lunedì 11 dicembre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo - Sacco e Vanzetti

Processi migratori e immigratori nella storia dell’ultimo secolo tra accoglienza, pregiudizio, intolleranza e razzismo

Dopo quello di Torino del 2 ottobre, anche in Puglia si è tenuto lo stesso convegno. Avevo preparato la relazione che trovate di seguito, ma poi, vista la platea di giovani musicisti e studenti di musica, visto il clima che si era creato durante gli altri interventi che mi hanno preceduto, ho deciso di parlare a braccio e fare una relazione molto diversa e incentrata anche sulle canzoni che raccontano le vicende, i luoghi e i personaggi che trovate in questa relazione.

Convegno Fondazione Amendola – Consiglio regionale Puglia
Bari, 11 dicembre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo
E. Marino

Buongiorno a tutti.

Voglio ringraziare la Fondazione Amendola, Prospero e Domenico Cerabona per aver organizzato questa interessante discussione e per avermi invitato.

Grazie anche a Mario Loizzo e al Consiglio regionale della Puglia che ci ospita.

E ovviamente grazie a tutti voi che prestate interesse e attenzione per la storica vicenda di Sacco e Vanzetti, per i temi dell’emigrazione italiana e quelli delle migrazioni in genere.

Non è cosa scontata, perché ancora oggi, nel nostro Paese, profondamente caratterizzato da una storia migratoria tra le più importanti del mondo per quantità, continuità storica e dispersione planetaria, viviamo un processo di rimozione sia politico che storico della nostra emigrazione.

Un’emigrazione che non è stata e non è solo “stracciona”, come spesso la si è liquidata, ma interclassista, perché ha visto e vede partire anche un gran numero di “cervelli”, personale altamente scolarizzato e manodopera specializzata.

E se qualcuno prova a ricordare che siamo stati (e siamo ancora) un Paese di migranti, azzardando paragoni con chi oggi sbarca sulle nostre coste, invocando maggiore partecipazione emotiva e solidarietà con chi oggi arriva in Europa con una storia che è comune alla nostra, attira su di se l’aggressione dei benpensanti o dei superficiali, se non degli ignoranti.

Ricordo cosa successe al popolarissimo Gianni Morandi qualche tempo fa: dopo aver fatto sulla sua pagina facebook un parallelismo tra immigrati stranieri di oggi e emigranti italiani di un tempo, fu massacrato da circa seimila commenti, per lo più di critica feroce, antistorica se non razzista.

In quelli che invece non possono negare la nostra storia di migranti, scatta l’atteggiamento di precisazione, che sintetizzo così: “la nostra emigrazione era diversa; noi andavamo per il mondo a lavorare; rispettavamo la legge; ci facevamo apprezzare da tutti”.

Frasi che contengono, insieme, una banale verità, una palese falsità e una populistica semplificazione laddove servirebbe una complessa analisi.

La banale verità deriva dal fatto che è ovvio che andavamo in giro per lavorare (la quasi totalità dell’emigrazione si muove per questo).

La palese falsità è data dal fatto che in realtà, spesso partivamo da clandestini nelle stive delle navi, o attraversando i valichi alpini sui versanti più pericolosi (spesso lasciandoci la vita), costituendo all’estero organizzazioni criminali come la “mano nera” negli USA, i traffici di prostitute nei bordelli nordafricani e di bambini lavoratori nelle vetrerie francesi.

Ricorderete il romanzo del 1878 Senza famiglia, di Hector Malot, nel quale ci si imbatte a Parigi nell’istituto minorile gestito da un italiano che schiavizza in modo brutale e criminale i bambini nelle vetrerie, appunto. Da questo libro fu tratto anche il celebre cartone animato Rémi.

E lo stesso girovago del romanzo, Vitali, era italiano.

La semplificazione populista, infine, sta nel dividere e classificare in modo netto una migrazione rispetto all’altra, un popolo rispetto all’altro.

Se si scava, invece, se si ha la pazienza di conoscere, di ri-conoscere nei migranti di oggi quelli di ieri, si vedrà che le motivazioni che spingono/obbligano alle partenze sono, quelle sì, molto simili nella storia dell’umanità.

Si parte soprattutto per sfuggire alla povertà e alla fame (migranti economici li chiamiamo oggi);
in misura minore per sfuggire a guerre o persecuzioni politiche;

in misura ancora minore per desiderio di partire, per cercare più di ciò che si ha.

Allora guardiamola un po’ più a fondo la nostra emigrazione, che è soprattutto una migrazione economica.


