lunedì 11 dicembre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo - Sacco e Vanzetti

Processi migratori e immigratori nella storia dell’ultimo secolo tra accoglienza, pregiudizio, intolleranza e razzismo

Dopo quello di Torino del 2 ottobre, anche in Puglia si è tenuto lo stesso convegno. Avevo preparato la relazione che trovate di seguito, ma poi, vista la platea di giovani musicisti e studenti di musica, visto il clima che si era creato durante gli altri interventi che mi hanno preceduto, ho deciso di parlare a braccio e fare una relazione molto diversa e incentrata anche sulle canzoni che raccontano le vicende, i luoghi e i personaggi che trovate in questa relazione.

Convegno Fondazione Amendola – Consiglio regionale Puglia
Bari, 11 dicembre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo
E. Marino

Buongiorno a tutti.

Voglio ringraziare la Fondazione Amendola, Prospero e Domenico Cerabona per aver organizzato questa interessante discussione e per avermi invitato.

Grazie anche a Mario Loizzo e al Consiglio regionale della Puglia che ci ospita.

E ovviamente grazie a tutti voi che prestate interesse e attenzione per la storica vicenda di Sacco e Vanzetti, per i temi dell’emigrazione italiana e quelli delle migrazioni in genere.

Non è cosa scontata, perché ancora oggi, nel nostro Paese, profondamente caratterizzato da una storia migratoria tra le più importanti del mondo per quantità, continuità storica e dispersione planetaria, viviamo un processo di rimozione sia politico che storico della nostra emigrazione.

Un’emigrazione che non è stata e non è solo “stracciona”, come spesso la si è liquidata, ma interclassista, perché ha visto e vede partire anche un gran numero di “cervelli”, personale altamente scolarizzato e manodopera specializzata.

E se qualcuno prova a ricordare che siamo stati (e siamo ancora) un Paese di migranti, azzardando paragoni con chi oggi sbarca sulle nostre coste, invocando maggiore partecipazione emotiva e solidarietà con chi oggi arriva in Europa con una storia che è comune alla nostra, attira su di se l’aggressione dei benpensanti o dei superficiali, se non degli ignoranti.

Ricordo cosa successe al popolarissimo Gianni Morandi qualche tempo fa: dopo aver fatto sulla sua pagina facebook un parallelismo tra immigrati stranieri di oggi e emigranti italiani di un tempo, fu massacrato da circa seimila commenti, per lo più di critica feroce, antistorica se non razzista.

In quelli che invece non possono negare la nostra storia di migranti, scatta l’atteggiamento di precisazione, che sintetizzo così: “la nostra emigrazione era diversa; noi andavamo per il mondo a lavorare; rispettavamo la legge; ci facevamo apprezzare da tutti”.

Frasi che contengono, insieme, una banale verità, una palese falsità e una populistica semplificazione laddove servirebbe una complessa analisi.

La banale verità deriva dal fatto che è ovvio che andavamo in giro per lavorare (la quasi totalità dell’emigrazione si muove per questo).

La palese falsità è data dal fatto che in realtà, spesso partivamo da clandestini nelle stive delle navi, o attraversando i valichi alpini sui versanti più pericolosi (spesso lasciandoci la vita), costituendo all’estero organizzazioni criminali come la “mano nera” negli USA, i traffici di prostitute nei bordelli nordafricani e di bambini lavoratori nelle vetrerie francesi.

Ricorderete il romanzo del 1878 Senza famiglia, di Hector Malot, nel quale ci si imbatte a Parigi nell’istituto minorile gestito da un italiano che schiavizza in modo brutale e criminale i bambini nelle vetrerie, appunto. Da questo libro fu tratto anche il celebre cartone animato Rémi.

E lo stesso girovago del romanzo, Vitali, era italiano.

La semplificazione populista, infine, sta nel dividere e classificare in modo netto una migrazione rispetto all’altra, un popolo rispetto all’altro.

Se si scava, invece, se si ha la pazienza di conoscere, di ri-conoscere nei migranti di oggi quelli di ieri, si vedrà che le motivazioni che spingono/obbligano alle partenze sono, quelle sì, molto simili nella storia dell’umanità.

Si parte soprattutto per sfuggire alla povertà e alla fame (migranti economici li chiamiamo oggi);
in misura minore per sfuggire a guerre o persecuzioni politiche;

in misura ancora minore per desiderio di partire, per cercare più di ciò che si ha.

Allora guardiamola un po’ più a fondo la nostra emigrazione, che è soprattutto una migrazione economica.


Dopo l’Unità del 1861, che doveva mettere l’Italia tra le grandi potenze europee e fare della Penisola un’unica potenza economica da Torino a Palermo, negli ultimi decenni dell’Ottocento vivevamo invece una profonda crisi economica e sociale.

L’unificazione non aveva prodotto benefici ai ceti deboli, le condizioni di vita per i più erano peggiorate.

Una situazione che aveva sbocco solo nell’emigrazione di massa o nella ribellione di contadini e operai.

In questo clima si affermava la divulgazione delle idee anarchiche e socialiste, in campagna e in città, nel Nord come nel Meridione.

E la rabbia collettiva, negli anni Novanta, trovava sfogo in scioperi, proteste e rivolte.

Lo Stato, di contro, rispondeva duramente con una repressione feroce.
Così, le masse povere che non trovavano risposte dello Stato partivano, soprattutto oltre oceano, e per fame.

Insieme a loro, molti “sovversivi” dovevano fuggire in Europa o al di là dell’Atlantico per sottrarsi agli arresti.

Tra questi molti rivoluzionari di professione, come Pietro Gori.

Persino Gaetano Bresci era emigrato nel New Jersey, dove frequentava i gruppi degli operai tessili anarchici italiani.

E da lì ripartì solo con il preciso intento di tornare in Italia e compiere l’assassinio di Re Umberto I, nel luglio del 1900, per vendicare le repressioni del Governo di Rudinì.
Questa gente, anche negli USA tenne vivo il lavoro di propaganda e di organizzazione rivoluzionaria fra gli immigrati.

Una umanità-comunità che fondò giornali, circoli, sindacati, associazioni di mutuo soccorso. Che si mise alla testa di scioperi e proteste nel Paese del liberismo più esasperato, dell’impresa e della proprietà privata considerate sacre.

E questo movimento non era fatto solo da intellettuali, socialisti e anarchici in esilio.

C’erano migliaia di lavoratori e contadini che avevano preso parte agli scontri sociali in Italia e che entrarono a far parte delle organizzazioni socialiste.


Obiettivo di questo mondo anarchico, socialista, rivoluzionario, era quello di istruire i poveri, gli immigrati maltrattati e discriminati, di liberarli dal potere assoluto degli sfruttatori.


Soprattutto, di sviluppare un pensiero collettivo per creare una coscienza di classe tendente a unirli e rafforzarli per poter rivendicare i propri diritti di persone e di lavoratori.


In questo senso, con quello spirito di comunità che caratterizza più di ogni altra epoca e comunità l’emigrazione italiana, pubblicavano giornali in italiano, libri, fondavano biblioteche, tenevano corsi di italiano e di letture.


Per istruire, far conoscere sé stessi e la loro condizione e classe e di appartenenza.


Far acquisire coscienza.

E con questa, poi, ottenere progresso per i singoli e per la collettività, non solo italiana e migrante.

