lunedì 13 giugno 2016

Italici. Il nuovo Commonwealth come fattore di business per le imprese italiane sui mercati esteri

Questa mattina ho partecipato a Monza al convegno sugli Italici. Ho detto queste poche cose. 
Buona lettura.

 
Buongiorno. Grazie agli organizzatori per aver pensato un evento come questo, che guarda al business italiano in un’ottica innovativa di geopolitica: quella degli italici.
 

Dopo più di 150 anni l’Italia continua a essere un Paese di emigrazione, con una consistente presenza italiana nel mondo.

In questo periodo abbiamo avuto a fasi alterne una politica migratoria.
A volte politiche intelligenti, altre volte politiche inefficaci, altre assenza di politiche generali su questo universo.
Per molto tempo si è discusso – e lo si fa anche oggi – di quali siano i problemi in patria legati all’emigrazione, di come arginarla.
Oggi, poi, va molto di moda la retorica dei “cervelli in fuga”.
Si fanno discussioni, anche corrette, su quanto lo Stato abbia investito nel formare cervelli (o forza lavoro in generale). Di quale perdita rappresenti per l’Italia consegnare questo capitale umano a paesi che ne beneficiano a costo zero.
E si ragiona su politiche che dovrebbero porre un freno a questo esodo e, qualche volta, su provvedimenti che hanno l’illusorio intento di invertire la direzione e far rientrare chi è partito.
Ma raramente si discute seriamente su cosa siano coloro che se sono andati, i loro discendenti, le loro famiglie, coloro che italiani non sono, ma che all’Italia guardano.
Raramente si discute con cognizione e volontà progettuale di cosa sia questa comunità che Bassetti chiama di italici.
E ancor meno si discute di come pensare, valorizzare, mettere l’Italia in connessione sentimentale, culturale, sociale ed economica con gli italici.
Sarebbe già un risultato di compensazione economica rispetto a quanto l’Italia ha investito nel formare cittadini, lavoratori e consumatori, che poi ha regalato a paesi nostri competitor.
Eppure questo universo mantiene un legame con l’Italia, fatto di consanguineità, radice culturale, affetto, interesse (culturale o economico).
Consuma prodotti italiani (dei quali va fiero), crea un substrato fertile che veicola la nostra cultura: intesa come modello di stile di vita e come offerta di prodotti culturali con conseguente risvolto economico.
Si tratta di una collettività fatta di milioni di persone che si rapporta anche istituzionalmente con l’Italia.
E che vorrebbe farlo anche meglio, in modo più strutturato e meno dispersivo da un punto di vista politico e strategico, perché sa di essere un pezzo di politica estera e di proiezione internazionale.
Ma che per farlo avrebbe bisogno di una cabina di regia adeguata, di essere pensata e valorizzata come uno dei pezzi di una megadiplomazia che lavora come sistema Paese a determinati obiettivi.
Una megadiplomazia fatta dalla diplomazia ufficiale, ma anche da quella economica (gli imprenditori), da quella solidale delle ong, da quella della stessa massa umana di italici.
Ma ancora oggi questa comunità valoriale ed economica non è riconosciuta come tale e parte del sistema Paese.
Eppure ha sue istituzioni di rappresentanza articolate in tre livelli:
quello di base dei Comites, che coincide con le circoscrizioni consolari;
quello intermedio del CGIE, che coincide con i livelli statali e continentali, che fa capo alla Farnesina;
quello nazionale parlamentare, fatto di 18 eletti all’estero nei due rami del Parlamento.
Oggi è in corso una riflessione sulla riforma di queste istituzioni e delle realtà associative, che spero porti a un’organicità di strumenti e strategia politica verso le comunità italiche e a un investimento politico (ed economico) in chiave contemporanea in diffusione di lingua, cultura e impresa italiana, di servizi ai cittadini e alle imprese, di valorizzazione e riconoscimento di questo universo italico in un contesto di politica estera e proiezione del sistema Paese.
Sistema che, in una società globalizzata, più di ieri mette al centro gli scambi commerciali a livello planetario:
quindi la circolazione dei prodotti, siano essi materiali, culturali, ideali o politici.
Ma metta al centro questi scambi e prodotti, però, con un approccio progressista, che abbia in mente lo sviluppo sostenibile e le “risorse umane”, o meglio le “Persone”, in particolare le nuove generazioni e gli esponenti della nuova emigrazione e degli italici in generale.
Ciò in quanto le imprese esistono perché c’è gente che vi lavora e investe la propria capacità creativa, oltre che per il capitale che vi è investito.
Occorre evitare che si affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione di penetrazione commerciale e di marketing.
Se ci si muove su scenari globali, a prescindere dalla funzione sociale che anche l’impresa globale dovrebbe assumere rispetto al Paese che l’ha generata o al quale si richiama, si rischia di operare un ulteriore esproprio di valore del territorio e della cultura originale (che è fatta di capitale investito, sì, ma anche di diverse generazioni di lavoratori manuali o intellettuali che questo capitale hanno valorizzato).
