domenica 23 ottobre 2016

L'emigrazione italiana in Sud America: differenza tra europa e italiani

Il 23 ottobre scorso sono intervenuto a Montevideo alla tavola rotonda Italiani nella sponda orientale del Plata, organizzata dal giornale La gente d'Italia e dal suo direttore Mimmo Porpiglia nell'ambito della Festa degli italiani. Di seguito la mia relazione.


Buon giorno e grazie a tutti per essere qui.
Grazie agli organizzatori e al direttore Porpiglia per l'invito a tenere un mio intervento e per la possibilità che mi dà di parlare dell'emigrazione italiana in Sud America.

Devo dire che mi dà emozione farlo qui, nella terra che è uno dei due mondi di Garbiladi.
Emozione e timore, perché in questi casi il rischio è di cadere nella retorica o, peggio ancora, di non essre all'altezza del compito.

Lo dico perché, da Garibaldi in poi, i nostri connazionali che hanno camminato su questo suolo, lo hanno fatto con gli stessi sentimenti di Garibaldi, con le medesime passioni, con eguali ambizioni peronali, seppur con diversi obiettivi.

Ma ciò che conta non è l'obiettivo, quanto la la capacità di sognarlo, il coraggio di cercarlo, la forza e la determinazione per relaizzarlo.
E i nostri connazionali in questa parte del mondo hanno mostrato, in più di 150 anni di emigrazione, capacità, visione, forza e determinazione.

E lo hanno fatto in modo diverso da come lo hanno ha fatto il resto dell'Europa.
Già, perche' dobbiamo ricordare, col metro lungo della memoria, la stori di questo meraviglioso Continente ferito e capire come si è sviluppato, con apporti di tipo diverso e non sempre nobile.
In questo senso, dobbiamo ricordare che questo Continente è il frutto dell'occupazione e dell'immigrazione europea.

E' il continente dove i regni e grandi stati nazione europei hanno esportato la propria missione coloniale, hanno sfrtuttato le materie prime, le risorse e le ricchezze locali, hanno spesso sfruttato (e annientato) le popolazioni indigene.

E quasi sempre tutto ciò lo hanno fatto ad esclusivo vantaggio di una economia europea che andava sempre piu' crescendo e consolidandosi nella formazione di classi borghesi, imprenditoriali, manufatturiere che avrebbero fatto dell'Europa prima e degli USA poi le grandi potenze mondiali che abbiamo conosciuto per tutto il '900.

Quindi il progetto, per diversi secoli, è stato sempre lo stesso: occupare i territori dell'America Latina, sfruttarne le materie prime, gli spazi, le risorse e la mandopera, ricavarne produzione a basso costo e commercializzarla e distribuirla in Europa e in Nord America, così da far crescere l'industria di trasformazione, la classe borghese e le ricchezze di quei paesi a danno di questa parte del mondo.

In quest'opera sono stati attivi protagonisti prima i diversi regni e stati nazione europei (Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra) e successivamente e con maggior forza gli USA.

Basti ripercorrere la storia coloniale di questo Continente e le lotte di indipendenza per sentir risuonare i nomi degli stati che ho menzionato.
Ma se lo si fa, ci si accorgera' che in questa storia non compare mai la parola Italia.
L'Italia non è stata parte di imprese coloniali in Sud America, di sfruttamento di materie prime o di popolazioni indigene, di protettorati o colonie.

Nessuno stato dell'America Latina ha dovuto fare una guerra di indipendenza per rendersi autonomo dall'Italia.

Eppure è risuonato sempre e forte, qui in Sud america, l'eco degli italiani. Quello si.
Ma sempre come popolo, mai come Regno, come Stato, come Nazione.

Perché l'Italia, quaggiù, c'è venuta con i suoi figli, con i suoi contadini che sostituivano gli schiavi africani o i lavoratori indigeni, con i suoi manovali, con le sue intelligenze ingegneristische e artistiche, persino con i suoi eroi liberatori come quel Garibaldi che ho citato in apertura.

Quindi se di emigrazione e presenza italiana in Sud America vogliamo parlare, dobbiamo parlare di una emigrazione e presenza fraterna.

Fraterna nel senso della comune sofferenza dei popoli indigeni, dei popoli sudamericani resisi liberi dal colonialismo e dalla dipendenza legale dagli stati europei, ma non dalla condizione di sfruttamento economico, imprenditoriale e politico.

Fraterna perché emigrazione figlia della volontà di riscatto dalla miseria, dalla fame, dalla dittatura.

Fraterna perché chi emigrava dall'Italia per il Sud America emigrava per venire a lavorare e a cercare dignità e non per venire a colonizzare terre o popoli, per sfruttare materie prime e risorse, per produrre ricchezza da portare in altri luoghi.

Chi partiva dall'Italia per venire quaggiù lo faceva perché in questo quaggiù credeva come a una terra di riscatto e non come a una terra da spremere e sfruttare.

Ecco, dunque, qual è la differenza che, per ciò che riguarda l'emigrazione italiana in Sud  America, mi porta a parlare da un lato di Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra, USA e dall'altro di italiani.

Perché da una parte c'erano gli Stati nazione europei e dall'altra c'era il popolo italiano.

I primi si muovevano per interessi economici creando ricchezza nei loro territori a discapito di questa parte del mondo che sfruttavano, i secondi si muovevano per cercare il proprio privato riscatto creando ricchezza e integrazione in questi territori.

Ecco, dunque, cos'è l'emigrazione italiana e cosa la caratterizza rispetto alle altre: è il movimento spontaneo e di necessità di un popolo immenso e coraggioso che non aveva alle spalle una nazione che li sosteneva e indirizzava per sfruttare altri paesi e altri popoli a fini di ricchezza interna.

Ma un popolo che cercava dignità tra altri popoli, sfruttati o meno, sapendo con essi condividere il dolore della propria storia, la sofferenza del proprio lavoro, la dignità del riscatto collettivo.
In questa storia, quindi, gli italiani ce l'hanno fatta.