Proprio in questi corsi si forma, tra gli altri e come autodidatta, Bartolomeo Vanzetti.

E fu proprio grazie a questo senso di comunità, a questa forte spinta ideologica radicale e rivoluzionaria, che si forma anche un movimento operaio italiano in America nei primi anni del XX secolo.


Tra i principali animatori di questo movimento, che parte dalla condizione degli emigrati italiani e si allarga al mondo operaio americano, c’è una prima, importante figura di emigrato, collegato alla vicenda Sacco e Vanzetti: è Arturo Giovannitti.

Giovannitti, di famiglia agiata, emigra in Canada dove fa studi teologici presbiteriani a Montréal.
Quindi ben lontano dal marxismo rivoluzionario.

Poi si trasferisce in Pennsylvania, dove entra in contatto con l’immigrazione italiana nelle miniere di carbone e con il radicalismo italiano, che favorì la contro-conversione alla causa del proletariato.

Si avvicina alla Federazione Socialista Italiana negli USA, della quale dopo qualche anno diventa autorevole dirigente.

Sotto il suo impulso i movimenti di contestazione, soprattutto quelli di ispirazione anarchico-sindacalista, contribuirono a consolidare nei movimenti radicali e nella gran parte delle comunità migranti e di lavoratori che aderivano agli scioperi la linea massimalista.

Si arriva così al momento di più stretta relazione di questo rapporto: lo sciopero di Lawrence, nel 1912, quando viene assassinata una giovane manifestante – Anna Lo Pizzo – e le autorità americane individuano Giuseppe Caruso come esecutore materiale e Arturo Giovannitti e Joseph Ettor come mandanti.

Lo schema giudiziario è semplice: erano emigrati, italiani, anarchici, attentatori non solo dell’ordine costituito, quanto di vite umane.

Quindi parte subito, per i due, un processo che potrebbe concludersi con la condanna alla sedia elettrica, ma che nel breve volgere di qualche mese diventa un caso di discriminazione e mobilitazione internazionale, che anticipa di circa quindici anni proprio quello più noto di Sacco e Vanzetti.

Ma con gli stessi temi di fondo, le identiche matrici ideologiche, la medesima condizione di partenza: l’emigrazione.

Gli emigrati italiani, infatti, in quegli anni nei quali nel mondo si consumava quella che Guccini chiama “la guerra santa dei pezzenti”, erano infatti la massa di pezzenti più massiccia e pericolosa.

Più pericolosa perché più organizzata e che si riconosceva come comunità.
Perché quella più politicizzata e che rappresentava il “terrore rosso”.

Quella che nella massa di lavoratori e immigrati sfruttati, non solo italiani, coltivava i semi dell’anarchia, del sindacalismo rivoluzionario che si portava dall’Europa e, soprattutto, dall’Italia.

Ecco perché la comunità italiana era considerata pericolosa: perché si sentiva comunità; era legata da un tratto ideologico forte e rivoluzionario; era ampia; era organizzata fino a riuscire a incidere pesantemente anche nella vita politica del Paese ospite.

Per questi motivi molti Stati degli USA chiedevano addirittura l’esclusione degli italiani dalle quote di immigrazione.


Esattamente come oggi fa Trump con i musulmani di alcuni paesi arabi, discriminando su base nazionale e religiosa l’ingresso negli USA.

Per questi motivi i nostri diplomatici erano preoccupati, poiché le possibili esclusioni e l’eventuale ridotto numero di lavoratori italiani negli USA avrebbe creato conseguenze pesantemente negative in Italia, soprattutto per ciò che atteneva la bilancia dei pagamenti, venendo meno una parte consistente di rimesse.

Per questi motivi la nostra rete diplomatico-consolare teneva un profilo basso ed era disposta a sacrificare spesso giustizia e richieste di risarcimento danni allo Stato americano negli episodi di attacchi razzisti e xenofbi, che si spingevano a volte fino a veri e propri linciaggi nei confronti degli immigrati italiani.

Com’è ben ricostruito nel libro “Corda e sapone”, di Patrizia Salvetti, circa i linciaggi della Luoisiana.

Per questi motivi la tutela dei nostri emigrati da parte delle nostre autorità era scarsa.

Per questo nascevano e diventavano sempre più forti e consistenti, coese, le associazioni italiane, i sindacati.

Si faceva sentire il senso di coscienza collettiva politica da una parte e di comunità migrate italiana dall’altra.

Gli stessi elementi che spesso, nella storia della nostra emigrazione, si sono incrociati con i partiti, i sindacati e l’associazionismo di Sinistra in Italia, senza mai perdere il filo con la Madrepatria.

Ma questa storia dal forte senso di appartenenze, di comunità nazionale e politica, ci portò da un lato, paradossalmente, a una maggiore integrazione.

Dall’altro a essere discriminati e additati come “ideologizzati”, “estremisti”, “anarchici”, “terroristi”.
E una cosa alimentava l’altra.
E spesso sugli italiani ricadeva il sospetto, se non proprio il complotto.

Per questo si arriva al sospetto/complotto nei confronti di Sacco e Vanzetti, incriminati l’11 settembre del 1920.
Segniamoci questa data, 11 settembre.

Per questo Giovannitti, che circa quindici anni prima aveva vissuto lo stesso destino, diventa uno degli animatori del comitato per la mobilitazione e la difesa di Sacco e Vanzetti.

Per questo, cinque giorni dopo quell’11 settembre del 1920, il 16 settembre, si sospetta e si indaga su Mario Buda (altro anarchico e migrante italiano) per aver fatto saltare con un carretto carico di dinamite Wall Street.

Segnamoci anche questo luogo, Wall street.
Attentato che provoca la morte di 38 persone, il ferimento di altre 143, due milioni di dollari dell’epoca di danni, la distruzione dell’edificio della società J. P. Morgan.
E segniamoci anche questa società, J. P. Morgan.

Il New York Times, il giorno dopo titolava: “Un atto di guerra”.

E segniamoci anche questo titolo, atto di guerra.

Rimase l’attentato terroristico più sanguinoso della storia degli USA fino a quello delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001.

Anche quello venne giudicato “Un atto di guerra”, anche quello fece saltare la società J. P. Morgan, anche quello avvenne a Wall Street, anche quello fu l’11 settembre.

Che paradossi beffardi riserva la storia.
La storia delle migrazioni.

Dunque, ecco che l’emigrazione italiana, quella tradizionale, quella volgarmente detta stracciona o pezzente, perché fatta da milioni di ultimi, di gente che partiva per fame (quindi migranti economici diremmo oggi), si porta alle spalle una storia di stenti, di senso di comunità, di pensiero collettivo, di ideologie, di movimenti per il riscatto individuale e di massa, di discriminazione.

Una vicenda nazionale e collettiva che attraversa più di 150 anni di storia e che non si è conclusa.

Io non ripasso qui l’emigrazione nel ventennio e quella dell’Italia della Prima Repubblica, poiché i tratti comuni rimangono comunque gli stessi a quelli descritti fin qui anche se cambiano le mete e le situazioni storiche.

La nostra emigrazione rimane fino al 1989 una emigrazione economica, massiccia, con uno spiccato senso di comunità e una emigrazione che si muove e costruisce collettivamente, come comunità appunto:

costruisce patrimoni culturali e immobiliari (le mille Casa Italia, i tanti ospedali italiani, le sedi di associazioni ricreative e culturali, quelle regionali, provinciali e cittadine, i tanti sindacati e patronati, l’associazionismo politico e religioso).

