lunedì 1 agosto 2016

L'umanesimo degli italiani nei nostri tempi mitici

Lunedì primo agosto sono stato intervistato da Riccardo Giumelli per La voce di New York e ho detto  queste cose. Buona lettura.                         
Da tempo si occupa di emigrazione, tema su cui ha scritto "Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana". Con Eugenio Marino abbiamo discusso di italicità e di made in Italy che, ci ha detto, deve andare oltre il marketing.
 
Raccontare la cultura italiana e gli italiani nel mondo è uno dei temi di questa rubrica. Per saperne di più e qualcosa di nuovo abbiamo incontrato Eugenio Marino, responsabile nazionale del Partito Democratico per gli italiani nel mondo, che da tempo si occupa di emigrazione, tema sul quale ha scritto un libro molto intrigante: Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana, una ricostruzione storica dell’Italia degli ultimi 150 anni attraverso la musica italiana che parla di emigrazione.
 
Innanzitutto ci racconti come arriva a fare politica e soprattutto ad occuparsi di italiani nel mondo all’interno del PD.
“Ho cominciato da bambino, al fianco dei miei genitori e loro coetanei, in un piccolo paese della Calabria, dove la domenica mio padre mi faceva distribuire l’Unità e poi, crescendo, cominciavo a fare gli annunci per i comizi, distribuire i volantini fatti al famoso ciclostile, attaccare i manifesti e fare vita di sezione. A quei tempi – anni Settanta e Ottanta – le sezioni del PCI e della FGCI del mio paese erano molto attive e vi era una comunità unita nella quale si respirava un vento di speranza e condivisione, che derivava da una forte tensione etica e politica. C’erano giovani brillanti, ai quali la generazione precedente uscita dalla Guerra aveva saputo trasmettere una severa cultura politica e una voglia di riscatto collettivo. E questo valeva anche per i nostri avversari di allora, seppure parliamo di un paese di circa 2.000 persone. Poi c’era la Federazione del PCI di Crotone, territorio delle lotte contadine di Melissa e la città operaia della Montedison, epicentro di battaglie politiche e sindacali storiche, che rappresentava un caso politico in positivo. Quella Federazione era chiamata la Botteghe Oscure del Sud e io la frequentavo settimanalmente coi miei genitori fin da bambino. Di quegli anni mi resta, quindi, un senso di comunità e di appartenenza che sono, forse, l’essenza più autentica della politica. E tutto questo contesto, vissuto attraverso l’impegno diffuso di intere generazioni prima della mia, ha inciso molto sulla mia formazione, spingendomi da sempre a fare politica, seppure senza mai ricoprire alcun ruolo e senza mai cercare o accettare alcun tipo di candidatura”.
 
E l’interesse per gli italiani all’estero quando è iniziato?
“Dopo la laurea a Roma ho potuto collaborare da volontario al Dipartimento Internazionale dei DS. Erano gli anni storici dei governi de l’Ulivo. Allora si modificò la Costituzione (non è vero che non si riesce mai a cambiarla questa Carta), si introdusse la Circoscrizione estero e si andava verso il varo della legge ordinaria per il voto all’estero. Il mio impegno si concentrò, nel Dipartimento esteri, sulle politiche per gli italiani nel mondo e lì cominciai a ricoprire qualche ruolo: sono stato prima Responsabile comunicazione all’estero dei DS e poi del Coordinamento de L’Unione per gli italiani nel mondo, vice responsabile dei DS per gli italiani all’estero, componente del Coordinamento nazionale del PD per gli italiani nel mondo e membro del Comitato di controllo della Presidenza del Consiglio su Rai International. Fino a diventare poi Responsabile nazionale del PD per gli italiani nel mondo”.
 