Si sono integrati, si sono realizzati, hanno amato e si sono fatti amare, hanno contribuito a produrre ricchezza in loco senza strapparla e portarla via.

Sono diventati popolo tra i brasiliani, venezuelani, argentini, cileni, uruguayani.

Sono diventati ciò che oggi siete, quel popolo che viene omaggiato e festeggiato all'interno del massimo organo istituzionale di rappresentanza: il parlamento di questo splendido Paese.
L'emigrazione italiana siete voi, siete l'Italia, siete l'Uruguay, siete i cittadini di questo complesso,difficile e inafferrabile mondo.

Siete gli eroi di due mondi e i Garibaldi di ogni epoca e luogo. Siatene orogliosi e fieri.
Grazie

lunedì 1 agosto 2016

L'umanesimo degli italiani nei nostri tempi mitici

Lunedì primo agosto sono stato intervistato da Riccardo Giumelli per La voce di New York e ho detto  queste cose. Buona lettura.                         
Da tempo si occupa di emigrazione, tema su cui ha scritto "Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana". Con Eugenio Marino abbiamo discusso di italicità e di made in Italy che, ci ha detto, deve andare oltre il marketing.
 
Raccontare la cultura italiana e gli italiani nel mondo è uno dei temi di questa rubrica. Per saperne di più e qualcosa di nuovo abbiamo incontrato Eugenio Marino, responsabile nazionale del Partito Democratico per gli italiani nel mondo, che da tempo si occupa di emigrazione, tema sul quale ha scritto un libro molto intrigante: Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana, una ricostruzione storica dell’Italia degli ultimi 150 anni attraverso la musica italiana che parla di emigrazione.
 
Innanzitutto ci racconti come arriva a fare politica e soprattutto ad occuparsi di italiani nel mondo all’interno del PD.
“Ho cominciato da bambino, al fianco dei miei genitori e loro coetanei, in un piccolo paese della Calabria, dove la domenica mio padre mi faceva distribuire l’Unità e poi, crescendo, cominciavo a fare gli annunci per i comizi, distribuire i volantini fatti al famoso ciclostile, attaccare i manifesti e fare vita di sezione. A quei tempi – anni Settanta e Ottanta – le sezioni del PCI e della FGCI del mio paese erano molto attive e vi era una comunità unita nella quale si respirava un vento di speranza e condivisione, che derivava da una forte tensione etica e politica. C’erano giovani brillanti, ai quali la generazione precedente uscita dalla Guerra aveva saputo trasmettere una severa cultura politica e una voglia di riscatto collettivo. E questo valeva anche per i nostri avversari di allora, seppure parliamo di un paese di circa 2.000 persone. Poi c’era la Federazione del PCI di Crotone, territorio delle lotte contadine di Melissa e la città operaia della Montedison, epicentro di battaglie politiche e sindacali storiche, che rappresentava un caso politico in positivo. Quella Federazione era chiamata la Botteghe Oscure del Sud e io la frequentavo settimanalmente coi miei genitori fin da bambino. Di quegli anni mi resta, quindi, un senso di comunità e di appartenenza che sono, forse, l’essenza più autentica della politica. E tutto questo contesto, vissuto attraverso l’impegno diffuso di intere generazioni prima della mia, ha inciso molto sulla mia formazione, spingendomi da sempre a fare politica, seppure senza mai ricoprire alcun ruolo e senza mai cercare o accettare alcun tipo di candidatura”.
 
E l’interesse per gli italiani all’estero quando è iniziato?
“Dopo la laurea a Roma ho potuto collaborare da volontario al Dipartimento Internazionale dei DS. Erano gli anni storici dei governi de l’Ulivo. Allora si modificò la Costituzione (non è vero che non si riesce mai a cambiarla questa Carta), si introdusse la Circoscrizione estero e si andava verso il varo della legge ordinaria per il voto all’estero. Il mio impegno si concentrò, nel Dipartimento esteri, sulle politiche per gli italiani nel mondo e lì cominciai a ricoprire qualche ruolo: sono stato prima Responsabile comunicazione all’estero dei DS e poi del Coordinamento de L’Unione per gli italiani nel mondo, vice responsabile dei DS per gli italiani all’estero, componente del Coordinamento nazionale del PD per gli italiani nel mondo e membro del Comitato di controllo della Presidenza del Consiglio su Rai International. Fino a diventare poi Responsabile nazionale del PD per gli italiani nel mondo”.
 
Gli italiani nel mondo sono da molti, soprattutto in politica e negli affari, considerati i primi ambasciatori dell’Italia nel globo. Non le sembra che spesso siano parole piuttosto che fatti? Nel senso che il bisogno di Italia di questi italiani nel mondo è molto più forte delle attenzioni e del riconoscimento che l’Italia dà loro?
“No, non proprio. Nel senso che gli italiani nel mondo sono naturalmente e realmente i primi ambasciatori dell’Italia, perché rappresentano il nostro Paese agli occhi di chi li ospita, la nostra cultura in tutti i suoi aspetti, i nostri pregi e i nostri difetti. E sempre naturalmente e di fatto sono ‘consumatori’ di prodotti italiani che sentono loro, che fanno parte della loro vita, della loro storia (familiare e nazionale), dei loro gusti. Poi, nel senso critico che lei giustamente sottolinea rispetto alla politica e all’impresa, in entrambi questi ambiti non si riesce a fare realmente sistema e a tenere questi ‘ambasciatori naturali’ dell’Italia e dei suoi affari in una rete organizzata, con una visione chiara e universale, un progetto preciso, una geopolitica adeguata ai tempi, delle strutture razionali e flessibili, delle risorse adeguate. E, inoltre, gli stessi italiani in Patria, per decenni hanno coltivato un sentimento di rimozione della storia migratoria del nostro Paese. E ancora oggi, guai a parlarne o a riconoscere negli immigrati che arrivano da noi gli italiani che si sono dispersi nel mondo. Guai a ricordare che essi hanno agito esattamente come i migranti di oggi, hanno subito le stesse discriminazioni, hanno seminato le medesime paure e hanno compiuto i medesimi crimini: era italiano l’assassino del presidente della Francia, Carnot, era italiano il terrorista che compì la strage di Wall Street del 1920 (che rimarrà la più sanguinosa della storia degli USA fino quella di Oklahoma City del 19 aprile del 1995). E potrei continuare anche sul versante dell’integralismo religioso di cui erano accusati gli italiani nei paesi laici. Quindi, gli italiani nel mondo sono, nel bene e nel male, realmente degli ambasciatori naturali dell’Italia e dei suoi prodotti e, lo sono perché ricordano e amano il proprio Paese anche se il proprio Paese non riesce a coltivarne a pieno le potenzialità, sia per un problema politico che culturale in patria. Insomma, per dirla con le parole che usa l’artista Cataldo Perri nella sua opera Bastimenti, ‘i nostri emigranti certamente ricordano più di quanto siano ricordati’. E questo è un problema anche per l’Italia e non solo per gli italiani nel mondo”.
 