Dopo Berlino, dopo l’89, cambia il mondo e cambia la nostra emigrazione.

Non solo e non tanto nella consistenza di quanti emigrano, visto che oggi, comunque, siamo tornati alle cifre migratorie del secondo Dopoguerra e il saldo con l’immigrazione è ancora a favore dell’emigrazione.

Cambia nella composizione sociale; nel rapporto tra vecchia e nuova emigrazione nei paesi nei quali si incrociano; nel rapporto all’interno della stessa nuova emigrazione; nel rapporto, soprattutto, tra emigrazione italiana e Italia.

Oggi partono molti emigrati con un’alta scolarizzazione.

Non solo quelli definiti “cervelli in fuga”, che per alcuni versi proprio perché ricercatori di qualità e scienziati è giusto e doveroso professionalmente che partano e si confrontino con sistemi diversi e ricercatori di altri paesi.

Anche se poi, pur volendo, non hanno modo di tornare, né l’Italia attrae altri stranieri come loro che scelgono invece altre mete e non il nostro Paese, il Paese di Leonardo da Vinci.

Emigrati altamente scolarizzati sono i molti laureati (non necessariamente ricercatori o scienziati), i tanti professionisti, la moltitudine di diplomati, di lavoratori qualificati.
 
E poi la grande massa, comunque, di manodopera semplice.

Un universo di nuovi migranti che continua a lasciare il nostro Paese perché in Italia, semplicemente, non trova lavoro, indipendentemente dal suo livello sociale o di istruzione.



Questa nuova emigrazione, poi, spesso non si incrocia né ha o vuole avere un rapporto con la vecchia emigrazione, quella tradizionale.

Né ha o si vuol dare un suo pensiero collettivo, un suo movimento o coscienza collettiva;
delle sue forme di organizzazione e rappresentanza;

non partecipa o partecipa marginalmente alle attività istituzionali, culturali o regionali delle organizzazioni che l’Italia ha nel mondo e che sono frutto di quella storia antica che ho tentato di raccontare.

Un’emigrazione, insomma, che non si sente parte dell’ampia comunità migrante nel mondo, che non si organizza come tale per rivendicare diritti nei paesi ospiti o nei confronti dell’Italia.

Che, diversamente dall’emigrazione storica, guarda al proprio destino individuale e ai propri problemi da singolo e non da popolo, da migrante isolato in rapporto con il paese che lo ospita come con quello che ha lasciato.

Una emigrazione che difficilmente organizzerà all’estero una manifestazione di rivendicazione per un diritto che ritiene essere anche collettivo, per un sopruso, per una causa che si identifica con la propria storia italiana o con l’Italia:

difficilmente organizzerà una raccolta fondi per costruire una Casa Italia, un ospedale italiano, la sede di un qualsiasi tipo di associazione culturale o ricreativa italiana, un patronato ecc..

Un’emigrazione “liquida”, per usare i parametri di Bauman, fatta di migranti che, rispetto al passato, si muovono, più sull’onda individuale e dell’io che su quella collettiva del noi.

Che apparentemente si sente più cittadina del mondo che cittadina di una nazione;
più lontana dalla politica e dai sindacati che politicizzata e sindacalizzata;
più disillusa dalla politica che partecipe di questa;

più globalista che nazionalista;
più slegata dalle classi sociali che parte di esse.

Quindi un’emigrazione che porta con sé il segno e le contraddizioni dei nostri tempi.

E che da una parte (la nuova emigrazione italiana nel mondo) si isola e si chiude nel privato, rimanendo anonima come comunità e come collettivo;

dall’altra, quella che arriva dai paesi poveri o in via di sviluppo nel Nord del Pianeta e in Occidente, che si identifica in una visione collettiva e ideologica (di matrice religiosa) spesso pericolosamente distorta da ricchissimi potentati economici con precisi interessi geopolitici e globali.

Quegli stessi potentati che spesso organizzano le reti del terrorismo internazionale di matrice integralista e religiosa che non portano ad alcuna forma di riscatto, né individuale né collettivo, delle masse di poveri migranti che strumentalizzano e vorrebbero fintamente rappresentare.

Anzi, alimentano nei loro confronti una ingiusta discriminazione (religiosa, etnica, razziale e sociale);

ne frenano lo sviluppo democratico e rendono più difficile l’integrazione anche nelle società aperte e multietniche.

Eppure la globalizzazione, le condizioni sociali, la politica e le economie del pianeta (in crisi o no), ogni giorno ci danno motivo di pensare che, nel nostro Paese e con la nostra nuova emigrazione, dovremmo tornare a un pensiero collettivo, internazionalista, che parta dal rispetto e dalla centralità della persona, la quale deve avere priorità rispetto all’economia, come ricordava Paolo VI già del 1967 nell’enciclica Populorum progressio.

E in questo senso, ancor di più, si dovrebbe ragionare in termini di comunità che si ri-conosce (al suo interno come italiani e all’esterno con gli immigrati che arrivano da noi), che si organizza, che si dà un progetto.

Ecco perché, a mio avviso, oggi la storia della nostra emigrazione dovrebbe essere fonte di studio approfondito, di conoscenza di bisogni diffusi e di percorsi di integrazione passati attraverso discriminazioni, lotte aspre e sanguinose, successi e riscatti individuali e collettivi, pensiero complessivo.

Dovrebbe essere la lente con la quale guardiamo il mondo, le economie e le nuove migrazioni. Tutte le migrazioni.

Dovrebbe costituire materia di studio interdisciplinare: dalla storia alla letteratura, dalla narrativa all’arte, all’economia, alla geografia politica.

E in Parlamento giacciono anche interessanti proposte di legge in questa direzione che forse andrebbero valutate e discusse anche per capire meglio cosa sta avvenendo oggi sulle nostre coste e i cambiamenti a cui assisteremo nei prossimi decenni con l’esplosione demografica dell’Africa, giovane e povera, e l’invecchiamento dell’Europa, meno ricca e più conservatrice.





In questo, quindi, le vicende personali e collettive della nostra emigrazione nel mondo e negli USA, quelle di Giovannitti, Sacco e Vanzetti e Buda, sono la chiave critica con la quale leggere il liberismo, gli squilibri redistributivi ed economici globali, le ideologie e loro strumentalizzazioni integraliste (politiche o religiose che siano), le migrazioni.

Migrazioni che altro non sono, poi, che l’effetto di questo mescolarsi di fattori che porta e porterà nei prossimi venti anni, masse di milioni di uomini a cercare riscatto.

E che per inseguire questo riscatto sono disposte anche a rischiare la morte e non vi sarà alcuna legge contro l’immigrazione, blocco navale o rimpatri a fermarli.

Perché non si fermeranno? Io me lo spiego così.

Nella tragedia del 18 aprile 2015 nel Mediterraneo, quando morirono circa 900 persone, si salvò un giovane 22enne del Mali: Javaria.

Javaria, che in quella occasione aveva visto morire in mare il fratello e il cugino e aveva rischiato la sua stessa vita, interrogato dagli inquirenti sulla tragedia alla quale era miracolosamente scampato, quando gli hanno chiesto se prima di partire era cosciente di poter morire, ha ribadito con sicurezza queste parole:

“Ho rischiato di morire, ma quel viaggio lo rifarei di nuovo perché, nel mio Paese, morire di fame o di guerra, non è tanto diverso”.