Quindi, il profitto deve tornare percentualmente anche a chi lo ha generato e prodotto (siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare solo i capitali investiti. 
Se l’italianità è un valore, occorre ricordare che ci sono voluti 2.000 anni di cultura per concretizzarlo e sarebbe sbagliato appropriarsene solo su un piano economico (che pure deve esserci).
Alla fine degli anni ‘70, la Fondazione Agnelli aveva riconosciuto in un suo bellissimo studio, che la penetrazione commerciale di FIAT all’estero era stata molto agevolata dalla presenza di comunità italiane emigrate.
Significa che l’impresa italiana trae un vantaggio di marketing gratuito dalle comunità italiche.
E se noi questo vantaggio spontaneo lo sappiamo organizzare avremo grandi e ulteriori chance anche ideali.
Ma qual è il contributo che poi da queste nuove chance riversiamo sulle persone e sulla comunità?
Penso ai paesi in via di sviluppo, che non possono considerati solo come mercati di sbocco, dove le nostre comunità siano solo accettori e volani di made in Italy.
Qui occorre dare un forte contributo allo al progresso e all’autosufficienza locale.
In una chiave di nuovo Umanesimo italiano.
Ma rimanendo al piano competitivo e strategico, sappiamo che nel sistema globale si gioca sulla base dei rapporti di forza più che con spirito solidale e redistributivo.
Chi ha più forza, risorse economiche, idee e strumenti, riesce a far circolare i propri prodotti e piazzarli meglio sul mercato globale.
Come sostiene una delle massime menti del marketing globale, Mary Douglas, il prodotto oggi non coincide con il suo contenuto, ma con il suo racconto.
Una regola che vale particolarmente per l’Italia, patria del “Cunto de li Cunti”, che fu forse nel pieno barocco del ‘600 il primo straordinario market place del made in italy, dove la dieta mediterranea veniva declinata lungo la linea della magia della commedia dell’arte.
Oggi siamo alla fase suprema di questa strategia, e proprio in questo tornante il nostro Paese si trova disarmato, senza linguaggi e senza lingue.
In questo senso un tema che ancora oggi è un buco nero, riguarda  la TV italiana nel mondo, che il racconto dell’Italia dovrebbe fare più di altri.
Alle nostre spalle abbiamo anni di esperienze infelici.
Ma al contempo, difronte, una straordinaria domanda di italianità.
Non si tratta, però, di riproporre una TV bandiera, che trasmetta  un palinsesto di quanto va in onda in Patria.
Ma di trasformare un obbligo in una strategis, un costo in un affare.
Le nuove forme della TV (personale, on demand, leggera, mixata) ci consentono di riproporre l’essenza stessa dei nostri prodotti in una versione televisiva.
L’idea è quella che ritorna ogni volta: lavorare sullo sfondo più che sulla scena.
Come spiega il giornalista Rai Michele Mezza, occorre costruire colonne sonore e visive che siano di integrazione e di accompagnamento agli eventi che il made in italy organizza nel mondo e in Italia.
Occorre farne un’agenzia di riconfigurazione dell’offerta comunicativa italiana puntando, ad esempio, sulle agenzie di contenuto italiano come i Festival, l’Auditorium della musica di Roma, la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, le Università di qualità ecc…
Assicurare un striscia di informazione sui primati italiani: il mondo e la politica internazionale letti attraverso la geopolitica dell’eleganza, del gusto, della bellezza e della qualità.
Trasformare i musei in format, facendoli parlare.
Trasformare la TV in un centro di traduzione e reimpaginazione del modo italiano di produrre nei vari settori delle sue imprese che guardano ai mercati esteri.
Rai Italia dovrebbe quindi sviluppare una politica di sponsorizzazioni, alleanze e coordinamento con enti, istituzioni e imprese proiettati all’estero, con gli influencer più rappresentativi (tra i quali gli italici), con i distretti di produzione e di eccellenza in Italia e italiani nel mondo.
Occorrerebbe costruire un sistema audiovisivo che sia una piattaforma di coinvolgimento dove si guardi, si ascolti, ma si interviene anche e si acquista o si chiede, un market place della bellezza da modellare area per area, città per città, settore per settore.
E basti immaginare, in questa direzione, una struttura leggera che seleziona priorità (design italiano negli USA, sfondamento dell’enogastronomia in Cina, moda e design italiani in Sud America, arredo design in Asia e Americhe) e allo stesso tempo funge da editore di pacchetti multimediali, dove il web diventa la fabbrica aperta e la TV un network distributivo.
Il tutto intorno a una visione globale e di medio periodo nella geopolitica italiana.
Insomma, per chiudere, bisogna tornare a darsi una politica per gli italici che porti a considerarli ciò che sono: un pezzo consistente, fondamentale e strategico della presenza e proiezione italiana nel mondo.
Grazie e buon lavoro.