Gli italiani nel mondo sono da molti, soprattutto in politica e negli affari, considerati i primi ambasciatori dell’Italia nel globo. Non le sembra che spesso siano parole piuttosto che fatti? Nel senso che il bisogno di Italia di questi italiani nel mondo è molto più forte delle attenzioni e del riconoscimento che l’Italia dà loro?
“No, non proprio. Nel senso che gli italiani nel mondo sono naturalmente e realmente i primi ambasciatori dell’Italia, perché rappresentano il nostro Paese agli occhi di chi li ospita, la nostra cultura in tutti i suoi aspetti, i nostri pregi e i nostri difetti. E sempre naturalmente e di fatto sono ‘consumatori’ di prodotti italiani che sentono loro, che fanno parte della loro vita, della loro storia (familiare e nazionale), dei loro gusti. Poi, nel senso critico che lei giustamente sottolinea rispetto alla politica e all’impresa, in entrambi questi ambiti non si riesce a fare realmente sistema e a tenere questi ‘ambasciatori naturali’ dell’Italia e dei suoi affari in una rete organizzata, con una visione chiara e universale, un progetto preciso, una geopolitica adeguata ai tempi, delle strutture razionali e flessibili, delle risorse adeguate. E, inoltre, gli stessi italiani in Patria, per decenni hanno coltivato un sentimento di rimozione della storia migratoria del nostro Paese. E ancora oggi, guai a parlarne o a riconoscere negli immigrati che arrivano da noi gli italiani che si sono dispersi nel mondo. Guai a ricordare che essi hanno agito esattamente come i migranti di oggi, hanno subito le stesse discriminazioni, hanno seminato le medesime paure e hanno compiuto i medesimi crimini: era italiano l’assassino del presidente della Francia, Carnot, era italiano il terrorista che compì la strage di Wall Street del 1920 (che rimarrà la più sanguinosa della storia degli USA fino quella di Oklahoma City del 19 aprile del 1995). E potrei continuare anche sul versante dell’integralismo religioso di cui erano accusati gli italiani nei paesi laici. Quindi, gli italiani nel mondo sono, nel bene e nel male, realmente degli ambasciatori naturali dell’Italia e dei suoi prodotti e, lo sono perché ricordano e amano il proprio Paese anche se il proprio Paese non riesce a coltivarne a pieno le potenzialità, sia per un problema politico che culturale in patria. Insomma, per dirla con le parole che usa l’artista Cataldo Perri nella sua opera Bastimenti, ‘i nostri emigranti certamente ricordano più di quanto siano ricordati’. E questo è un problema anche per l’Italia e non solo per gli italiani nel mondo”.
 
Conoscerà certamente questo nuovo paradigma coniato da Piero Bassetti, e di cui tanto scriviamo su questa rubrica, dell’Italicità. Cosa ne pensa?
“Lo trovo molto appropriato. Bassetti ha avuto una felice intuizione, che è una sintesi di molti e diversi concetti legati alla storia del nostro Paese, alla sua cultura, al suo know how, alla sua diaspora globale più che centenaria, allo stile di vita e allo stile delle forme italiane, al nostro concetto del bello, alla voglia dei non italiani di vivere, consumare o creare all’italiana, alla necessità di stare al passo coi tempi. Oggi viviamo infatti un’epoca mitica (anche se il termine è stato ormai banalizzato e lo si usa per qualsiasi sciocchezza). Mitica, infatti, nel senso di straordinaria e globale, nella quale si susseguono eventi grandiosi, nel bene e nel male, nella quale ogni evento in un angolo del Pianeta può avere ripercussioni su tutto il Globo. Un’epoca nella quale le potenzialità, gli strumenti e le ricchezze sono enormi e potrebbero dare una vita degna a tutti e nella quale le disuguaglianze e gli squilibri hanno raggiunto punte mai conosciute nella storia dell’evoluzione umana. E un’epoca nella quale l’uomo del tempo è, più che in ogni altra, l’uomo in movimento, quello che si sposta, il migrante. E si sposta proprio per eventi mitici: guerre, fame, dittature, siccità o desiderio di realizzazione, anch’esso una cosa mitica. Ecco, in questi tempi, Bassetti supera il concetto di nazionalità e lo colloca in una dimensione mitica – storica e globale – adeguata ai tempi. Quindi non parla più di cittadini italiani, o di oriundi, o di partner dell’Italia, ma parla di italici, superando confini, nazionalità e cittadinanza, prevedendo cosmopolitismo e contaminazione, senza negare o cancellare una storia o una tradizione o una evoluzione. Ma anzi prendendo da questa tradizione e cultura proprio un tratto identificativo e fondante, cioè quello della mescolanza derivante dalla solidarietà e dal saper accogliere e integrare persone, culture e saper fare diversi”.
 