Ecco perché si emigra e perché non è possibile fermare l’emigrazione.

Grazie e buon lavoro.

lunedì 2 ottobre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo - Sacco e Vanzetti


Processi migratori e immigratori nella storia dell’ultimo secolo tra accoglienza, pregiudizio, intolleranza e razzismo

Convegno Fondazione Amendola
Torino, 2 ottobre 2017

Vecchia e nuova emigrazione italiana nel mondo 
Buongiorno a tutti.
E grazie alla Fondazione Amendola, a Prospero e Domenico Cerabona per aver organizzato questa interessante discussione e per avermi invitato.

Grazie al Presidente Mauro Laus e al Consiglio regionale del Piemonte che ci ospita.

Grazie anche a tutti voi che dimostrate interesse e attenzione a questi temi: quelli dell’emigrazione italiana; quelli delle migrazioni in genere.

Il ringraziamento non è scontato, perché spesso, ancora oggi, in un Paese come il nostro, profondamente caratterizzato da una storia migratoria tra le più importanti del mondo per quantità, continuità storica e dispersione planetaria, si ha un processo di rimozione sia storico che politico sulla nostra emigrazione.

E quando qualcuno ricorda che siamo stati un Paese di migranti, azzardando paragoni, invocando maggiore partecipazione emotiva, solidarietà con i migranti che oggi arrivano in Europa e con una vicenda comune, rischia l’aggressione o, almeno verbalmente, la subisce pesantemente.

Ricorderete cosa successe a Gianni Morandi qualche tempo fa: dopo aver azzardato una connessione tra le migrazioni fu massacrato sulla sua pagina facebook da circa seimila commenti per lo più di critica feroce e antistorica.

In quelli che invece non possono negare la nostra storia di migranti, scatta l’atteggiamento di precisazione, che si può sintetizzare così: “no la nostra emigrazione era diversa; noi andavamo per il mondo a lavorare; rispettavamo la legge; ci facevamo apprezzare da tutti”.

Frasi che contengono in sé, contemporaneamente, una banale verità, una palese falsità e una populistica semplificazione laddove servirebbe una complessa analisi”.

La banale verità deriva dal fatto che è ovvio che andavamo in giro per lavorare (la quasi totalità dell’emigrazione si muove per questo).

La palese falsità è data, volendo, dal fatto che in realtà, spesso partivamo da clandestini nelle stive delle navi, o attraversando i valichi alpini sui versanti più pericolosi (spesso lasciandoci la vita), costituendo all’estero associazioni criminali come la “mano nera” negli USA, i traffici di prostitute nei bordelli nordafricani e di bambini lavoratori nelle vetrerie francesi.

Ricorderete il romanzo del 1878 Senza famiglia, di Hector Malot, nel quale ci si imbatte a Parigi nell’istituto gestito da un italiano che schiavizza in modo brutale e criminale i bambini nelle vetrerie, appunto. Da questo libro fu tratto anche il celebre cartone animato Rémi.

La semplificazione populista sta nel dividere e classificare in modo netto una migrazione rispetto all’altra, un popolo rispetto all’altro.

Se si scava, invece, se si ha la pazienza di conoscere, di ri-conoscere nei migranti di oggi quelli di ieri, si vedrà che le motivazioni che spingono/obbligano alle partenze sono, quelle sì, molto simili nella storia dell’umanità.

Si parte in gran parte per sfuggire alla povertà e alla fame (migranti economici li chiamiamo oggi);
in misura minore per sfuggire a guerre o persecuzioni politiche;
in misura ancora minore per desiderio di partire, cioè per eccellere in qualcosa o per cercare più di ciò che si ha, pur avendo nel proprio Paese tutto ciò che servirebbe per vivere.

Allora guardiamola un po’ più a fondo la nostra emigrazione.
Dal 1861 in poi.

Parto da questa data perché dopo l’Unità, che doveva mettere l’Italia tra le grandi potenze europee e fare della Penisola un’unica potenza economica da Torino a Palermo, negli ultimi decenni dell’Ottocento vivevamo invece una profonda crisi economica e sociale.
L’unificazione non aveva prodotto benefici ai ceti deboli, le condizioni di vita per i più erano peggiorate.
Una situazione che avevo sbocco solo nell’emigrazione di massa o nella ribellione di contadini e operai.

In questo clima si affermava la divulgazione delle idee anarchiche e dell’ideologia socialista, in campagna e in città, nel Nord come nel Meridione.

E la rabbia collettiva, negli anni Novanta, trovava sfogo in scioperi, proteste e rivolte.
Lo Stato, di contro, rispondeva duramente con una repressione feroce.

Così le masse affamate che non trovavano risposte dello Stato partivano, soprattutto oltre oceano, e per fame.

Insieme a loro, molti “sovversivi” dovevano fuggire in Europa o al di là dell’Atlantico per sfuggire agli arresti.

Tra questi molti rivoluzionari di professione, come Pietro Gori.

Persino Gaetano Bresci era emigrato nel New Jersey, dove frequentava i gruppi degli operai tessili anarchici italiani.
E da lì ripartì solo con il preciso intento di tornare in Italia e compiere l’assassinio di Re Umberto I, nel luglio del 1900, per vendicare le repressioni del Governo Di Rudinì.

Questa gente, anche negli USA tenne vivo il lavoro di propaganda e di organizzazione rivoluzionaria fra gli immigrati.

Una umanità-comunità che fondò giornali, circoli, sindacati, associazioni di mutuo soccorso. Che si mise alla testa di scioperi e proteste nel Paese del liberismo più esasperato, dell’impresa e della proprietà privata considerate sacre.

E questo movimento non era fatto solo da intellettuali, socialisti e anarchici in esilio.
C’erano migliaia di lavoratori e contadini che avevano preso parte agli scontri sociali in Italia e che entrarono a far parte delle organizzazioni socialiste.

Obiettivo di questo mondo anarchico, socialista, rivoluzionario, era quello di istruire i poveri, gli immigrati maltrattati e discriminati, di liberarli dal potere assoluto degli sfruttatori.

Soprattutto, di sviluppare un pensiero collettivo per creare una coscienza di classe tendente a unirli e rafforzarli per poter rivendicare i propri diritti di persone e di lavoratori.

In questo senso, con quello spirito di comunità che caratterizza più di ogni altra epoca e comunità l’emigrazione italiana, pubblicavano giornali in italiano, libri, fondavano biblioteche, tenevano corsi di italiano e di letture.

Per istruire, far conoscere sé stessi e la loro condizione e classe e di appartenenza.
Far acquisire coscienza.
E con questa, poi, ottenere progresso per i singoli e per la collettività, non solo italiana e migrante.
Proprio in questi corsi si forma, tra gli altri e come autodidatta, Bartolomeo Vanzetti.

E fu proprio grazia a questo senso di comunità, a questa forte spinta ideologica radicale e rivoluzionaria, che si forma anche un movimento operaio italiano in America nei primi anni del XX secolo.

Tra i principali animatori di questo movimento, che parte dalla condizione degli emigrati italiani e si allarga al mondo operaio americano, c’è una prima, importante figura di emigrato italiano, collegato alla vicenda Sacco e Vanzetti: è Arturo Giovannitti.