Conoscerà certamente questo nuovo paradigma coniato da Piero Bassetti, e di cui tanto scriviamo su questa rubrica, dell’Italicità. Cosa ne pensa?
“Lo trovo molto appropriato. Bassetti ha avuto una felice intuizione, che è una sintesi di molti e diversi concetti legati alla storia del nostro Paese, alla sua cultura, al suo know how, alla sua diaspora globale più che centenaria, allo stile di vita e allo stile delle forme italiane, al nostro concetto del bello, alla voglia dei non italiani di vivere, consumare o creare all’italiana, alla necessità di stare al passo coi tempi. Oggi viviamo infatti un’epoca mitica (anche se il termine è stato ormai banalizzato e lo si usa per qualsiasi sciocchezza). Mitica, infatti, nel senso di straordinaria e globale, nella quale si susseguono eventi grandiosi, nel bene e nel male, nella quale ogni evento in un angolo del Pianeta può avere ripercussioni su tutto il Globo. Un’epoca nella quale le potenzialità, gli strumenti e le ricchezze sono enormi e potrebbero dare una vita degna a tutti e nella quale le disuguaglianze e gli squilibri hanno raggiunto punte mai conosciute nella storia dell’evoluzione umana. E un’epoca nella quale l’uomo del tempo è, più che in ogni altra, l’uomo in movimento, quello che si sposta, il migrante. E si sposta proprio per eventi mitici: guerre, fame, dittature, siccità o desiderio di realizzazione, anch’esso una cosa mitica. Ecco, in questi tempi, Bassetti supera il concetto di nazionalità e lo colloca in una dimensione mitica – storica e globale – adeguata ai tempi. Quindi non parla più di cittadini italiani, o di oriundi, o di partner dell’Italia, ma parla di italici, superando confini, nazionalità e cittadinanza, prevedendo cosmopolitismo e contaminazione, senza negare o cancellare una storia o una tradizione o una evoluzione. Ma anzi prendendo da questa tradizione e cultura proprio un tratto identificativo e fondante, cioè quello della mescolanza derivante dalla solidarietà e dal saper accogliere e integrare persone, culture e saper fare diversi”.
 
Il made in Italy ha certo costruito la sua grande forza e diffusione anche con il contributo degli italici nel mondo che lo ha promosso e consumato. Quale potrà essere il contributo futuro in questo senso in un mondo sempre più glocale?
“Il made in Italy si è diffuso in maniera massiccia anche per il contributo notevole degli italiani nel mondo prima e degli italici dopo, per un fatto naturale, come si diceva. Ma ha costruito la sua forza proprio su alcune caratteristiche originali, culturali e di qualità, di gusto, di particolare armonia di forme e materiali, di tradizioni. Insomma, il made in Italy è un qualcosa di molto complesso che va molto oltre un semplice prodotto, che sia esso materiale, culturale, ideale o culinario. E la complessità gli viene dal fatto di tenere insieme tutto ciò che è la storia millenaria del nostro Paese, del Mediterraneo e dell’Europa tutta, di cui l’Italia è sintesi e gli italici sono rappresentazione nel mondo. Quindi essi possono avere, ancor di più nei tempi mitici di oggi, quella funzione di esempio di mescolanza e integrazione, di ponte tra culture, know how e prodotti. Ma possono farlo solo se non perdono la centralità dell’Umanesimo che caratterizza e ha caratterizzato il nostro Paese, quella capacità di non pensare solo al profitto e al sistema di produzione, ma anche alla persona che produce e che è parte del prodotto stesso, perché nel produrre ci mette se stesso, la sua storia personale e collettiva e la sua realizzazione attraverso il lavoro. Se, dunque, per quella persona il lavoro è sfruttamento ai fini di lucro per altri, il suo impegno, la sua creatività e il suo valore saranno una cosa. Se il lavoro è invece realizzazione della propria storia (personale e collettiva) e della propria persona, allora impegno, creatività e valore saranno altra cosa e migliore”.
 
