini che sanno parlare delle donne.
De Andrè era senz'altro fra questi.

Stregazelda ha detto...

Non potevi celebrare meglio l'anniversario della morte di un grande poeta e non potevi farci regalo più gradito di questa canzone così poetica, sensuale, straziante, questo ritratto di donna prorompente e disperata. E le tue parole per celebrare Fabrizio sono davvero commoventi. Continua così!

Anonimo ha detto...

che bella questa canzone, mi era sconosciuta... e che bel modo per ricordare il poeta. grazie eugenio, e grazie per la tua delicatezza e sensibilità.
un beso.

marcello ha detto...

Certamente De Andrè era un grande, uno che sapeva parlare di un argomento difficile come quello della prostituzione, e ridare con le sue strofe poetiche digintà alle donne che fanno questo lavoro ( lavoro molto diffuso, in particolare in Italia, a causa della mancanza di maturità dei maschi italiani e del profondo disagio nel quale versano molte coppie italiane che non hanno il coraggio o la possibilità di divorziare).
A questo proposito, c'è un bel film (anche se molto duro e crudo, come lo sono i temi della prostituzione e dell'immigrazione , cioè della mercificazione della donna e del sesso) di Giuseppe Tornatore "La sconosciuta". Mi dispiace solo che De Andrè, a differenza di Paolo Conte, non sia molto conosciuto all'estero. Forse un compito di divulgazione per gli istituti italiani di cultura?

Anonimo ha detto...

Bravo, Eugenio !
Non potevo trovare maniera migliore per iniziare questa mia mattina... sudamericana.
Credimi, sono pochi in Italia ad avere una sensibilitá simile alla tua su "emigrazione & dintorni"; ho cercato di denunciarlo qualche settimana fa in un articolo dal titolo emblenatico: Memoria Corta; dove mettevo in relazione (come te e De André) la sofferta emigrazione italiana e il fenomeno dell'immigrazione in Italia.
E grazie per averci dato questa bellissima chicca... Cosa ci preparera per il decennale?
Ciao,
Fabio

dioniso ha detto...

Adoro De André.
Ma questa canzone lui non l'ha mai cantata?

Saluti

Anonimo ha detto...

Ma in spagnuolo? E di più: l'ha scrita in lunfardo????!!!! Ma dove aveva imparato il lunfardo lui???
È una canzone bellissima, e "non aspettata".
E molto bella anche la nota. De Andre è stato un grande. Un artista senza uguale.
Complimenti
Alfredo Llana

Anonimo ha detto...

@carla73s: sei sempre molto cara, come chi per evitarti di soffrire ti dà il colpo di grazia.
@marcello: se gli istituti di cultura facessero qualcosa del genere, a cominciare da Amsterdam, farebbero cosa buona e giusta: che ne dici di proporlo in Olanda?
@dioniso: no, non l'ha mai cantata pubblicamente né incisa, purtroppo.

Anonimo ha detto...

Grazie per averci lasciato queste parole...

Anonimo ha detto...

Non avevo mai sentito questa "poesia" ; per caso a uno spettacolino (in una sala convegni dell'ospedale "Le Molinette" di Torino ) hanno suonato, come sottofondo, questa meravigliosa canzone e, inizialmente, ho stentato a riconoscere chi la cantava ; mi sono informato e così ho saputo il titolo "Lunfardia" e l'autore, il grandioso Fabrizio De Andrè . L'ho cercata su Internet, l'ho scaricata e, adesso, la canto tutto il giorno . Grazie per il testo, per la traduzione e per la "simpatica" citazione iniziale sul grande poeta .
Anonimo