Giovannitti, di famiglia agiata, emigra in Canada dove fa studi teologici presbiteriani a Montréal.
Quindi ben lontano dal marxismo rivoluzionario.

Poi si trasferisce in Pennsylvania, dove entra in contatto con l’immigrazione italiane nelle miniere di carbone e con il radicalismo italiano, che favorì la contro-conversione alla causa del proletariato.

Si avvicina alla Federazione Socialista Italiana negli USA, della quale dopo qualche anno diventa autorevole dirigente.

Sotto il suo impulso i movimenti di contestazione, soprattutto quelli di ispirazione anarchico-sindacalista, contribuirono a consolidare nei movimenti radicali e nella gran parte delle comunità migranti e di lavoratori che aderivano agli scioperi la linea massimalista.

Si arriva così al momento di più stretta relazione di questo rapporto: lo sciopero di Lawrence, nel 1912, quando viene assassinata una giovane manifestante – Anna Lo Pizzo – e le autorità americane individuano Giuseppe Caruso come esecutore materiale e Arturo Giovannitti e Joseph Ettor come mandanti.

Lo schema era semplice: erano emigrati, italiani, anarchici, attentatori non solo dell’ordine costituito, quanto di vite umane.

Quindi parte subito, per i due, un processo che potrebbe concludersi con la condanna alla sedia elettrica, ma che nel breve volgere di qualche mese diventa un caso di discriminazione e mobilitazione internazionale, che anticipa di circa quindici anni proprio quello più noto di Sacco e Vanzetti.

Ma con gli stessi temi di fondo, le identiche matrici ideologiche, la medesima condizione di partenza: l’emigrazione.

Gli emigrati italiani, infatti, in quegli anni nei quali nel mondo si consumava quella che Guccini chiama “la guerra santa dei pezzenti”, erano infatti la massa di pezzenti più massiccia e pericolosa.

Più pericolosa perché più organizzata e che si riconosceva come comunità.
Perché quella più politicizzata e che rappresentava il “terrore rosso”.
Quella che nella massa di lavoratori e immigrati sfruttati, non solo italiani, coltivava i semi dell’anarchia, del sindacalismo rivoluzionario che si portava dall’Europa e, soprattutto, dall’Italia.

Ecco perché la comunità italiana era considerata pericolosa: perché si sentiva comunità; era legata da un tratto ideologico forte e rivoluzionario; era ampia; era organizzata fino a riuscire a incidere pesantemente anche nella vita politica del Paese ospite.

Per questi motivi molti Stati degli USA chiedevano addirittura l’esclusione degli italiani dalle quote di immigrazione.

Per questi motivi i nostri diplomatici erano preoccupati, poiché le possibili esclusioni e l’eventuale ridotto numero di lavoratori italiani negli USA avrebbe creato conseguenze pesantemente negative in Italia, soprattutto per ciò che atteneva la bilancia dei pagamenti, venendo meno una parte consistente di rimesse.

Per questi motivi la nostra rete diplomatico-consolare teneva un profilo basso ed era disposta a sacrificare spesso giustizia e richieste di risarcimento danni allo Stato americano negli episodi di attacchi razzisti e xenofbi, che si spingevano a volte fino a veri e propri linciaggi nei confronti degli immigrati italiani.

Per questi motivi la tutela dei nostri emigrati da parte delle nostre autorità era scarsa.

Per questo nascevano e diventavano sempre più forti e consistenti, coese, le associazioni italiane, i sindacati. Si faceva sentire il senso di coscienza collettiva politica da una parte e di comunità migrate italiana dall’altra.

Gli stessi elementi che spesso, nella storia della nostra emigrazione, si sono incrociati con i partiti, i sindacati e l’associazionismo di Sinistra in Italia, senza mai perdere il filo con la Madrepatria.

Ma questa storia dal forte senso di appartenenze, di comunità nazionale e comunità politica, ci portò da un lato, paradossalmente, a una maggiore integrazione, dall’altro ad essere discriminati e additati come “ideologizzati”, “radicali”, “anarchici”, “terroristi”.
E una cosa alimentava l’altra.

E spesso sugli italiani ricadeva il sospetto, se non proprio il complotto.
Per questo si arriva al sospetto/complotto nei confronti di Sacco e Vanzetti, incriminati l’11 settembre del 1920.
Segniamoci questa data, 11 settembre.

Per questo Giovannitti, che circa quindici anni prima aveva vissuto lo stesso destino, diventa uno degli animatori del comitato per la mobilitazione e la difesa di Sacco e Vanzetti.

Per questo, cinque giorni dopo l’11 settembre del 1920, il 16 settembre, si sospetta e si indaga su Mario Buda (algtro anarchico e migrante italiano) per aver fatto saltare con un carretto carico di dinamite Wall Street.

Attentato che provoca la morte di 38 persone, il ferimento di altre 143, due milioni di dollari dell’epoca di danni, la distruzione dell’edificio della società Morgan (segniamoci anche questo).

Il New York Times, il giorno dopo titolava: “Un atto di guerra”.

Rimase l’attentato terroristico più sanguinoso della storia degli USA fino a quello delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001.

Anche quello venne giudicato “Un atto di guerra”.

Dunque, ecco che l’emigrazione italiana, quella tradizionale, quella volgarmente detta stracciona o pezzente, perché fatta da milioni di ultimi, di gente che partiva per fame (quindi migranti economici diremmo oggi), si porta alle spalle una storia di stenti, di senso di comunità, di pensiero collettivo, di ideologie, di movimenti per il riscatto individuale e di massa, di discriminazione.

Una vicenda nazionale e collettiva che attraversa più di 150 anni di storia e che non si è conclusa.

Io non ripasso qui l’emigrazione nel ventennio e quella dell’Italia della Prima Repubblica, poiché i tratti comuni rimangono comunque gli stessi a quelli descritti fin qui anche se cambiano le mete e le situazioni storiche.

La nostra emigrazione rimane fino all’89 una emigrazione economica, massiccia (a fasi più o meno intense a seconda di come cambiavano le condizioni economiche del Paese), con uno spiccato senso di comunità e una emigrazione che si muove e costruisce collettivamente, come comunità appunto:

costruisce patrimoni culturali e immobiliari (le mille Casa Italia, i tanti ospedali italiani, le sedi di associazioni ricreative e culturali, quelle regionali, provinciali e cittadine, i tanti sindacati e patronati, l’associazionismo politico e religioso).

Dopo Berlino, dopo l’89, cambia il mondo e cambia la nostra emigrazione.
Non solo e non tanto nella consistenza di quanti emigrano, visto che oggi, comunque, siamo tornati alle cifre migratorie del secondo Dopoguerra e il saldo con l’immigrazione è ancora a favore dell’emigrazione.

Cambia nella composizione sociale; nel rapporto tra vecchia e nuova emigrazione nei paesi nei quali si incrociano; nel rapporto all’interno della stessa nuova emigrazione; nel rapporto, soprattutto, tra emigrazione italiana e Italia.

Oggi partono molti emigrati con un’alta scolarizzazione.
Non solo quelli definiti “cervelli in fuga”, che per alcuni versi proprio perché ricercatori di qualità e scienziati è giusto e doveroso professionalmente che partano e si confrontino con sistemi diversi e ricercatori di altri paesi.
Anche se poi, pur volendo, non hanno modo di tornare, né l’Italia attrae altri stranieri come loro che scelgono invece altre mete e non l’Italia.