Ad un recente incontro pubblico ha sostenuto che “occorre evitare che si affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione di penetrazione commerciale e di marketing”. Che cosa intendeva con questo?
“Un po’ ciò che ho detto qui e che vale sia per chi produce qualcosa che per chi la consuma. Gli italici non devono essere pensati come tanti rappresentanti commerciali a costo zero per le imprese che producono, ma come persone con una storia, una dignità, un percorso di vita complesso e spesso anche sofferto. Quindi uomini e donne che consumano, certamente, ma con un grande orgoglio per ciò che sono. E per ciò che sono vogliono e devono essere considerati, non per ciò che fanno o possono fare per l’Italia e per il made in Italy che pure amano e li rappresenta. Se nel costruire una politica e una rete per gli italici l’approccio è questo, ci sarà orgoglio e volontà da parte loro e, di conseguenza, arriverà anche e per convinzione la penetrazione commerciale, in modo naturale. Cioè deve esserci, nel guardare a questa comunità, il giusto riconoscimento delle persone, delle loro storie e delle loro dignità in un’ottica collettiva, di comunità valoriale. Stesso discorso vale per chi produce. L’impresa deve ricordare che esiste, oltre che per il capitale che vi è investito, anche per la gente che vi lavora e investe la propria capacità creativa. Quindi il profitto deve tornare percentualmente e senza le enormi disuguaglianze di oggi, anche a chi lo ha generato e prodotto (siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare solo i capitali investiti e nelle tasche di pochissime e ricchissime persone. Deve esserci un giusto equilibrio. Le riporto due esempi che fa Antonio Galdo nel suo bel saggio L’egoismo è finito e che per me sono paradigmatici dell’impresa che tiene conto di tutto ciò, rispettando la persona, rimanendo nel solco della nostra storia, creando prodotti di grande qualità e originalità, producendo profitto e ricchezza senza generare squilibri esagerati. Il primo si colloca nella prima metà del secolo scorso, è il modello del welfare aziendale e della Città dell’Armonia di Gaetano Marzotto dove, ad esempio, la Cassa di previdenza gestiva le pensioni dei dipendenti che lasciavano l’azienda, la Cassa di soccorso erogava prestazioni sanitarie, la Società del magazzino pensava all’acquisto e allo spaccio di generi alimentari e della legna a prezzi bloccati, per impedire speculazioni e affrontare l’aumento del costo della vita in tempi di crisi. Il secondo e contemporaneo a noi, è l’esempio della Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che porta in azienda gli asili nido, la baby sitter a casa dei dipendenti in caso di emergenza, le visite specialistiche gratuite, il check-up per i parenti anziani, il carrello della spesa con olio, pasta e formaggi, la Banca ore o il job sharing, cioè il lavoro condiviso in famiglia: se un lavoratore ha problemi che si protraggono (per esempio di salute) può farsi sostituire da un parente o se un figlio sta finendo gli studi e vuole imparare un mestiere o formarsi può sostituire il padre o la madre. Ecco, sono esempi di come si può e deve evitare di pensare esclusivamente alla funzione di penetrazione commerciale e marketing e di come si può pensare come comunità valoriale e creare ricchezza partendo dalla centralità della persona, della sua storia e della sua cultura in un nuovo umanesimo, anche e soprattutto in tempi di crisi”.
 
Ci racconta un aneddoto che ha appreso in questi anni di lavoro con gli italiani all’estero che meglio li racconta?
“Ahahah… sì, volentieri. Si tratta di una lettera che ci venne inviata molti anni fa a doppia firma da presidente e vice presidente di una associazione regionale e con la quale ci si chiedeva un aiuto per avere dei contributi per ristrutturare la sede nella quale erano impegnati a diffondere la lingua, la storia e la cultura italiana. Il testo della lettera, che per ovvi motivi privo dei riferimenti a persone, luoghi e nomi di associazioni, era scritto esattamente così: ‘La Comissione Direttiva della ASSOCIAZIONE […] NEL MONDO ‘[…], a l’onore di partecipare in questa cena insiemi a tanti […], che si preoccupano di difundiri la storia e la cultura Italiana. Qui insiemi a diversi attività si insegna la lingua italiana, e folclori […]. Per potere svogliere questi progetti abbiamo construito in primo piano una sala e ora chiedemo cortesemente se Lui podrebbe tramitare dal Governo Italiano un pìcolo subsidio per mettere il tetto gia che ni vediamo impossibilitati per motivo econòmico. La sala di sopra a 100 metri cuadri. Nella sicurezza che Lui ni terra presente vi ringrazziamo caramente aspetando una pronta risposta e porgiamo i nostri férvidi e cordiali saluti’. Da allora la tengo sempre appesa nel mio ufficio perché rappresenta profondamente il legame sentimentale e culturale degli italici nel mondo con l’Italia. E non importa quale sia il loro livello di istruzione o la loro capacità di parlare, scrivere o fare impresa. Sono e si sentono parte di questa comunità, della quale avvertono il valore storico, culturale e linguistico e si ingegnano in ogni modo per tenerlo vivo e alimentarlo. E questa gente, anche umile, pur non conoscendo la lingua, ha creato nel mondo migliaia di strutture che poi hanno fatto un grande lavoro di promozione, pagando professori in grado si insegnare con qualità. Ecco perché questa lettera, nella sua umiltà, è dignitosissima, bella, emozionante e paradigmatica di cosa sia stata e sia questa nostra grande comunità, capace dal niente di costruire imperi con al centro la persona e la sua dignità”.
 
Infine, Lei ha fatto una tesi di Laurea su De André, Guccini e De Gregori. Riassumendo in poche parole, e capisco quanto possa essere difficile, qual è stato il più grande insegnamento che questi grandi artisti le hanno dato sull’Italia e sull’essere italiano?
“Beh, da loro ho imparato a usare la sensibilità per riconoscere noi nell’altro, anche il più diverso, e capire che in fondo siamo tutti uguali, con gli stessi bisogni e le stesse ambizioni. Questo mi ha fatto capire un po’ ciò che dicevo sopra: il tratto storico italico, che è quello dell’accoglienza, della mescolanza, del cosmopolitismo. Ed è tutto questo mescolare storia, popoli, culture, prodotti, che poi fa ciò che siamo. Guccini, nell’intervista che gli feci proprio per la tesi, per farmi capire come nascevano le sue canzoni e cosa fossero rispetto a tutto ciò che leggeva, ascoltava o da cui traeva ispirazione, mi disse: ‘Io amo fare il paragone […] con il maiale […]. Dai tanto cibo ad un maiale e poi quando fai il prosciutto […] non sai più quale cibo fosse quel prosciutto’. Ecco, questo vale per l’italico o per l’essere italiano: abbiamo avuto nella nostra storia patria l’occupazione dei popoli più diversi, abbiamo noi stessi girato il mondo, ci siamo mescolati con le culture, i saperi, le vite di ogni angolo del pianeta, quindi siamo oggi una sintesi di tutto ciò, siamo un prosciutto fatto da tutti i cibi che abbiamo consumato per secoli, ma ormai impossibili da distinguere gli uni dagli altri’”.

mercoledì 13 luglio 2016

L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere

"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Intervento di Eugenio Marino a Bruxelles
Ieri a Bruxelles ero invitato all'iniziativa organizzata dall'INCA sui 60 anni di Marcinelle. L'evento era intitolato "L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere". Io ho detto queste cose.

