venerdì 7 dicembre 2007

Monongah monito per il PD e il centrosinistra

Esattamente un secolo fa, il 6 dicembre 1907, nella miniera di Monongah, una cittadina americana del West Virginia, si verificò la più grande e dimenticata tragedia sul lavoro dell’emigrazione italiana. Nelle gallerie sature di grisou, una scintilla provocò una serie di terribili esplosioni che causarono la morte “ufficiale” di 362 minatori, di cui 171 italiani. Ma in realtà le vittime furono molte di più: 936 i morti accertati, di cui almeno cinquecento italiani. Di molti non si conosce il nome, perché lavoravano senza documenti e senza venire registrati. Si sa solo che molti erano bambini, perché ogni minatore era solito portare con sé due o tre aiutanti con cui dividere il lavoro e l’umile paga. Spesso erano i figli o i nipoti dei minatori ufficiali.

Questa tragedia dimenticata, a distanza di un secolo, ha riscoperto su un piano storico, sociale ed etico una la forza evocativa che meritava, tale da indurre a un più giusto ed equilibrato rispetto della verità chi oggi ne parla o se ne occupa a vario titolo.
Una prima verità che oggi si è fatta strada è quella che vede il numero delle vittime molto più alto rispetto a quello dei dati ufficiali e, in questo, molto più alto è naturalmente il numero delle vittime italiane. Una verità che rimanda immediatamente ad analizzare le condizioni di sfruttamento, di clandestinità e irregolarità in cui i lavoratori immigrati erano inseriti in quel contesto.
La proiezione di questa tragedia sul piano sociale è stata dimenticata quasi per un secolo
e va al di là delle circostanze storiche in cui la tragedia si consumò.
Essa non bastò a rendere inammissibili le condizioni di sfruttamento, precarietà e rischio in cui i minatori erano costretti a vivere e a prestare il proprio lavoro, come non stimolò nessuna particolare spinta all’affermazione di una legislazione tendente al riconoscimento dei diritti e alla sicurezza sul lavoro. Almeno in Italia dovranno passare ancora molti decenni. Nella lotta per la sicurezza, molte forze, non solo padronali, si opposero e frenarono, a danno di migliaia di lavoratori.

Da tempo ormai, nonostante il lungo e positivo percorso di integrazione nel quale si sono incamminati gli immigrati negli Stati Uniti e in Europa, i problemi dell’occupazione, della sicurezza del e sul lavoro e del riconoscimento di una piena cittadinanza, si sono ripresentati con una veste nuova, ma con la medesima forza di un tempo, sia per il macigno delle crisi economiche sempre dietro l’angolo, che per il riproporsi di nuovi e intensi flussi di immigrazione. Ma anche per il crescere di nuovi atteggiamenti xenofobi e razzisti, ispirati da chi poi li utilizza biecamente per ragioni di mero consenso politico.

La realizzazione, almeno da questa parte dell’Atlantico, di un’Europa sociale rappresenta, oggi, un traguardo attualissimo e necessario a cui tendere. Ma questo traguardo non è fatto solo di commemorazioni e affermazioni retoriche (che si parli di Monongah o di Marcinelle). Comporta una ferma volontà politica riformatrice e solidaristica al medesimo tempo, insieme alla coerenza delle risposte legislative prodotte sia a livello di Unione europea che di governi nazionali.
Monongah deve essere, inoltre, un patrimonio etico vivo e stimolante. Insieme ai lavoratori italiani morti nell’esplosione ce n’erano centinaia di altri provenienti da diversi paesi e continenti, tutti a condividere lo stesso destino.

E non è questo ciò a cui oggi assistiamo in Europa, divenuta porto delle speranza e dei sogni di milioni di disperati che vi approdano dalle zone povere e in guerra di tutto il mondo?
Rievocare i morti di Monongah in chiave di sola italianità, dunque, senza saper assicurare pari diritti e dignità a chi, come loro, si è visto costretto ad abbandonare il proprio Paese e la propria famiglia per cercare una speranza e un futuro in realtà diverse, significherebbe eliminare il peso e il valore storico e umano del sacrificio di quei lavoratori e scivolare in uno dannoso gioco di appartenenze, da cui si alimenterebbe il seme delle tensioni e delle divisioni tra i più deboli.
Dignità e libertà non sono scindibili e fin quando agli immigrati, solo perché tali, saranno negati diritti e possibilità di sviluppo, verrà meno e sarà offesa la loro dignità: sia di quelli che “non ce l’hanno fatta” che di “quelli che l’hanno fatta”.

A Monongah, per i minatori che lavoravano in condizioni di estremo pericolo, non erano state previste "vie alternative di uscita". Per questo, parafrasando un giovane leader della Sinistra della mia adolescenza, potrei dire che oggi, “la ragione della nostra storia, è quella che ci fa pensare alla trasformazione del mondo come a un obiettivo al quale non vogliamo rinunciare. E’ la ragione che ci fa sentire tutto il peso dell’ingiustizia che si compie quando gli assassini rispettati, quelli che ogni giorno ‘non prevedono vie d'uscita’ per troppi di noi, continuano a fare i propri interessi sulla pelle della povera gente: ieri dei contadini, degli operai e dei minatori, oggi magari dei senegalesi e di quanti, troppo deboli o troppo onesti, non ce la fanno. Facciamo politica perché crediamo giusto e necessario costruire quante più vie d'uscita ci è possibile. Siamo dalla parte di chi pensa a una società nella quale, prima o dopo, di sistemi di vie d'uscita non ci sia più bisogno. Per nessuno”.

Monongah, dunque, deve essere per il Partito Democratico, per il centrosinistra e per l’Italia, più che un simbolo e un motivo di commemorazione, ma un impegno a proseguire nella costruzione di una piena cittadinanza e di un’Europa sociale a beneficio anche degli immigrati di oggi. Di tutti gli immigrati e non solo di quelli che sentiamo più vicini per storia e legami.
P.S. Per chi voglia vedere il film-documentario di Silvano Console sulla tragedia, l'unico documento audiovisivo disponibile su questo evento, può cliccare su:
Per questo pregevole lavoro un ringraziamento particolare va agli amici della Filef