Emigrati altamente scolarizzati sono i molti laureati (non necessariamente ricercatori o scienziati), i molti professionisti, i molti diplomati, i molti lavoratori qualificati.

E poi la grande massa, comunque, di manodopera semplice.

Un universo di nuovi migranti che continua a lasciare il nostro Paese perché in Italia, semplicemente, non trova lavoro, indipendentemente dal suo livello sociale o di istruzione.

Questa nuova emigrazione, poi, spesso non si incrocia né ha o vuole avere un rapporto con la vecchia emigrazione, quella tradizionale.

Né ha o si vuol dare un suo pensiero collettivo, un suo movimento o coscienza collettiva; delle sue forme di organizzazione e rappresentanza; non partecipa o partecipa molto marginalmente alle attività istituzionali, culturali o regionali delle organizzazioni che l’Italia ha nel mondo e che sono frutto di quella storia antica che ho tentato di raccontare.

Un’emigrazione, insomma, che non si sente parte dell’ampia comunità migrante nel mondo, che non si organizza come tale per rivendicare diritti nei paesi ospiti o nei confronti dell’Italia.

Che, diversamente dall’emigrazione storica, guarda al proprio destino individuale e ai propri problemi da singolo e non da popolo, da migrante isolato in rapporto con il paese che lo ospita come con quello che ha lasciato.

Una emigrazione che difficilmente organizzerà all’estero una manifestazione di rivendicazione per un diritto che ritiene essere anche collettivo, per un sopruso, per una causa che si identifica con la propria storia italiana o con l’Italia: difficilmente organizzerà una raccolta fondi per costruire una Casa Italia, un ospedale italiano, la sede di un qualsiasi tipo di associazione culturale o ricreativa italiana, un patronato ecc..

Un’emigrazione fatta di migranti che, rispetto al passato, si muovono, in linea con i tempi, più sull’onda individuale che su quella collettiva.

Che apparentemente si sente più cittadina del mondo che cittadina di una nazione; più lontana dalla politica e dai sindacati che politicizzata e sindacalizzata; più disillusa dalla politica che partecipe di questa; più globalista che nazionalista; più slegata dalle gabbie o classi sociali che inquadrata in esse.

Quindi un’emigrazione che porta con sé il segno e le contraddizioni dei nostri tempi.
E che da una parte (la nuova emigrazione italiana nel mondo) si isola e si chiude nel privato, rimanendo anonima come comunità e come collettivo;

dall’altra, quella che arriva dai paesi poveri o in via di sviluppo nel Nord del Pianeta e in Occidente, che si identifica in una visione collettiva e ideologica (di matrice religiosa) spesso pericolosamente distorta da ricchissimi potentati economici con interessi geopolitici e globali.

Quegli stessi potentati che spesso organizzano le reti del terrorismo internazionale di matrice integralista e religiosa che non portano ad alcuna forma di riscatto, né individuale né collettivo, delle masse di poveri migranti che strumentalizzano e vorrebbero fintamente rappresentare.

Anzi, alimentano nei loro confronti una ingiusta discriminazione (religiosa, etnica, razziale e sociale), ne frenano lo sviluppo democratico e rendono più difficile l’integrazione anche nelle società aperte e multietniche.

Eppure la globalizzazione, le condizioni sociali, la politica e le economie del pianeta (in crisi o no), ogni giorno ci danno motivo di pensare che, nel nostro Paese e con la nostra nuova emigrazione, dovremmo tornare a un pensiero collettivo, internazionalista, che parta dal rispetto della persona, la quale deve avere priorità rispetto all’economia.

E in questo senso, ancor di più, si dovrebbe ragionare in termini di comunità che si ri-conosce (al suo interno come italiani e all’esterno con gli immigrati che arrivano da noi), che si organizza, che si dà un progetto.

Ecco perché, a mio avviso, oggi la nostra emigrazione dovrebbe essere fonte di studio approfondito, di conoscenza di bisogni diffusi e di percorsi di integrazione passati attraverso discriminazioni, lotte aspre e sanguinose, successi e riscatti individuali e collettivi.
Dovrebbe essere la lente con la quale guardiamo il mondo, le economie e le nuove migrazioni. Tutte le migrazioni.

In questo, le vicende personali e collettive della nostra emigrazione nel mondo e negli USA, quelle di Giovannitti, Sacco e Vanzetti e Buda, sono la chiave critica con la quale leggere il liberismo, gli squilibri redistributivi ed economici globali, le ideologie e loro strumentalizzazioni integraliste (politiche o religiose che siano), le migrazioni.
Migrazioni che altro non sono, poi, che l’effetto di questo mescolarsi di fattori che porta masse di milioni di uomini a cercare riscatto, ad ogni costo.

Grazie e buon lavoro.

sabato 30 settembre 2017

L’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD



Oggi ho partecipato alla conferenza organizzata dal Gruppo PD della Camera, dal titolo "Il PD per gli italiani all’estero. Una legislature feconda”.

Mi era stato chiesto di riflettere sul tema "L’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD". L'ho fatto dicendo queste cose, per chi avesse voglia ascoltarle o leggerle.

Per vedere l'audiovideo dell'intervento riportato sotto clicca qui

Buongiorno.
Ringrazio il Gruppo PD alla Camera e gli organizzatori di questo Congegno.
Mi fa piacere avere l’opportunità di riflettere “sull’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD”.

Non è un tema solo politico ed elettorale.
È anche culturale e nazionale, nel senso di interesse e identità nazionale.

Credo, infatti, che da questo rapporto con il Partito cardine della nostra democrazia e di ogni snodo di Governo, passi il destino delle nostre comunità e il loro rapporto con l’Italia.

Già nel 2011, in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, come PD e grazie all’impulso dell’allora presidente del Centro studi Gianni Cuperlo, tenemmo il partecipatissimo seminario “Una grande Italia oltre l'Italia”, nel quale tentammo una riflessione sul ruolo delle nostre comunità nel mondo e della loro evoluzione in rapporto alla storia d’Italia.

Spiegammo quanto l’opera di un grande Partito che raccoglie il meglio della tradizione politica italiana fosse strumento determinante per il destino del Paese e delle nostre comunità e, in questa direzione, ci demmo degli obiettivi di Governo per la successiva legislatura, quella che sta per terminare.

Obiettivi che sono stati in parte realizzati grazie al nostro Partito, ai gruppi di Camera e Senato e ai governi di questi anni.
Ma di quella parte di obiettivi che rappresentavano l’emergenza, la quotidianità; interventi non strutturali, senza effetti nel lungo periodo.

Interventi frutto di un progetto strategico di Stato in una prospettiva di lungo termine.

Tornerò alla fine a riprendere questo punto e il ruolo del PD in rapporto alle nostre comunità e al loro destino, rispetto all’Italia.

Ci arriverò attraverso un excursus storico e quasi per titoli, visti i tempi.

La nostra emigrazione storica, a partire da fine Ottocento, è stata fenomeno di massa: una diaspora quasi unica nella storia dell’umanità se si considera il complesso dei fattori: volume di partenze; continuità nel tempo di queste partenze; dispersione planetaria dei nostri migranti.

E oggi il fenomeno non si è arrestato, poiché continuiamo a essere Paese di emigrazione, tanto che il saldo tra immigrati ed emigrati è ancora a favore dei secondi e le cifre che riguardano gli emigrati sono tornate ai livelli degli anni dell’emigrazione del Dopoguerra, soprattutto se aggiungiamo anche coloro che partono senza iscriversi all’AIRE.