Buongiorno a tutti.
E grazie all’INCA per aver organizzato, ancora una volta, questo importante evento.
Io credo anche sia importante il formato con il quale è stata costruita questa iniziativa, coinvolgendo insieme al mondo sindacale
italiano ed europeo anche espressioni del mondo della cultura, delle realtà associative e della rappresentanza politica.
E credo sia utile anche averlo fatto con l’intera rete degli operatori INCA nel mondo, poiché Marcinelle – o eventi come Marcinelle – non sono un tema locale, ma globale, come la stessa “Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” che Marcinelle rappresenta ci ricorda.
Non si tratta di semplici ricorrenze o argomenti di settore, ma di simboli e moniti universali.
Con Marcinelle non si ricorda solo un episodio in un determinato momento storico, ma una condizione umana, sociale, lavorativa e politica universale.
E se nel quotidiano delle singole persone, dei popoli, dell’impresa e della politica, la si rèlega nel dimenticatoio, quella anziana e saggia maestra che è la memoria storica, illustrandoci la fotografia dell’attualità e della contemporaneità del nostro complesso e disordinato mondo, ce la ricolloca invece nell’attualità.
Un’attualità fatta di situazioni, bisogni, principi e contenuti sempre validi.
La Marcinelle di 60 anni fa non era solo una miniera dalla quale si estraeva carbone e nella quale si è verificato un disastro.
Ma era la fotografia di un mondo fatto di stati nazione che, dopo una terribile guerra mondiale, cercava di rimettersi in moto ricostruendo se stesso e un sistema economico, politico e sociale in Europa, anche attraverso la costruzione di una nuova Europa integrata e sovranazionale: quella del sogno di Spinelli.
E questa ricostruzione in buona parte vi fu, su nuove basi politiche e con successi anche economici generali, soprattutto per Inghilterra, Francia, Germania e Benelux.

Ma fu fatta tutta a spese dei paesi più deboli dell’Europa di allora (o di alcune zone di questi) e dei bisognosi delle fasce sociali più deboli, quindi dei migranti.
Soprattutto quelli italiani e, tra questi, quelli del Sud Italia.

L’esodo dei lavoratori migranti dall’Italia fu il più massiccio d’Europa e si svolse anche sulla base di accordi tra paesi ai quali l’Italia forniva quella manodopera che consentì poi, ad esempio al Belgio, di uscire come vincitore della battaglia del carbone.

Difficile, però, dire quale sia stato il vantaggio per il nostro Paese se, a conclusione di quel ciclo, l’Italia ci rimise circa 800 morti nelle varie catastrofi (488 solo dal 1946 al 1955, di cui 136 solo a Marcinelle); decine di migliaia di invalidi per infortuni o per silicosi; migliaia di famiglie disgregate e disperse e, conseguentemente alla partenza di manodopera italiana per l’estero, desertificazioni di intere aree del Paese, contrapposta a un vantaggio competitivo dei paesi del nord Europa che, come possiamo constatare, dura ancora oggi.

È poi difficile ricordare qui – e in poco tempo – lo scontro quotidiano degli interessi che si palesava nell’insufficienza delle “gerarchiche” dichiarazioni sulla libera circolazione, destinate a rimanere pura retorica, visto che non si procedeva ad armonizzare le difformi legislazioni nazionali del lavoro dei singoli paesi della Comunità;

non si abolivano le discriminazioni nei confronti dei lavoratori stranieri;
non si raggiungeva una completa parità di trattamento.

E in questo contesto, il governo italiano portava le sue responsabilità, poiché essendo impegnato a perseguire una politica di emigrazione, non si preoccupava delle modalità di applicazione reale dei Trattati e dei provvedimenti contenuti nel “Protocollo” del ’46 col Belgio o quelli che sottoscriveva con altri paesi.

Governo e autorità consolari italiane, quindi, in Belgio come in altre realtà, erano concentrati su priorità di carattere demografico ed economico e tralasciavano condizioni, diritti e trattamento reale degli italiani.

Permettetemi, dunque, una parentesi, poiché quest’anno ricorre, insieme al 70° degli accordi Italia-Belgio, del 60° di Marcinelle e quello dell’INCA, anche il centenario della nascita di Paolo Cinanni:

un intellettuale meridionalista ed esperto di emigrazione, cofondatore insieme a Carlo Levi della Filef e autore di quell’importante e attuale libro che è Emigrazione e imperialismo.

Libro che meriterebbe una attenta rilettura in chiave di moderna globalizzazione.
Cinanni scriveva nel 1970 che “l’Italia è l’unico paese della Comunità che attua a sue spese la libera circolazione della manodopera:
l’unico, quindi, che ha interesse a contrattare e a far rispettare, poi, le norme di tutela del lavoro immigrato;
ma come vi ha provveduto il governo italiano?
"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Eugenio Marino, Susanna Camusso, Morena Piccinini a Marcinelle
La stessa lettera dei Trattati di Roma avrebbe richiesto, e consentito anche, un’azione più conseguente e più energica a tutela dei nostri interessi, ma l’errata concezione del fenomeno migratorio in sé, con la sottovalutazione dell’apporto eccezionale che il lavoro immigrato fornisce al processo di sviluppo dell’economia che se ne serve;

il fine politico interno che volle realizzare, con l’emigrazione, la dispersione di una forza di classe antagonista;

e, infine, l’incapacità dei burocrati ministeriali preposti a compiti loro non confacenti, con l’esclusione dei sindacati dalla trattativa comunitaria, tutto ciò ha letteralmente tradito i nostri interessi nazionali, insieme con gli interessi dei nostri lavoratori all’estero.