Il made in Italy ha certo costruito la sua grande forza e diffusione anche con il contributo degli italici nel mondo che lo ha promosso e consumato. Quale potrà essere il contributo futuro in questo senso in un mondo sempre più glocale?
“Il made in Italy si è diffuso in maniera massiccia anche per il contributo notevole degli italiani nel mondo prima e degli italici dopo, per un fatto naturale, come si diceva. Ma ha costruito la sua forza proprio su alcune caratteristiche originali, culturali e di qualità, di gusto, di particolare armonia di forme e materiali, di tradizioni. Insomma, il made in Italy è un qualcosa di molto complesso che va molto oltre un semplice prodotto, che sia esso materiale, culturale, ideale o culinario. E la complessità gli viene dal fatto di tenere insieme tutto ciò che è la storia millenaria del nostro Paese, del Mediterraneo e dell’Europa tutta, di cui l’Italia è sintesi e gli italici sono rappresentazione nel mondo. Quindi essi possono avere, ancor di più nei tempi mitici di oggi, quella funzione di esempio di mescolanza e integrazione, di ponte tra culture, know how e prodotti. Ma possono farlo solo se non perdono la centralità dell’Umanesimo che caratterizza e ha caratterizzato il nostro Paese, quella capacità di non pensare solo al profitto e al sistema di produzione, ma anche alla persona che produce e che è parte del prodotto stesso, perché nel produrre ci mette se stesso, la sua storia personale e collettiva e la sua realizzazione attraverso il lavoro. Se, dunque, per quella persona il lavoro è sfruttamento ai fini di lucro per altri, il suo impegno, la sua creatività e il suo valore saranno una cosa. Se il lavoro è invece realizzazione della propria storia (personale e collettiva) e della propria persona, allora impegno, creatività e valore saranno altra cosa e migliore”.
 
Ad un recente incontro pubblico ha sostenuto che “occorre evitare che si affermi l’idea che l’universo italico sia riconducibile alla esclusiva funzione di penetrazione commerciale e di marketing”. Che cosa intendeva con questo?
“Un po’ ciò che ho detto qui e che vale sia per chi produce qualcosa che per chi la consuma. Gli italici non devono essere pensati come tanti rappresentanti commerciali a costo zero per le imprese che producono, ma come persone con una storia, una dignità, un percorso di vita complesso e spesso anche sofferto. Quindi uomini e donne che consumano, certamente, ma con un grande orgoglio per ciò che sono. E per ciò che sono vogliono e devono essere considerati, non per ciò che fanno o possono fare per l’Italia e per il made in Italy che pure amano e li rappresenta. Se nel costruire una politica e una rete per gli italici l’approccio è questo, ci sarà orgoglio e volontà da parte loro e, di conseguenza, arriverà anche e per convinzione la penetrazione commerciale, in modo naturale. Cioè deve esserci, nel guardare a questa comunità, il giusto riconoscimento delle persone, delle loro storie e delle loro dignità in un’ottica collettiva, di comunità valoriale. Stesso discorso vale per chi produce. L’impresa deve ricordare che esiste, oltre che per il capitale che vi è investito, anche per la gente che vi lavora e investe la propria capacità creativa. Quindi il profitto deve tornare percentualmente e senza le enormi disuguaglianze di oggi, anche a chi lo ha generato e prodotto (siano esse persone o Paese d’origine), non può vagare nel Globo a valorizzare solo i capitali investiti e nelle tasche di pochissime e ricchissime persone. Deve esserci un giusto equilibrio. Le riporto due esempi che fa Antonio Galdo nel suo bel saggio L’egoismo è finito e che per me sono paradigmatici dell’impresa che tiene conto di tutto ciò, rispettando la persona, rimanendo nel solco della nostra storia, creando prodotti di grande qualità e originalità, producendo profitto e ricchezza senza generare squilibri esagerati. Il primo si colloca nella prima metà del secolo scorso, è il modello del welfare aziendale e della Città dell’Armonia di Gaetano Marzotto dove, ad esempio, la Cassa di previdenza gestiva le pensioni dei dipendenti che lasciavano l’azienda, la Cassa di soccorso erogava prestazioni sanitarie, la Società del magazzino pensava all’acquisto e allo spaccio di generi alimentari e della legna a prezzi bloccati, per impedire speculazioni e affrontare l’aumento del costo della vita in tempi di crisi. Il secondo e contemporaneo a noi, è l’esempio della Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che porta in azienda gli asili nido, la baby sitter a casa dei dipendenti in caso di emergenza, le visite specialistiche gratuite, il check-up per i parenti anziani, il carrello della spesa con olio, pasta e formaggi, la Banca ore o il job sharing, cioè il lavoro condiviso in famiglia: se un lavoratore ha problemi che si protraggono (per esempio di salute) può farsi sostituire da un parente o se un figlio sta finendo gli studi e vuole imparare un mestiere o formarsi può sostituire il padre o la madre. Ecco, sono esempi di come si può e deve evitare di pensare esclusivamente alla funzione di penetrazione commerciale e marketing e di come si può pensare come comunità valoriale e creare ricchezza partendo dalla centralità della persona, della sua storia e della sua cultura in un nuovo umanesimo, anche e soprattutto in tempi di crisi”.
 
