mercoledì 13 luglio 2016

L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere

"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Intervento di Eugenio Marino a Bruxelles
Ieri a Bruxelles ero invitato all'iniziativa organizzata dall'INCA sui 60 anni di Marcinelle. L'evento era intitolato "L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere". Io ho detto queste cose.

Buongiorno a tutti.
E grazie all’INCA per aver organizzato, ancora una volta, questo importante evento.
Io credo anche sia importante il formato con il quale è stata costruita questa iniziativa, coinvolgendo insieme al mondo sindacale
italiano ed europeo anche espressioni del mondo della cultura, delle realtà associative e della rappresentanza politica.
E credo sia utile anche averlo fatto con l’intera rete degli operatori INCA nel mondo, poiché Marcinelle – o eventi come Marcinelle – non sono un tema locale, ma globale, come la stessa “Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” che Marcinelle rappresenta ci ricorda.
Non si tratta di semplici ricorrenze o argomenti di settore, ma di simboli e moniti universali.
Con Marcinelle non si ricorda solo un episodio in un determinato momento storico, ma una condizione umana, sociale, lavorativa e politica universale.
E se nel quotidiano delle singole persone, dei popoli, dell’impresa e della politica, la si rèlega nel dimenticatoio, quella anziana e saggia maestra che è la memoria storica, illustrandoci la fotografia dell’attualità e della contemporaneità del nostro complesso e disordinato mondo, ce la ricolloca invece nell’attualità.
Un’attualità fatta di situazioni, bisogni, principi e contenuti sempre validi.
La Marcinelle di 60 anni fa non era solo una miniera dalla quale si estraeva carbone e nella quale si è verificato un disastro.
Ma era la fotografia di un mondo fatto di stati nazione che, dopo una terribile guerra mondiale, cercava di rimettersi in moto ricostruendo se stesso e un sistema economico, politico e sociale in Europa, anche attraverso la costruzione di una nuova Europa integrata e sovranazionale: quella del sogno di Spinelli.
E questa ricostruzione in buona parte vi fu, su nuove basi politiche e con successi anche economici generali, soprattutto per Inghilterra, Francia, Germania e Benelux.

Ma fu fatta tutta a spese dei paesi più deboli dell’Europa di allora (o di alcune zone di questi) e dei bisognosi delle fasce sociali più deboli, quindi dei migranti.
Soprattutto quelli italiani e, tra questi, quelli del Sud Italia.

L’esodo dei lavoratori migranti dall’Italia fu il più massiccio d’Europa e si svolse anche sulla base di accordi tra paesi ai quali l’Italia forniva quella manodopera che consentì poi, ad esempio al Belgio, di uscire come vincitore della battaglia del carbone.

Difficile, però, dire quale sia stato il vantaggio per il nostro Paese se, a conclusione di quel ciclo, l’Italia ci rimise circa 800 morti nelle varie catastrofi (488 solo dal 1946 al 1955, di cui 136 solo a Marcinelle); decine di migliaia di invalidi per infortuni o per silicosi; migliaia di famiglie disgregate e disperse e, conseguentemente alla partenza di manodopera italiana per l’estero, desertificazioni di intere aree del Paese, contrapposta a un vantaggio competitivo dei paesi del nord Europa che, come possiamo constatare, dura ancora oggi.

È poi difficile ricordare qui – e in poco tempo – lo scontro quotidiano degli interessi che si palesava nell’insufficienza delle “gerarchiche” dichiarazioni sulla libera circolazione, destinate a rimanere pura retorica, visto che non si procedeva ad armonizzare le difformi legislazioni nazionali del lavoro dei singoli paesi della Comunità;

non si abolivano le discriminazioni nei confronti dei lavoratori stranieri;
non si raggiungeva una completa parità di trattamento.

E in questo contesto, il governo italiano portava le sue responsabilità, poiché essendo impegnato a perseguire una politica di emigrazione, non si preoccupava delle modalità di applicazione reale dei Trattati e dei provvedimenti contenuti nel “Protocollo” del ’46 col Belgio o quelli che sottoscriveva con altri paesi.

Governo e autorità consolari italiane, quindi, in Belgio come in altre realtà, erano concentrati su priorità di carattere demografico ed economico e tralasciavano condizioni, diritti e trattamento reale degli italiani.