Potrebbe sembrare follia – prosegue Cinanni – ma la più ferma posizione assunta dal nostro governo è stata proprio quella contro la più forte e prestigiosa organizzazione sindacale italiana, con la più odiosa discriminazione nei suoi confronti:

ciò ha privato il lavoro italiano all’estero dell’apporto di conoscenze e della forza contrattuale propria dell’organizzazione sindacale di classe.

Di fronte al padrone straniero il nostro emigrato è rimasto spesso senza tutela.
I rapporti stessi fra i nostri lavoratori e le imprese straniere non vengono ‘contrattati liberamente’, né dai singoli né dalle organizzazioni sindacali di loro fiducia:

sono invece i funzionari dei nostri ministeri degli affari esteri e del lavoro che accettano per essi, puramente e semplicemente, le condizioni offerte unilateralmente dalle imprese, senza che alcuno si curi poi di farle almeno rispettare.

Parte, dunque, da qui, dalla mancata presenza del sindacato nella trattativa del rapporto fra il nostro lavoratore e l’impresa, fra il nostro paese esportatore e gli altri paesi importatori di manodopera, la deficiente tutela del nostro lavoro all’estero:

da qui il ‘lento progresso’ della stessa politica sociale comunitaria […].

Ministeri, ambasciate e consolati debbono fornire ai legittimi sindacati tutta l’assistenza necessaria per la tutela, sul posto, del nostro lavoro all’estero:
ma non possono, per la loro stessa natura, sostituirsi ad essi”.

E ancora, Cinanni aggiungeva che “È anche merito della vitalità e del dinamismo della popolazione italiana, […]
e soprattutto dell’azione condotta in alcune memorabili lotte combattute nei bacini minerari, […]
se le autorità belghe e della CECA sono state costrette a intervenire e prendere alcuni provvedimenti a loro favore;

[…] è dovuta alla medesima azione unitaria dei lavoratori belgi e stranieri, la conquista della legge sulle malattie professionali, ch’era stata per anni ‘il cavallo di battaglia dell’emigrazione italiana’ in Belgio”.

Questo per dire, dunque, con le autorevoli parole scolpite da Cinanni, quanto non sia sufficiente, non basti, il lavoro dei governi e della politica di uno Stato per garantire integrazione, diritti e progresso degli uomini, dei lavoratori, dei migranti, delle stesse istituzioni europee.

Quanto sia importante anche il lavoro e l’opera dei lavoratori e del mondo associativo, dei corpi intermedi come i sindacati.

Quanto lo era in passato (e oggi possiamo misurarlo) e quanto lo è oggi, anche se non sempre lo vediamo e lo riconosciamo, quindi tendiamo a sottovalutarlo o, peggio, a prenderne le distanze e a procedere per semplificazioni e in solitudine o, al massimo, con interlocutori privilegiati e ben disposti, evitando l’impegno paziente e faticoso del confronto e della concertazione ampia.

E mi spiace che anche pezzi locali e autocentrati del mio Partito si spingano, anche in momenti importanti e delicati come questi, anche in Belgio, nella pericolosa emulazione di modalità ad excludendum dei sindacati, nelle quali la priorità è il proprio ruolo e la compiacenza interna al Partito.

Tralasciando invece il merito e il ruolo degli interlocutori utili e storici come i sindacati, che a discussioni come quelle su Marcinelle, emigrazione e integrazione europea dovrebbero essere coinvolti per le ragioni richiamate da Cinanni già nel 1970.

La storia, soprattutto quella del nostro Paese - ce lo ricordava qualche giorno fa Gianni Cuperlo in una iniziativa a Roma - ci ha insegnato che i risultati migliori e più duraturi non si sono avuti mai quando si è cercato di depotenziare i corpi intermedi, esaltando l’uomo forte e le decisioni in solitaria (da Crispi a Mussolini, da Tambroni a Berlusconi);
ma proprio con la condivisione e la concertazione con i corpi intermedi e la condivisione ampia nella società (da Giolitti a De Gasperi, fino a Prodi).

E in questi contesti ampi e generali, poi, l’emigrazione è stata ed è un termometro che misura se e come funziona una società nei suoi vari aspetti: economici, politici e sociali.

Vorrei quindi proporvi questa lettura, che parte dalle diverse zone di emigrazione o immigrazione:
se il lavoro migrante serve ad accentuare piuttosto che a contenere gli squilibri tra aree e paesi, vuol dire che si è in una logica di un suo uso strumentale e di super sfruttamento delle persone.

Se al contrario il lavoro migrante può contribuire a costruire relazioni più equilibrate tra paesi erogatori e paesi di accoglienza, esso va accolto come positivo.

Vale a dire che la libera circolazione delle persone è certamente un valore in sé dal punto di vista individuale, ma non lo è necessariamente dal punto di vista dei diversi territori (e degli stati) che costituiscono l’Europa.

Per questo vi è bisogno di una funzione politica forte che abbia degli obiettivi riconoscibili di solidarietà interna (e anche esterna, per esempio verso i paesi che circondano il Mediterraneo).

Stare insieme vuol dire condividere (armonizzare come scriveva Cinanni), altrimenti non vi è una ragione particolarmente plausibile.
Le nuove migrazioni oggi ripropongono, se possibile con maggiore forza, gli stessi dilemmi.

Oggi ci troviamo di fronte a scenari che non avremmo voluto conoscere:
sul lavoro migrante e sui migranti in generale si stanno scatenando le contraddizioni irrisolte che Marcinelle ci ha sbattuto in faccia, e frutto del modello di sviluppo che si è perseguito soprattutto negli ultimi decenni e dopo la caduta del Muro di Berlino.