Ci racconta un aneddoto che ha appreso in questi anni di lavoro con gli italiani all’estero che meglio li racconta?
“Ahahah… sì, volentieri. Si tratta di una lettera che ci venne inviata molti anni fa a doppia firma da presidente e vice presidente di una associazione regionale e con la quale ci si chiedeva un aiuto per avere dei contributi per ristrutturare la sede nella quale erano impegnati a diffondere la lingua, la storia e la cultura italiana. Il testo della lettera, che per ovvi motivi privo dei riferimenti a persone, luoghi e nomi di associazioni, era scritto esattamente così: ‘La Comissione Direttiva della ASSOCIAZIONE […] NEL MONDO ‘[…], a l’onore di partecipare in questa cena insiemi a tanti […], che si preoccupano di difundiri la storia e la cultura Italiana. Qui insiemi a diversi attività si insegna la lingua italiana, e folclori […]. Per potere svogliere questi progetti abbiamo construito in primo piano una sala e ora chiedemo cortesemente se Lui podrebbe tramitare dal Governo Italiano un pìcolo subsidio per mettere il tetto gia che ni vediamo impossibilitati per motivo econòmico. La sala di sopra a 100 metri cuadri. Nella sicurezza che Lui ni terra presente vi ringrazziamo caramente aspetando una pronta risposta e porgiamo i nostri férvidi e cordiali saluti’. Da allora la tengo sempre appesa nel mio ufficio perché rappresenta profondamente il legame sentimentale e culturale degli italici nel mondo con l’Italia. E non importa quale sia il loro livello di istruzione o la loro capacità di parlare, scrivere o fare impresa. Sono e si sentono parte di questa comunità, della quale avvertono il valore storico, culturale e linguistico e si ingegnano in ogni modo per tenerlo vivo e alimentarlo. E questa gente, anche umile, pur non conoscendo la lingua, ha creato nel mondo migliaia di strutture che poi hanno fatto un grande lavoro di promozione, pagando professori in grado si insegnare con qualità. Ecco perché questa lettera, nella sua umiltà, è dignitosissima, bella, emozionante e paradigmatica di cosa sia stata e sia questa nostra grande comunità, capace dal niente di costruire imperi con al centro la persona e la sua dignità”.
 
Infine, Lei ha fatto una tesi di Laurea su De André, Guccini e De Gregori. Riassumendo in poche parole, e capisco quanto possa essere difficile, qual è stato il più grande insegnamento che questi grandi artisti le hanno dato sull’Italia e sull’essere italiano?
“Beh, da loro ho imparato a usare la sensibilità per riconoscere noi nell’altro, anche il più diverso, e capire che in fondo siamo tutti uguali, con gli stessi bisogni e le stesse ambizioni. Questo mi ha fatto capire un po’ ciò che dicevo sopra: il tratto storico italico, che è quello dell’accoglienza, della mescolanza, del cosmopolitismo. Ed è tutto questo mescolare storia, popoli, culture, prodotti, che poi fa ciò che siamo. Guccini, nell’intervista che gli feci proprio per la tesi, per farmi capire come nascevano le sue canzoni e cosa fossero rispetto a tutto ciò che leggeva, ascoltava o da cui traeva ispirazione, mi disse: ‘Io amo fare il paragone […] con il maiale […]. Dai tanto cibo ad un maiale e poi quando fai il prosciutto […] non sai più quale cibo fosse quel prosciutto’. Ecco, questo vale per l’italico o per l’essere italiano: abbiamo avuto nella nostra storia patria l’occupazione dei popoli più diversi, abbiamo noi stessi girato il mondo, ci siamo mescolati con le culture, i saperi, le vite di ogni angolo del pianeta, quindi siamo oggi una sintesi di tutto ciò, siamo un prosciutto fatto da tutti i cibi che abbiamo consumato per secoli, ma ormai impossibili da distinguere gli uni dagli altri’”.