martedì 8 luglio 2008

Ma dove vanno i marinai?

Ho letto con una certa apprensione l'articolo di Fabio Bordignon sulla Repubblica di oggi intitolato “Dove va il PD”.
Dalle rilevazioni di Demos & Pi emergerebbe una tendenziale perdita di appel del Partito Democratico, percepito al suo esordio come la vera (l’unica?) novità della politica italiana e a due mesi dalla sconfitta elettorale come soggetto ‘confuso’ sotto il profilo politico/programmatico e culturale. Smarrimento e sfiducia investirebbero ugualmente il progetto politico, la strategia di opposizione al Governo e la leadership.

L’idea di un ritorno a prima dell'ottobre 2007 (ovvero ai due partiti DS e Margherita) troverebbe d’accordo il 23% di tutti gli elettori e l'11.3% degli elettori del PD.

Di questi ultimi oggi solo il 61,1% confermerebbe la scelta compiuta lo scorso 13 e 14 aprile (l’8,1% voterebbe per l'IDV, l'11,4% si asterrebbe, il 12,5% si definisce indeciso e il 7% voterebbe per un altro partito che non è l'IDV).

Ma anche quel 61% è lungi dal costituire un corpaccione omogeneo e compatto risultando viceversa attraversato da almeno due linee politiche distinte se non opposte: un 29.2% anelante una linea di opposizione più intransigente e un 39,4% che vorrebbe un maggior dialogo con questa maggioranza.

Un malessere che inevitabilmente si riflette sul Segretario del Partito, che vedrebbe il proprio gradimento in flessione dal 93.5% del marzo 2008 al 70.5% di oggi tra gli elettori del solo PD e dal 52.1% al 40.7% nell'elettorato nel suo insieme.

Ora, fermo restando che i sondaggi valgono quanto valgono (e nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi…) è evidente che numeri come questi non sono molto rassicuranti per un gruppo dirigente alle prese con la gestione di una fase delicatissima almeno sotto due fronti (peraltro tra loro intrecciati): quello interno, relativo alla definizione di un profilo e di una identità più netti e riconoscibili per il PD; e quello esterno del rapporto con la maggioranza e con le altre forze di opposizione.

Personalmente sono convinto che possiamo ancora volgere a nostro vantaggio questo passaggio stretto e accidentato. A patto però di affrontare finalmente – senza rimozioni e letture edulcorate – quei nodi che i congressi di DS e Dl hanno rimandato e che un Governo instabile e una maggioranza rissosa prima, una campagna elettorale difficile (per qualcuno disperata) poi, hanno fatto finora mettere da parte.
Mi riferisco, chi ha la pazienza di seguire questo blog lo sa già, alla necessità non più rinviabile di aprire un’autentica ‘fase costituente’ del PD che sorregga un dibattito approfondito, sincero, anche duro se necessario, nel quale il confronto sia sulle idee e sul profilo e non sugli apparati; sull’identità e la cultura di questo partito e sulle battaglie che darà e non su componenti/correnti/anime; sull’idea di Paese (e di mondo) che propone agli elettori.
Insomma, non mi rassegno al fatto che l’unico elemento di originalità nel dibattito italiano sulla globalizzazione da 15 anni a questa parte l’abbia introdotto Tremonti.
Se non faremo questo, credo sarà piuttosto inutile passare alla fase B (“ridefinizione degli assetti e delle strategie”).

Alcuni segnali incoraggianti sono arrivati. Ma penso che nuove strade, nuove parole e nuove ‘visioni’ abbiano bisogno di nuove facce e nuove teste. Per questo mi unisco a chi, riconoscendo con gratitudine i meriti non piccoli di una leadership collettiva che ha dato moltissimo alla politica e al Paese, oggi le chiede di sostenere con forza e generosità, fino in fondo, l’avanzare di una nuova classe dirigente. Fermo restando che alcuni e molto isolati pezzi di quella leadership collettiva hanno già dato esempi di questo tipo.
Tuttavia, penso che ogni leadership dovrebbe conquistare sul campo la propria credibilità, con tanto di battaglie, morti, feriti e prigionieri e non perché qualcuno, per benevolenza, stanchezza o disperazione ha deciso di farsi da parte.