Ciò è inaccettabile da ogni punto di vista:

bisogna ricostruire rapidamente una capacità di lettura condivisa delle vere cause della crisi e, insieme, di unità interna e internazionale del mondo del lavoro che superi realmente divisioni e confini e non metta la persona su un piano secondario a quello dei capitali.

Come oggi purtroppo avviene nella realtà.

Senza queste indispensabili condizioni assisteremo – e concludo – alla fine del sogno europeo, quando invece oggi, dopo la Brexit, servirebbe ancor più un concreto rilancio.

"L'Europa del lavoro e dei diritti. Senza frontiere"
Platea a Marcinelle
Pur nel nostro limitato ambito di azione, quindi, abbiamo anche noi una grande responsabilità:

le vicende dell’emigrazione italiana vecchia e nuova e quelle degli esodi mediorientali e africani, pur nelle loro differenze e articolazioni, sono di nuovo uno degli snodi nevralgici per la costruzione del nostro futuro e del rilancio dell’UE.

Ciò che a mio avviso potrebbe essere una soluzione, come ebbe a dire qualche temo fa anche Romano Prodi, è un primo accordo di pochi grandi paesi dell’Unione che rinuncino alla propria sovranità istituzionale e costituiscano un primo nucleo di Unione realmente politica con un unico esercito, unica cittadinanza e unico governo.

Con politiche sociali, fiscali e del lavoro armonizzate.

Io credo che sia il compito, o la missione, della nostra generazione, non in senso anagrafico, ma quella che oggi guida le istituzioni nazionali ed europee e, soprattutto, la Sinistra di questo Continente.


Anche questo aiuterebbe ad evitare nuovi squilibri nei diritti e nell’emancipazione delle persone, nuove e diverse Marcinelle.

Che oggi magari si chiamano tragedie nel Mediterraneo.

Grazie ancora e buon lavoro a tutti.

lunedì 13 giugno 2016

Italici. Il nuovo Commonwealth come fattore di business per le imprese italiane sui mercati esteri

Questa mattina ho partecipato a Monza al convegno sugli Italici. Ho detto queste poche cose. 
Buona lettura.

 
Buongiorno. Grazie agli organizzatori per aver pensato un evento come questo, che guarda al business italiano in un’ottica innovativa di geopolitica: quella degli italici.
 

Dopo più di 150 anni l’Italia continua a essere un Paese di emigrazione, con una consistente presenza italiana nel mondo.