L’antica emigrazione storica, pur essendo fin dall’inizio e quasi esclusivamente una emigrazione di manodopera non qualificata, pur disperdendosi in gran parte oltre oceano, non disponendo di sufficienti  risorse economiche, di strumenti tecnologici e mezzi di trasporto veloce (aerei, e treni a grande velocità), ha sempre tenuto un rapporto strettissimo con la madrepatria e ha sempre avvertito e praticato con forza il senso di comunità.

Intorno a questo sentimento di appartenenza, ha costruito la propria identità cosmopolìta, l’identità “italica” (ne hanno parlato egregiamente Piero Bassetti nei suoi studi e Fabio Porta in questo convegno), ha costruito un patrimonio culturale e perfino immobiliare fatto di migliaia di splendidi edifici sedi di tante “Casa Italia”, di centri culturali e sportivi, di una miriade di sedi di associazioni regionali, provinciali e cittadine.

Ha costruito società di mutuo soccorso, si è costituita in organizzazioni sindacali e di patronato, ha lavorato a difendere da sé, soprattutto dove lo Stato non arrivava, i propri diritti di lavoratori, di perseguitati, di discriminati.

Ha costruito i propri organismi di rappresentanza.
Tutto intorno a un senso di comunità forte e radicato.

Ha costruito e spesso guidato lotte sindacali e di rivendicazione di diritti dell’intero mondo del lavoro che hanno trascinato movimenti operai e di masse di paesi come gli USA:

basti ricordare ciò che fece Arturo Giovannitti all’inizio del Novecento e di come la sua attività di ispirazione socialista e anarco-sindacalista e la sua vicenda giudiziaria anticiparono di circa quindici anni quelle più note di Sacco e Vanzetti, anche sul piano della mobilitazione internazionale.

Allo stesso tempo ha costruito imperi economici che hanno segnato perfino la storia del sistema bancario:
si pensi alla vicenda di Amedeo Giannini, che fonda negli USA la Bank of Italy, per consentire agli emigrati italiani di spedire i risparmi ai propri familiari in Italia a costi bassissimi.

Che elabora un sistema di prestiti sulla parola ai più poveri – italiani e non – colpiti dal catastrofico terremoto di San Francisco del 1906 mettendo insieme sentimento di comunità e spirito solidaristico, creando un sistema fiduciario che porta anche coloro che non hanno mai affidato i propri risparmi a una banca a fidarsi di lui – e solo di lui, dell’italiano – per i propri investimenti dopo la ricostruzione.

Quella banca oggi si chiama Bank of America, nata come banca degli ultimi e divenuta banca di tutti, oltre che la più grande banca del mondo.

Nata dall’idea di un italiano e dal suo sentirsi italiano e parte di una comunità.

E anche durante il Fascismo, quando Stato e Partito nazionale Fascista coincidevano, quando gli esuli politici si rifugiavano in Svizzera e il mondo associativo e solidaristico si costituiva in “Colonie libere”, per sottolineare che il mondo associativo italiano non era fascistizzabile, ma era appunto libero (libero significava ovviamente di Sinistra, perché opposto al Fascismo), il vero tratto identitario italiano e quello sociale, antifascista e di Sinistra caratterizzavano le nostre comunità e incrociavano ancora i destini della Sinistra e delle nostre comunità con l’Italia.

Poi venne il secondo Dopoguerra e l’era degasperiana e democristiana.
Periodo in cui l’Italia entra in nuovo sistema costituzionale, antifascista, caratterizzato dalla dialettica democratica tra mondo democristiano e cattolico e mondo socialista e comunista.

Una dialettica che plasma anche le nostre comunità tra, da una parte,  il PCI e il PSI, le gradi forze sindacali e il mondo associativo che vi ruotano intorno e dall’altra la DC, la Chiesa e il mondo cattolico.

Ma è ancora il mondo del sociale, di ispirazione cristiana o di matrice marxista, che fa la politica e organizza le nostre comunità, da Marcinelle all’Australia, da Mattmark all’Argentina, da Lussemburgo all’Uruguay fino a Berlino.

Già Berlino!
È quella città che, a mio modesto parere, segna nell’89 lo spartiacque nell’evoluzione dei rapporti tra comunità all’estero e partiti, quindi con la madrepatria.

Per molto tempo, durante il fascismo e soprattutto dal secondo Dopoguerra e fino all’89, l’Italia aveva riflettuto, pur con fasi alterne e con approcci diversi, su cosa fossero e come andassero inquadrate le nostre comunità nel mondo, come potevano rapportarsi al sistema Paese.

Nell’Italia democristiana, erano perfettamente inquadrati e incasellati e costituivano un serbatoio economico di rimesse che servivano per finanziare l’ammodernamento del Paese e molto altro.

Ci piaccia o no. Non importa. Erano tuttavia inquadrati in una precisa visione dallo Stato.

E ci furono precisi momenti nei quali lo Stato – e poi a scalare i Partiti nella propria dialettica e diversa visione del mondo – rifletteva su queste comunità, sul loro rapporto con l’Italia e quindi sulle politiche da programmare per questo universo.

Alcuni di questi importanti momenti furono le Conferenze nazionali per l’emigrazione. La prima si tenne a Roma nel 1975 e la seconda nel 1988.

In quell’occasione persino Papa Giovanni Paolo II ricevette i delegati esteri e tenne un importante discorso, ricordando l’opera della Chiesa verso gli emigrati e le figure di monsignor Geremia Bonomelli, Giovanni Scalabrini e santa Francesca Cabrini (della quale quest’anno ricade il centenario della morte).
 
Lo fece in continuità con l’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, nonostante i tempi mutati, sottolineando l’arrivo di una “legislazione nazionale e internazionale che sancisce i fondamentali diritti dei lavoratori, tra cui il diritto al ricongiungimento con i propri familiari, il diritto di prendere parte alla vita sociale, sindacale e, almeno parzialmente, a quella politica”.

Sottolineava come “l’uomo [sia] l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” e che dovesse essere “l’economia a doversi adattare alle esigenze della persona e alle sue forme di vita e non viceversa”.

E il Papa si compiaceva del fatto che quelle sue preoccupazioni fossero vivamente sentite e tenute presenti nell’impegno sociale, sindacale e politico degli emigrati.

Aggiungeva anche “la convinzione che alcuni problemi, divenuti planetari, hanno bisogno di ampia solidarietà, e che tante soluzioni sono possibili soltanto con politiche che superino le barriere nazionali”: cosa che “giova molto alle cause dei migranti”.
Chiudeva sugli immigrati del Terzo Mondo e i profughi, quasi profetizzando come “a lungo termine nessun Paese benestante potrà difendersi dall’assalto di tanti uomini che hanno poco o nulla per vivere”, chiedendo di attrezzarsi per una “ordinata e rispettosa convivenza di diversi gruppi etnici e di diverse razze”.
E poi esortava le istituzioni a “intensificare ogni sforzo teso a coordinare le iniziative, a finalizzare sempre meglio gli interventi”.
Tutta questa elaborazione di tradizione cristiana, questa riflessione voluta dai Governi degli anni 70 e 80, trovava eco in un tratto sociale e solidaristico, di comunità, anche nelle conferenze sull’emigrazione del PCI, nell’opera e nei discorsi di Carlo Levi e Paolo Cinanni, nell’elaborazione di tradizione marxista.