Dopo l’Unità del 1861, che doveva mettere l’Italia tra le grandi potenze europee e fare della Penisola un’unica potenza economica da Torino a Palermo, negli ultimi decenni dell’Ottocento vivevamo invece una profonda crisi economica e sociale.

L’unificazione non aveva prodotto benefici ai ceti deboli, le condizioni di vita per i più erano peggiorate.

Una situazione che aveva sbocco solo nell’emigrazione di massa o nella ribellione di contadini e operai.

In questo clima si affermava la divulgazione delle idee anarchiche e socialiste, in campagna e in città, nel Nord come nel Meridione.

E la rabbia collettiva, negli anni Novanta, trovava sfogo in scioperi, proteste e rivolte.

Lo Stato, di contro, rispondeva duramente con una repressione feroce.
Così, le masse povere che non trovavano risposte dello Stato partivano, soprattutto oltre oceano, e per fame.

Insieme a loro, molti “sovversivi” dovevano fuggire in Europa o al di là dell’Atlantico per sottrarsi agli arresti.

Tra questi molti rivoluzionari di professione, come Pietro Gori.

Persino Gaetano Bresci era emigrato nel New Jersey, dove frequentava i gruppi degli operai tessili anarchici italiani.

E da lì ripartì solo con il preciso intento di tornare in Italia e compiere l’assassinio di Re Umberto I, nel luglio del 1900, per vendicare le repressioni del Governo di Rudinì.
Questa gente, anche negli USA tenne vivo il lavoro di propaganda e di organizzazione rivoluzionaria fra gli immigrati.

Una umanità-comunità che fondò giornali, circoli, sindacati, associazioni di mutuo soccorso. Che si mise alla testa di scioperi e proteste nel Paese del liberismo più esasperato, dell’impresa e della proprietà privata considerate sacre.

E questo movimento non era fatto solo da intellettuali, socialisti e anarchici in esilio.

C’erano migliaia di lavoratori e contadini che avevano preso parte agli scontri sociali in Italia e che entrarono a far parte delle organizzazioni socialiste.


Obiettivo di questo mondo anarchico, socialista, rivoluzionario, era quello di istruire i poveri, gli immigrati maltrattati e discriminati, di liberarli dal potere assoluto degli sfruttatori.


Soprattutto, di sviluppare un pensiero collettivo per creare una coscienza di classe tendente a unirli e rafforzarli per poter rivendicare i propri diritti di persone e di lavoratori.


In questo senso, con quello spirito di comunità che caratterizza più di ogni altra epoca e comunità l’emigrazione italiana, pubblicavano giornali in italiano, libri, fondavano biblioteche, tenevano corsi di italiano e di letture.


Per istruire, far conoscere sé stessi e la loro condizione e classe e di appartenenza.


Far acquisire coscienza.

E con questa, poi, ottenere progresso per i singoli e per la collettività, non solo italiana e migrante.

Proprio in questi corsi si forma, tra gli altri e come autodidatta, Bartolomeo Vanzetti.

E fu proprio grazie a questo senso di comunità, a questa forte spinta ideologica radicale e rivoluzionaria, che si forma anche un movimento operaio italiano in America nei primi anni del XX secolo.


Tra i principali animatori di questo movimento, che parte dalla condizione degli emigrati italiani e si allarga al mondo operaio americano, c’è una prima, importante figura di emigrato, collegato alla vicenda Sacco e Vanzetti: è Arturo Giovannitti.

Giovannitti, di famiglia agiata, emigra in Canada dove fa studi teologici presbiteriani a Montréal.
Quindi ben lontano dal marxismo rivoluzionario.

Poi si trasferisce in Pennsylvania, dove entra in contatto con l’immigrazione italiana nelle miniere di carbone e con il radicalismo italiano, che favorì la contro-conversione alla causa del proletariato.

Si avvicina alla Federazione Socialista Italiana negli USA, della quale dopo qualche anno diventa autorevole dirigente.

Sotto il suo impulso i movimenti di contestazione, soprattutto quelli di ispirazione anarchico-sindacalista, contribuirono a consolidare nei movimenti radicali e nella gran parte delle comunità migranti e di lavoratori che aderivano agli scioperi la linea massimalista.

Si arriva così al momento di più stretta relazione di questo rapporto: lo sciopero di Lawrence, nel 1912, quando viene assassinata una giovane manifestante – Anna Lo Pizzo – e le autorità americane individuano Giuseppe Caruso come esecutore materiale e Arturo Giovannitti e Joseph Ettor come mandanti.