In questo periodo abbiamo avuto a fasi alterne una politica migratoria.
A volte politiche intelligenti, altre volte politiche inefficaci, altre assenza di politiche generali su questo universo.
Per molto tempo si è discusso – e lo si fa anche oggi – di quali siano i problemi in patria legati all’emigrazione, di come arginarla.
Oggi, poi, va molto di moda la retorica dei “cervelli in fuga”.
Si fanno discussioni, anche corrette, su quanto lo Stato abbia investito nel formare cervelli (o forza lavoro in generale). Di quale perdita rappresenti per l’Italia consegnare questo capitale umano a paesi che ne beneficiano a costo zero.
E si ragiona su politiche che dovrebbero porre un freno a questo esodo e, qualche volta, su provvedimenti che hanno l’illusorio intento di invertire la direzione e far rientrare chi è partito.
Ma raramente si discute seriamente su cosa siano coloro che se sono andati, i loro discendenti, le loro famiglie, coloro che italiani non sono, ma che all’Italia guardano.
Raramente si discute con cognizione e volontà progettuale di cosa sia questa comunità che Bassetti chiama di italici.
E ancor meno si discute di come pensare, valorizzare, mettere l’Italia in connessione sentimentale, culturale, sociale ed economica con gli italici.
Sarebbe già un risultato di compensazione economica rispetto a quanto l’Italia ha investito nel formare cittadini, lavoratori e consumatori, che poi ha regalato a paesi nostri competitor.
Eppure questo universo mantiene un legame con l’Italia, fatto di consanguineità, radice culturale, affetto, interesse (culturale o economico).
Consuma prodotti italiani (dei quali va fiero), crea un substrato fertile che veicola la nostra cultura: intesa come modello di stile di vita e come offerta di prodotti culturali con conseguente risvolto economico.
Si tratta di una collettività fatta di milioni di persone che si rapporta anche istituzionalmente con l’Italia.
E che vorrebbe farlo anche meglio, in modo più strutturato e meno dispersivo da un punto di vista politico e strategico, perché sa di essere un pezzo di politica estera e di proiezione internazionale.
Ma che per farlo avrebbe bisogno di una cabina di regia adeguata, di essere pensata e valorizzata come uno dei pezzi di una megadiplomazia che lavora come sistema Paese a determinati obiettivi.
Una megadiplomazia fatta dalla diplomazia ufficiale, ma anche da quella economica (gli imprenditori), da quella solidale delle ong, da quella della stessa massa umana di italici.
Ma ancora oggi questa comunità valoriale ed economica non è riconosciuta come tale e parte del sistema Paese.
Eppure ha sue istituzioni di rappresentanza articolate in tre livelli:
quello di base dei Comites, che coincide con le circoscrizioni consolari;
quello intermedio del CGIE, che coincide con i livelli statali e continentali, che fa capo alla Farnesina;
quello nazionale parlamentare, fatto di 18 eletti all’estero nei due rami del Parlamento.
Oggi è in corso una riflessione sulla riforma di queste istituzioni e delle realtà associative, che spero porti a un’organicità di strumenti e strategia politica verso le comunità italiche e a un investimento politico (ed economico) in chiave contemporanea in diffusione di lingua, cultura e impresa italiana, di servizi ai cittadini e alle imprese, di valorizzazione e riconoscimento di questo universo italico in un contesto di politica estera e proiezione del sistema Paese.
Sistema che, in una società globalizzata, più di ieri mette al centro gli scambi commerciali a livello planetario:
quindi la circolazione dei prodotti, siano essi materiali, culturali, ideali o politici.
Ma metta al centro questi scambi e prodotti, però, con un approccio progressista, che abbia in mente lo sviluppo sostenibile e le “risorse umane”, o meglio le “Persone”, in particolare le nuove generazioni e gli esponenti della nuova emigrazione e degli italici in generale.
Ciò in quanto le imprese esistono perché c’è gente che vi lavora e investe la propria capacità creativa, oltre che per il capitale che vi è investito.
Occorre evitare che si affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione di penetrazione commerciale e di marketing.
Se ci si muove su scenari globali, a prescindere dalla funzione sociale che anche l’impresa globale dovrebbe assumere rispetto al Paese che l’ha generata o al quale si richiama, si rischia di operare un ulteriore esproprio di valore del territorio e della cultura originale (che è fatta di capitale investito, sì, ma anche di diverse generazioni di lavoratori manuali o intellettuali che questo capitale hanno valorizzato).
Quindi, il profitto deve tornare percentualmente anche a chi lo ha generato e prodotto (siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare solo i capitali investiti. 
Se l’italianità è un valore, occorre ricordare che ci sono voluti 2.000 anni di cultura per concretizzarlo e sarebbe sbagliato appropriarsene solo su un piano economico (che pure deve esserci).
Alla fine degli anni ‘70, la Fondazione Agnelli aveva riconosciuto in un suo bellissimo studio, che la penetrazione commerciale di FIAT all’estero era stata molto agevolata dalla presenza di comunità italiane emigrate.
Significa che l’impresa italiana trae un vantaggio di marketing gratuito dalle comunità italiche.
E se noi questo vantaggio spontaneo lo sappiamo organizzare avremo grandi e ulteriori chance anche ideali.
Ma qual è il contributo che poi da queste nuove chance riversiamo sulle persone e sulla comunità?
Penso ai paesi in via di sviluppo, che non possono considerati solo come mercati di sbocco, dove le nostre comunità siano solo accettori e volani di made in Italy.
Qui occorre dare un forte contributo allo al progresso e all’autosufficienza locale.
In una chiave di nuovo Umanesimo italiano.
Ma rimanendo al piano competitivo e strategico, sappiamo che nel sistema globale si gioca sulla base dei rapporti di forza più che con spirito solidale e redistributivo.
Chi ha più forza, risorse economiche, idee e strumenti, riesce a far circolare i propri prodotti e piazzarli meglio sul mercato globale.
Come sostiene una delle massime menti del marketing globale, Mary Douglas, il prodotto oggi non coincide con il suo contenuto, ma con il suo racconto.
Una regola che vale particolarmente per l’Italia, patria del “Cunto de li Cunti”, che fu forse nel pieno barocco del ‘600 il primo straordinario market place del made in italy, dove la dieta mediterranea veniva declinata lungo la linea della magia della commedia dell’arte.
Oggi siamo alla fase suprema di questa strategia, e proprio in questo tornante il nostro Paese si trova disarmato, senza linguaggi e senza lingue.
In questo senso un tema che ancora oggi è un buco nero, riguarda  la TV italiana nel mondo, che il racconto dell’Italia dovrebbe fare più di altri.
Alle nostre spalle abbiamo anni di esperienze infelici.
Ma al contempo, difronte, una straordinaria domanda di italianità.
Non si tratta, però, di riproporre una TV bandiera, che trasmetta  un palinsesto di quanto va in onda in Patria.
Ma di trasformare un obbligo in una strategis, un costo in un affare.
Le nuove forme della TV (personale, on demand, leggera, mixata) ci consentono di riproporre l’essenza stessa dei nostri prodotti in una versione televisiva.
L’idea è quella che ritorna ogni volta: lavorare sullo sfondo più che sulla scena.
Come spiega il giornalista Rai Michele Mezza, occorre costruire colonne sonore e visive che siano di integrazione e di accompagnamento agli eventi che il made in italy organizza nel mondo e in Italia.
Occorre farne un’agenzia di riconfigurazione dell’offerta comunicativa italiana puntando, ad esempio, sulle agenzie di contenuto italiano come i Festival, l’Auditorium della musica di Roma, la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, le Università di qualità ecc…
Assicurare un striscia di informazione sui primati italiani: il mondo e la politica internazionale letti attraverso la geopolitica dell’eleganza, del gusto, della bellezza e della qualità.
Trasformare i musei in format, facendoli parlare.
Trasformare la TV in un centro di traduzione e reimpaginazione del modo italiano di produrre nei vari settori delle sue imprese che guardano ai mercati esteri.
Rai Italia dovrebbe quindi sviluppare una politica di sponsorizzazioni, alleanze e coordinamento con enti, istituzioni e imprese proiettati all’estero, con gli influencer più rappresentativi (tra i quali gli italici), con i distretti di produzione e di eccellenza in Italia e italiani nel mondo.
Occorrerebbe costruire un sistema audiovisivo che sia una piattaforma di coinvolgimento dove si guardi, si ascolti, ma si interviene anche e si acquista o si chiede, un market place della bellezza da modellare area per area, città per città, settore per settore.
E basti immaginare, in questa direzione, una struttura leggera che seleziona priorità (design italiano negli USA, sfondamento dell’enogastronomia in Cina, moda e design italiani in Sud America, arredo design in Asia e Americhe) e allo stesso tempo funge da editore di pacchetti multimediali, dove il web diventa la fabbrica aperta e la TV un network distributivo.
Il tutto intorno a una visione globale e di medio periodo nella geopolitica italiana.
Insomma, per chiudere, bisogna tornare a darsi una politica per gli italici che porti a considerarli ciò che sono: un pezzo consistente, fondamentale e strategico della presenza e proiezione italiana nel mondo.
Grazie e buon lavoro.