L’incontro – e persino lo scontro – tra queste due anime, la riflessione comune in importanti momenti della storia nazionale, sfociava poi nell’individuazione di una politica pubblica per l’emigrazione rispetto alla quale i singoli Partiti potevano confrontarsi in termini elettorali.
Poi venne, appunto, Berlino e il mondo cambiò.
Come cambiò l’Italia e la storia di DC e PCI.
Arrivò, subito dopo, Tangentopoli e fece irruzione sulla scena Berlusconi.

Da qual momento in poi, a me pare, i fili tra l’Italia e le sue comunità nel mondo sono andati progressivamente assottigliandosi.

Ciò è avvenuto, paradossalmente, nel momento in cui forse c’erano da trarre i maggiori frutti di questa nostra storia di esodi.

L’elaborazione si è un po’ persa, il riassetto dello Stato non ha previsto un pensiero e una seria politica pubblica verso gli italiani nel mondo.

Tra ’96 e 2001, anche grazie all’impulso di Piero Fassino, allora sottosegretario agli esteri e di Mirko Tremaglia, si è arrivati all’introduzione della rappresentanza parlamentare estera e poi al voto per corrispondenza, obiettivi rivendicati nei decenni precedenti da tutto il mondo dell’emigrazione e riconosciuti dalla precedente Conferenza Nazionale dell’88.

Ma all’inizio degli anni 2000 si è anche fermata la riflessione e l’attenzione pubblica dello Stato, come se l’introduzione della Circoscrizione Estero e dei parlamentari, da soli, potessero bastare.

Condannando così all’isolamento gli stessi Parlamentari.

Gli ultimi tentativi di una riflessione complessiva di Stato furono la “Conferenza dei parlamentari di origine italiana nel mondo” del novembre 2000, e la successiva prima Conferenza degli italiani nel mondo del dicembre dello stesso anno, sotto lo slogan di “emigrazione come risorsa”.

Intuizione valida, ma poco praticata.

Da allora il mondo ha continuato a cambiare più velocemente di quanto potessimo pensare, le nostre comunità sono ormai molto diverse socialmente, economicamente, culturalmente da quelle che avevamo di fronte quasi 20 anni fa.

E gli stessi partiti italiani sono del tutto diversi.

L’unico filo comune che lega l’evoluzione delle nostre comunità allo Stato italiano è la tradizione popolare, culturale e sociale frutto delle ispirazioni cristiana e socialista confluite nel PD.

Ecco perché, se davvero oggi riteniamo di essere l’architrave democratico del Paese, anche quello sparso nel mondo, come Partito Democratico abbiamo la responsabilità e il dovere di passare dalla fase delle politiche di emergenza, della quotidianità e degli interventi a breve termine, a una politica di adeguamento e di ripensamento complessivo delle nostre composite comunità e del loro rapporto con il Paese, in termini di complessità, sussidiarietà, integrazione locale, modernità e impresa etica.

Dobbiamo farlo stimolando la riflessione da principale forza di Governo, da reale forza di rappresentanza dell’universo italiano all’estero capace di tenere insieme vecchie e nuove migrazioni, tradizione e nuovi bisogni, opportunità e innovazione.

Anche sulla scia di quanto detto ieri da Marina Sereni.

Dovremmo farlo mettendo nel nostro programma per la prossima legislatura una nuova Conferenza sugli italiani nel mondo – o meglio sugli italici e sui nuovi giovani migranti – da impegnarci a convocare già nel 2018. (Proprio quella dei giovani di qualche anno fa aveva dato buone speranze, ma fu poi abbandonata).

Una conferenza istituzionale, che veda la partecipazione di Presidenza della Repubblica, presidenze di Camera e Senato e Ministero degli esteri.
Una Conferenza nazionale che ridia al Paese una visione complessiva dello Stato verso le nostre comunità, che tra l’altro sono cresciute, in un decennio, di oltre 1,5 milioni di persone e che, probabilmente, continueranno a crescere.

Se non lo faremo, rimarremo nel guado nel quale siamo da molti anni, vanificando anche l’introduzione della Circoscrizione estero che ormai ha compiuto undici anni.

Se lo faremo potremo rafforzare quei fili assottigliati che ci legano a quel mondo che ho tentato di riassumere e magari a capire meglio, proprio attraverso l’emigrazione, cosa siamo e come possiamo evolvere come Sistema Paese.

Ultima nota.
ATTENZIONE! ATTENZIONE!
Lo dico con la solennità che la cosa merita: il PD è stato in questi suoi dieci anni di vita l’erede di quella tradizione cristiana e socialista a cui ho accennato e l’architrave politico e democratico nelle nostre comunità all’estero.

È stato il Partito che ha saputo tenere insieme quell’universo vario di mondo politico di centrosinistra, di mondo sindacale, di realtà associative laiche e cattoliche, di impresa cooperativa.

Lo è stato fino al 2013.
Oggi rischia l’isolamento, rischia di arrivare al 2018 sfibrato e alleggerito, non più punto di riferimento e collante delle nostre collettività e delle nostre migliori tradizioni e realtà associative, ma collettore di rabbie, frustrazioni e generatore di divisioni del nostro stesso campo.

Sarebbe una disfatta non solo per il PD, ma per le altre forze di Sinistra, per le tradizioni che ho provato a raccontare, in definitiva, per le nostre comunità.

Ecco perché, dicevo all’inizio, dal rapporto tra comunità italiane nel mondo e PD passa in buona parte il destino delle nostre stesse comunità e il loro rapporto con l’Italia.

Facciamo di tutto perché ciò non avvenga.
E chi ha ruoli anche all’estero, quanto più importanti, non li usi per esercitare prepotenza e coercizione, che umiliano e dividono, perché ha maggiori e più importanti responsabilità per esercitare dialogo e unità nel PD e nel centrosinistra.

e lancio un appello anche a Piero Fassino, che questo mondo conosce e tanto ha saputo fare da Segretario dei DS in termini di dialogo politico paziente, di cucitura ampia e articolata, di alleanze politiche, di costruzione programmatica e culturale: elementi oggi molto carenti.

Gli dico: facciamo di tutto per tenere insieme il PD e frenare le fuoriuscite che sarebbero un disastro culturale, politico ed elettorale.

Fuoriuscite oggi sempre più probabili da parte di tanti che vengono quotidianamente additati di non essere unitari, di criticare, di essere “gufi rosiconi”, quando andrebbero invece coinvolti e responsabilizzati a ogni livello.

Proviamo, invece, a unire il PD condividendo ruoli e responsabilità per lavorare tutti a recuperare un pensiero complessivo, organico e nella tradizione del nostro mondo e sul nostro mondo.

E facciamolo anche impegnandoci a mettere in programma, già alla Conferenza programmatica, la convocazione istituzionale di una nuova Conferenza degli italici e della nuova emigrazione.

Proviamo, quindi, a lanciare il cuore tanto in alto quanto alto è l’ostacolo che ci si presenta nel 2018.

Anche così io ho voluto cogliere ieri le parole sagge di Marina Sereni e oggi quelle di Marco Fedi.

In questo senso faccio ancora gli auguri ad Anna Grassellino, affinché possa riuscirci meglio di come abbiamo fatto fin qui.

Grazie a tutti e buon lavoro.