Lo schema giudiziario è semplice: erano emigrati, italiani, anarchici, attentatori non solo dell’ordine costituito, quanto di vite umane.

Quindi parte subito, per i due, un processo che potrebbe concludersi con la condanna alla sedia elettrica, ma che nel breve volgere di qualche mese diventa un caso di discriminazione e mobilitazione internazionale, che anticipa di circa quindici anni proprio quello più noto di Sacco e Vanzetti.

Ma con gli stessi temi di fondo, le identiche matrici ideologiche, la medesima condizione di partenza: l’emigrazione.

Gli emigrati italiani, infatti, in quegli anni nei quali nel mondo si consumava quella che Guccini chiama “la guerra santa dei pezzenti”, erano infatti la massa di pezzenti più massiccia e pericolosa.

Più pericolosa perché più organizzata e che si riconosceva come comunità.
Perché quella più politicizzata e che rappresentava il “terrore rosso”.

Quella che nella massa di lavoratori e immigrati sfruttati, non solo italiani, coltivava i semi dell’anarchia, del sindacalismo rivoluzionario che si portava dall’Europa e, soprattutto, dall’Italia.

Ecco perché la comunità italiana era considerata pericolosa: perché si sentiva comunità; era legata da un tratto ideologico forte e rivoluzionario; era ampia; era organizzata fino a riuscire a incidere pesantemente anche nella vita politica del Paese ospite.

Per questi motivi molti Stati degli USA chiedevano addirittura l’esclusione degli italiani dalle quote di immigrazione.


Esattamente come oggi fa Trump con i musulmani di alcuni paesi arabi, discriminando su base nazionale e religiosa l’ingresso negli USA.

Per questi motivi i nostri diplomatici erano preoccupati, poiché le possibili esclusioni e l’eventuale ridotto numero di lavoratori italiani negli USA avrebbe creato conseguenze pesantemente negative in Italia, soprattutto per ciò che atteneva la bilancia dei pagamenti, venendo meno una parte consistente di rimesse.

Per questi motivi la nostra rete diplomatico-consolare teneva un profilo basso ed era disposta a sacrificare spesso giustizia e richieste di risarcimento danni allo Stato americano negli episodi di attacchi razzisti e xenofbi, che si spingevano a volte fino a veri e propri linciaggi nei confronti degli immigrati italiani.

Com’è ben ricostruito nel libro “Corda e sapone”, di Patrizia Salvetti, circa i linciaggi della Luoisiana.

Per questi motivi la tutela dei nostri emigrati da parte delle nostre autorità era scarsa.

Per questo nascevano e diventavano sempre più forti e consistenti, coese, le associazioni italiane, i sindacati.

Si faceva sentire il senso di coscienza collettiva politica da una parte e di comunità migrate italiana dall’altra.

Gli stessi elementi che spesso, nella storia della nostra emigrazione, si sono incrociati con i partiti, i sindacati e l’associazionismo di Sinistra in Italia, senza mai perdere il filo con la Madrepatria.

Ma questa storia dal forte senso di appartenenze, di comunità nazionale e politica, ci portò da un lato, paradossalmente, a una maggiore integrazione.

Dall’altro a essere discriminati e additati come “ideologizzati”, “estremisti”, “anarchici”, “terroristi”.
E una cosa alimentava l’altra.
E spesso sugli italiani ricadeva il sospetto, se non proprio il complotto.

Per questo si arriva al sospetto/complotto nei confronti di Sacco e Vanzetti, incriminati l’11 settembre del 1920.
Segniamoci questa data, 11 settembre.

Per questo Giovannitti, che circa quindici anni prima aveva vissuto lo stesso destino, diventa uno degli animatori del comitato per la mobilitazione e la difesa di Sacco e Vanzetti.

Per questo, cinque giorni dopo quell’11 settembre del 1920, il 16 settembre, si sospetta e si indaga su Mario Buda (altro anarchico e migrante italiano) per aver fatto saltare con un carretto carico di dinamite Wall Street.

Segnamoci anche questo luogo, Wall street.
Attentato che provoca la morte di 38 persone, il ferimento di altre 143, due milioni di dollari dell’epoca di danni, la distruzione dell’edificio della società J. P. Morgan.
E segniamoci anche questa società, J. P. Morgan.

Il New York Times, il giorno dopo titolava: “Un atto di guerra”.

E segniamoci anche questo titolo, atto di guerra.

Rimase l’attentato terroristico più sanguinoso della storia degli USA fino a quello delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001.