Permettetemi, dunque, una parentesi, poiché quest’anno ricorre, insieme al 70° degli accordi Italia-Belgio, del 60° di Marcinelle e quello dell’INCA, anche il centenario della nascita di Paolo Cinanni:

un intellettuale meridionalista ed esperto di emigrazione, cofondatore insieme a Carlo Levi della Filef e autore di quell’importante e attuale libro che è Emigrazione e imperialismo.

Libro che meriterebbe una attenta rilettura in chiave di moderna globalizzazione.
Cinanni scriveva nel 1970 che “l’Italia è l’unico paese della Comunità che attua a sue spese la libera circolazione della manodopera:
l’unico, quindi, che ha interesse a contrattare e a far rispettare, poi, le norme di tutela del lavoro immigrato;
ma come vi ha provveduto il governo italiano?
"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Eugenio Marino, Susanna Camusso, Morena Piccinini a Marcinelle
La stessa lettera dei Trattati di Roma avrebbe richiesto, e consentito anche, un’azione più conseguente e più energica a tutela dei nostri interessi, ma l’errata concezione del fenomeno migratorio in sé, con la sottovalutazione dell’apporto eccezionale che il lavoro immigrato fornisce al processo di sviluppo dell’economia che se ne serve;

il fine politico interno che volle realizzare, con l’emigrazione, la dispersione di una forza di classe antagonista;

e, infine, l’incapacità dei burocrati ministeriali preposti a compiti loro non confacenti, con l’esclusione dei sindacati dalla trattativa comunitaria, tutto ciò ha letteralmente tradito i nostri interessi nazionali, insieme con gli interessi dei nostri lavoratori all’estero.

Potrebbe sembrare follia – prosegue Cinanni – ma la più ferma posizione assunta dal nostro governo è stata proprio quella contro la più forte e prestigiosa organizzazione sindacale italiana, con la più odiosa discriminazione nei suoi confronti:

ciò ha privato il lavoro italiano all’estero dell’apporto di conoscenze e della forza contrattuale propria dell’organizzazione sindacale di classe.

Di fronte al padrone straniero il nostro emigrato è rimasto spesso senza tutela.
I rapporti stessi fra i nostri lavoratori e le imprese straniere non vengono ‘contrattati liberamente’, né dai singoli né dalle organizzazioni sindacali di loro fiducia:

sono invece i funzionari dei nostri ministeri degli affari esteri e del lavoro che accettano per essi, puramente e semplicemente, le condizioni offerte unilateralmente dalle imprese, senza che alcuno si curi poi di farle almeno rispettare.

Parte, dunque, da qui, dalla mancata presenza del sindacato nella trattativa del rapporto fra il nostro lavoratore e l’impresa, fra il nostro paese esportatore e gli altri paesi importatori di manodopera, la deficiente tutela del nostro lavoro all’estero:

da qui il ‘lento progresso’ della stessa politica sociale comunitaria […].

Ministeri, ambasciate e consolati debbono fornire ai legittimi sindacati tutta l’assistenza necessaria per la tutela, sul posto, del nostro lavoro all’estero:
ma non possono, per la loro stessa natura, sostituirsi ad essi”.

E ancora, Cinanni aggiungeva che “È anche merito della vitalità e del dinamismo della popolazione italiana, […]
e soprattutto dell’azione condotta in alcune memorabili lotte combattute nei bacini minerari, […]
se le autorità belghe e della CECA sono state costrette a intervenire e prendere alcuni provvedimenti a loro favore;

[…] è dovuta alla medesima azione unitaria dei lavoratori belgi e stranieri, la conquista della legge sulle malattie professionali, ch’era stata per anni ‘il cavallo di battaglia dell’emigrazione italiana’ in Belgio”.

Questo per dire, dunque, con le autorevoli parole scolpite da Cinanni, quanto non sia sufficiente, non basti, il lavoro dei governi e della politica di uno Stato per garantire integrazione, diritti e progresso degli uomini, dei lavoratori, dei migranti, delle stesse istituzioni europee.

Quanto sia importante anche il lavoro e l’opera dei lavoratori e del mondo associativo, dei corpi intermedi come i sindacati.

Quanto lo era in passato (e oggi possiamo misurarlo) e quanto lo è oggi, anche se non sempre lo vediamo e lo riconosciamo, quindi tendiamo a sottovalutarlo o, peggio, a prenderne le distanze e a procedere per semplificazioni e in solitudine o, al massimo, con interlocutori privilegiati e ben disposti, evitando l’impegno paziente e faticoso del confronto e della concertazione ampia.

