lunedì 10 dicembre 2007

Van Loon. Dedicata a Davide

Venerdì scorso è morto a Mezzegra, sul lago di Como, il padre di Davide Van de sfroos, cantautore tra i più originiali del nostro panorama musicale, impegnato in una difficile quanto valida operazione culturale: quella di riscoprire, in un mondo globalizzato, l'importanza del proprio dialetto, delle proprie radici e della propria cultura, dando ai luoghi in cui vive e al suo popolo una dignità letteraria che passa proprio attraverso l'uso del dialetto locale, che con Davide diventa lingua d'arte universale, così come i posti, i personaggi e le emozioni che popolano le sue canzoni.
A Davide, quindi, voglio dedicare un brano di Francesco Guccini, uno dei padri del cantautorato italiano. Un brano che Guccini scrisse proprio per il padre, che qui chiama Van Loon, come il divulgatore fiammingo della prima metà del secolo scorso.
Ho scelto questa canzone perché racconta anche il grande rispetto di Guccini per il genitore in seguito deceduto, la complessità dei rapporti familiari e un certo sentimento di fraternità. Ma anche e soprattutto perché Guccini racconta, attraverso la figura del padre, come la cultura non sia "l'aver letto più libri", ma il saper trovare un senso alla propria vita, anche facendo ciò che la società ci ha costretti a fare, o dare un senso alla propria vita, facendo ciò che invece si desidera fare, indipendentemente dai risultati ottenuti.

Van Loon, uomo destinato direi da sempre ad un lavoro più forte
che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare
sembrò quasi baciato da una buona sorte
quando dovette andare;
sembra però che non sia mai entrato nella storia,
ma sono cose che si sanno sempre dopo,
d'altra parte nessuno ha mai chiesto di scegliere
neanche all'aquila o al topo;
poi un certo giorno timbra tutto un avvenire
od una guerra spacca come una sassata,
ma ho visto a volte che anche un topo sa ruggire
ed anche un'aquila precipitata...

Quanti anni, giorno per giorno, dobbiamo vivere con uno
per capire cosa gli nasca in testa o cosa voglia o chi è,
turisti del vuoto, esploratori di nessuno
che non sia io o me;
Van Loon viveva e io lo credevo morto
o, peggio, inutile, solo per la distanza
fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d'allora,
la mia ignoranza:
che ne sapevo quanto avesse navigato
con il coraggio di un Caboto fra le schiume
di ogni suo giorno e che uno squalo è diventato,
giorno per giorno, pesce di fiume...

Van Loon, Van Loon,
che cosa porti dentro, quando tace
la mente e la stagione si dà pace?
Insegui un' ombra o quella stessa pace l'hai in te?
Vorrei sapere
che cosa vedi quando guardi attorno,
lontani panorami o questo giorno
è già abbastanza, è come un nuovo dono per te?

Van Loon, Van Loon,
a cosa pensi in questo settembrino
nebbieggiare alto che macchia l'Appennino,
ora che hai tanto tempo per pensare, ma a chi?
Vai, vecchio, vai,
non temere, che avrà una sua ragione
ognuno ed una giustificazione,
anche se quale non sapremo mai, mai!

Ora Van Loon si sta preparando piano al suo ultimo viaggio,
i bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente,
o meglio, il bagaglio, quello consueto, di un semplice o un saggio,
cioè poco o niente
e andrà davvero in un suo luogo o una sua storia
con tutti i libri che la vita gli ha proibito,
con vecchi amici di cui ha perso la memoria,
con l'infinito,
dove anche su quei monti nostri è sempre estate,
ma se uno vuole quell'inverno senza affanni
che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo,
dei suoi diciottanni,
dei suoi diciottanni...