Anche quello venne giudicato “Un atto di guerra”, anche quello fece saltare la società J. P. Morgan, anche quello avvenne a Wall Street, anche quello fu l’11 settembre.

Che paradossi beffardi riserva la storia.
La storia delle migrazioni.

Dunque, ecco che l’emigrazione italiana, quella tradizionale, quella volgarmente detta stracciona o pezzente, perché fatta da milioni di ultimi, di gente che partiva per fame (quindi migranti economici diremmo oggi), si porta alle spalle una storia di stenti, di senso di comunità, di pensiero collettivo, di ideologie, di movimenti per il riscatto individuale e di massa, di discriminazione.

Una vicenda nazionale e collettiva che attraversa più di 150 anni di storia e che non si è conclusa.

Io non ripasso qui l’emigrazione nel ventennio e quella dell’Italia della Prima Repubblica, poiché i tratti comuni rimangono comunque gli stessi a quelli descritti fin qui anche se cambiano le mete e le situazioni storiche.

La nostra emigrazione rimane fino al 1989 una emigrazione economica, massiccia, con uno spiccato senso di comunità e una emigrazione che si muove e costruisce collettivamente, come comunità appunto:

costruisce patrimoni culturali e immobiliari (le mille Casa Italia, i tanti ospedali italiani, le sedi di associazioni ricreative e culturali, quelle regionali, provinciali e cittadine, i tanti sindacati e patronati, l’associazionismo politico e religioso).

Dopo Berlino, dopo l’89, cambia il mondo e cambia la nostra emigrazione.

Non solo e non tanto nella consistenza di quanti emigrano, visto che oggi, comunque, siamo tornati alle cifre migratorie del secondo Dopoguerra e il saldo con l’immigrazione è ancora a favore dell’emigrazione.

Cambia nella composizione sociale; nel rapporto tra vecchia e nuova emigrazione nei paesi nei quali si incrociano; nel rapporto all’interno della stessa nuova emigrazione; nel rapporto, soprattutto, tra emigrazione italiana e Italia.

Oggi partono molti emigrati con un’alta scolarizzazione.

Non solo quelli definiti “cervelli in fuga”, che per alcuni versi proprio perché ricercatori di qualità e scienziati è giusto e doveroso professionalmente che partano e si confrontino con sistemi diversi e ricercatori di altri paesi.

Anche se poi, pur volendo, non hanno modo di tornare, né l’Italia attrae altri stranieri come loro che scelgono invece altre mete e non il nostro Paese, il Paese di Leonardo da Vinci.

Emigrati altamente scolarizzati sono i molti laureati (non necessariamente ricercatori o scienziati), i tanti professionisti, la moltitudine di diplomati, di lavoratori qualificati.
 
E poi la grande massa, comunque, di manodopera semplice.

Un universo di nuovi migranti che continua a lasciare il nostro Paese perché in Italia, semplicemente, non trova lavoro, indipendentemente dal suo livello sociale o di istruzione.



Questa nuova emigrazione, poi, spesso non si incrocia né ha o vuole avere un rapporto con la vecchia emigrazione, quella tradizionale.

Né ha o si vuol dare un suo pensiero collettivo, un suo movimento o coscienza collettiva;
delle sue forme di organizzazione e rappresentanza;

non partecipa o partecipa marginalmente alle attività istituzionali, culturali o regionali delle organizzazioni che l’Italia ha nel mondo e che sono frutto di quella storia antica che ho tentato di raccontare.

Un’emigrazione, insomma, che non si sente parte dell’ampia comunità migrante nel mondo, che non si organizza come tale per rivendicare diritti nei paesi ospiti o nei confronti dell’Italia.

Che, diversamente dall’emigrazione storica, guarda al proprio destino individuale e ai propri problemi da singolo e non da popolo, da migrante isolato in rapporto con il paese che lo ospita come con quello che ha lasciato.

Una emigrazione che difficilmente organizzerà all’estero una manifestazione di rivendicazione per un diritto che ritiene essere anche collettivo, per un sopruso, per una causa che si identifica con la propria storia italiana o con l’Italia:

difficilmente organizzerà una raccolta fondi per costruire una Casa Italia, un ospedale italiano, la sede di un qualsiasi tipo di associazione culturale o ricreativa italiana, un patronato ecc..

Un’emigrazione “liquida”, per usare i parametri di Bauman, fatta di migranti che, rispetto al passato, si muovono, più sull’onda individuale e dell’io che su quella collettiva del noi.