E mi spiace che anche pezzi locali e autocentrati del mio Partito si spingano, anche in momenti importanti e delicati come questi, anche in Belgio, nella pericolosa emulazione di modalità ad excludendum dei sindacati, nelle quali la priorità è il proprio ruolo e la compiacenza interna al Partito.

Tralasciando invece il merito e il ruolo degli interlocutori utili e storici come i sindacati, che a discussioni come quelle su Marcinelle, emigrazione e integrazione europea dovrebbero essere coinvolti per le ragioni richiamate da Cinanni già nel 1970.

La storia, soprattutto quella del nostro Paese - ce lo ricordava qualche giorno fa Gianni Cuperlo in una iniziativa a Roma - ci ha insegnato che i risultati migliori e più duraturi non si sono avuti mai quando si è cercato di depotenziare i corpi intermedi, esaltando l’uomo forte e le decisioni in solitaria (da Crispi a Mussolini, da Tambroni a Berlusconi);
ma proprio con la condivisione e la concertazione con i corpi intermedi e la condivisione ampia nella società (da Giolitti a De Gasperi, fino a Prodi).

E in questi contesti ampi e generali, poi, l’emigrazione è stata ed è un termometro che misura se e come funziona una società nei suoi vari aspetti: economici, politici e sociali.

Vorrei quindi proporvi questa lettura, che parte dalle diverse zone di emigrazione o immigrazione:
se il lavoro migrante serve ad accentuare piuttosto che a contenere gli squilibri tra aree e paesi, vuol dire che si è in una logica di un suo uso strumentale e di super sfruttamento delle persone.

Se al contrario il lavoro migrante può contribuire a costruire relazioni più equilibrate tra paesi erogatori e paesi di accoglienza, esso va accolto come positivo.

Vale a dire che la libera circolazione delle persone è certamente un valore in sé dal punto di vista individuale, ma non lo è necessariamente dal punto di vista dei diversi territori (e degli stati) che costituiscono l’Europa.

Per questo vi è bisogno di una funzione politica forte che abbia degli obiettivi riconoscibili di solidarietà interna (e anche esterna, per esempio verso i paesi che circondano il Mediterraneo).

Stare insieme vuol dire condividere (armonizzare come scriveva Cinanni), altrimenti non vi è una ragione particolarmente plausibile.
Le nuove migrazioni oggi ripropongono, se possibile con maggiore forza, gli stessi dilemmi.

Oggi ci troviamo di fronte a scenari che non avremmo voluto conoscere:
sul lavoro migrante e sui migranti in generale si stanno scatenando le contraddizioni irrisolte che Marcinelle ci ha sbattuto in faccia, e frutto del modello di sviluppo che si è perseguito soprattutto negli ultimi decenni e dopo la caduta del Muro di Berlino.

Ciò è inaccettabile da ogni punto di vista:

bisogna ricostruire rapidamente una capacità di lettura condivisa delle vere cause della crisi e, insieme, di unità interna e internazionale del mondo del lavoro che superi realmente divisioni e confini e non metta la persona su un piano secondario a quello dei capitali.

Come oggi purtroppo avviene nella realtà.

Senza queste indispensabili condizioni assisteremo – e concludo – alla fine del sogno europeo, quando invece oggi, dopo la Brexit, servirebbe ancor più un concreto rilancio.

"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Platea a Marcinelle
Pur nel nostro limitato ambito di azione, quindi, abbiamo anche noi una grande responsabilità:

le vicende dell’emigrazione italiana vecchia e nuova e quelle degli esodi mediorientali e africani, pur nelle loro differenze e articolazioni, sono di nuovo uno degli snodi nevralgici per la costruzione del nostro futuro e del rilancio dell’UE.

Ciò che a mio avviso potrebbe essere una soluzione, come ebbe a dire qualche temo fa anche Romano Prodi, è un primo accordo di pochi grandi paesi dell’Unione che rinuncino alla propria sovranità istituzionale e costituiscano un primo nucleo di Unione realmente politica con un unico esercito, unica cittadinanza e unico governo.

Con politiche sociali, fiscali e del lavoro armonizzate.

Io credo che sia il compito, o la missione, della nostra generazione, non in senso anagrafico, ma quella che oggi guida le istituzioni nazionali ed europee e, soprattutto, la Sinistra di questo Continente.


Anche questo aiuterebbe ad evitare nuovi squilibri nei diritti e nell’emancipazione delle persone, nuove e diverse Marcinelle.

Che oggi magari si chiamano tragedie nel Mediterraneo.

Grazie ancora e buon lavoro a tutti.