Che apparentemente si sente più cittadina del mondo che cittadina di una nazione;
più lontana dalla politica e dai sindacati che politicizzata e sindacalizzata;
più disillusa dalla politica che partecipe di questa;

più globalista che nazionalista;
più slegata dalle classi sociali che parte di esse.

Quindi un’emigrazione che porta con sé il segno e le contraddizioni dei nostri tempi.

E che da una parte (la nuova emigrazione italiana nel mondo) si isola e si chiude nel privato, rimanendo anonima come comunità e come collettivo;

dall’altra, quella che arriva dai paesi poveri o in via di sviluppo nel Nord del Pianeta e in Occidente, che si identifica in una visione collettiva e ideologica (di matrice religiosa) spesso pericolosamente distorta da ricchissimi potentati economici con precisi interessi geopolitici e globali.

Quegli stessi potentati che spesso organizzano le reti del terrorismo internazionale di matrice integralista e religiosa che non portano ad alcuna forma di riscatto, né individuale né collettivo, delle masse di poveri migranti che strumentalizzano e vorrebbero fintamente rappresentare.

Anzi, alimentano nei loro confronti una ingiusta discriminazione (religiosa, etnica, razziale e sociale);

ne frenano lo sviluppo democratico e rendono più difficile l’integrazione anche nelle società aperte e multietniche.

Eppure la globalizzazione, le condizioni sociali, la politica e le economie del pianeta (in crisi o no), ogni giorno ci danno motivo di pensare che, nel nostro Paese e con la nostra nuova emigrazione, dovremmo tornare a un pensiero collettivo, internazionalista, che parta dal rispetto e dalla centralità della persona, la quale deve avere priorità rispetto all’economia, come ricordava Paolo VI già del 1967 nell’enciclica Populorum progressio.

E in questo senso, ancor di più, si dovrebbe ragionare in termini di comunità che si ri-conosce (al suo interno come italiani e all’esterno con gli immigrati che arrivano da noi), che si organizza, che si dà un progetto.

Ecco perché, a mio avviso, oggi la storia della nostra emigrazione dovrebbe essere fonte di studio approfondito, di conoscenza di bisogni diffusi e di percorsi di integrazione passati attraverso discriminazioni, lotte aspre e sanguinose, successi e riscatti individuali e collettivi, pensiero complessivo.

Dovrebbe essere la lente con la quale guardiamo il mondo, le economie e le nuove migrazioni. Tutte le migrazioni.

Dovrebbe costituire materia di studio interdisciplinare: dalla storia alla letteratura, dalla narrativa all’arte, all’economia, alla geografia politica.

E in Parlamento giacciono anche interessanti proposte di legge in questa direzione che forse andrebbero valutate e discusse anche per capire meglio cosa sta avvenendo oggi sulle nostre coste e i cambiamenti a cui assisteremo nei prossimi decenni con l’esplosione demografica dell’Africa, giovane e povera, e l’invecchiamento dell’Europa, meno ricca e più conservatrice.





In questo, quindi, le vicende personali e collettive della nostra emigrazione nel mondo e negli USA, quelle di Giovannitti, Sacco e Vanzetti e Buda, sono la chiave critica con la quale leggere il liberismo, gli squilibri redistributivi ed economici globali, le ideologie e loro strumentalizzazioni integraliste (politiche o religiose che siano), le migrazioni.

Migrazioni che altro non sono, poi, che l’effetto di questo mescolarsi di fattori che porta e porterà nei prossimi venti anni, masse di milioni di uomini a cercare riscatto.

E che per inseguire questo riscatto sono disposte anche a rischiare la morte e non vi sarà alcuna legge contro l’immigrazione, blocco navale o rimpatri a fermarli.

Perché non si fermeranno? Io me lo spiego così.

Nella tragedia del 18 aprile 2015 nel Mediterraneo, quando morirono circa 900 persone, si salvò un giovane 22enne del Mali: Javaria.

Javaria, che in quella occasione aveva visto morire in mare il fratello e il cugino e aveva rischiato la sua stessa vita, interrogato dagli inquirenti sulla tragedia alla quale era miracolosamente scampato, quando gli hanno chiesto se prima di partire era cosciente di poter morire, ha ribadito con sicurezza queste parole:

“Ho rischiato di morire, ma quel viaggio lo rifarei di nuovo perché, nel mio Paese, morire di fame o di guerra, non è tanto diverso”.

Ecco perché si emigra e perché non è possibile fermare l’emigrazione.

Grazie e buon lavoro.